Il fatto è che se si vuole pensare il cinema come un’arte di oggi
è necessario provare a guardarlo al presente, metterlo nel
contesto di quello che fuori dal cinema accade, tentare di capire come si situa
tra le immagini intorno, come a esse risponde. Non dimenticare gli strumenti
teorici e critici del Novecento, ma verificare la loro tenuta, oggi, adesso,
tra le story di Instagram, lo storytelling globale della
prima persona singolare, la tecnica democraticamente a portata di tutti, etc
etc. Il mondo, signori. Perché, altrimenti, quel che resta è la tomba di
un’arte, un pensiero antico che si confronta con l’oggi e lo schifa, mentre il
cinema invece resta, sotto ogni immagine, come un unico esperanto. Non è
necessario essere integrati, certo, ma è sterile essere apocalittici.
Bisogna aggiornarsi. Criticare The French Dispatch perché
«opera narcisista» significa etichettare come negativo un carattere preciso del
contemporaneo: perché il punto del film è esattamente quel
narcisismo, quella meraviglia formale in cui sono rinchiusi i suoi personaggi,
quel surplus di immagine (è questo il narcisismo: un io
sommerso dalle immagini) in cui lo spettatore arranca, quella messa in scena
continua che ci ammorba, e in cui ci si perde. Ricorda qualcosa? Wes Anderson,
alla sua maniera, riesce a fare forma cinematografica di un carattere del suo
tempo, riesce a farcelo esperire, intensificato, trasformato, in quelle inquadrature
in posa perfette, tra quelle frasi-aforisma, nella fatica con cui cerchiamo di
seguire l’eccesso stordente di immagini, parole, testi, narratori, io troppo
ingombranti. Come si può indicare come difetto quello che è l’esatto punto di
un’opera? Come si può dire «spostati, fammi vedere il film» a un autore il cui
cruccio non è di certo la storia che racconta, ma il come le immagini e gli
storyteller la mettono in forma, la ottundono, la distraggono, la sovrastano?
Bisogna provare a essere umili, dare agio, a un’opera, tentare di pensare che
non si è superiori a un autore, fare passi indietro, mettere in crisi la
propria misura, fare autocritica, come primo atto di critica: se mi
infastidisce una cosa, perché mi infastidisce? Cosa stanno facendo su di me,
quelle scelte? Come è possibile che io provi quello che sto provando? Cosa
vogliono, da me, quelle immagini? Che la questione non sia quello che è
raccontato, ma quello che un’opera produce sul corpo, sul sapere, sulla cultura
che portiamo dentro una sala è un dato a cui l’arte contemporanea è giunta da
tempo, ma il cinema e chi lo tratta no, per nulla, pieno Ottocento. Non è
questione solo di vieti automatismi («questo regista non vuole bene ai suoi
personaggi»: ma chi lo dice, che non si possa fare arte col sadismo?
«Quest’opera non è coinvolgente»: e chi l’ha detto che per essere riuscita,
un’opera, non possa essere fredda e anempatica?), è questione di usare la
propria misura come misura delle cose. Esattamente quello che fa l’opinionismo,
che del pensiero critico è l’annullamento. Questo non significa che tutto sia
accettabile, no: dopo questi passi indietro, dopo la prova d’umiltà, bisogna
ambire, e ambire a una grande responsabilità: quella di provare a guardare le
cose prendendo le parti (addirittura) della storia del cinema e della sua
progressione, dello stato delle cose sull’immaginario contemporaneo,
dell’economia delle immagini di ieri, di oggi, e di domani. E per fare questo,
per capire le cose che spostano i confini precedenti, le cose che colgono il
presente, quelle che propongono un futuro, bisogna conoscere. Studiare. Essere
aggiornati. Elastici e informati. Non solo sul cinema. È questo, oggi, che
dovrebbe fare la critica. Il resto è quello che possiamo leggere ovunque, non
certo una professione: opinionismo, con in calce una firma.
Grande intervento che condivido in pieno. Ma del resto Sangiorgio è uno dei migliori, da anni.
RispondiEliminaho sempre pensato che chi oggi scrivesse una storia del cinema dovrebbe fare un capitolo a parte per Wes Anderson, è una cosa a parte, e misurare la lunghezza con i litri e i quintali non funziona.
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