domenica 26 dicembre 2021

IL MANICHINO, LA MARIONETTA E L'AUTOMA: RIFLESSIONI SU UNA “DEMONIACA” OSSESSIONE - Nicolò Vigna

  

[…] com’è strano quando il vento gioca con gli oggetti inanimati. È quasi miracoloso il modo in cui cose che giacciono in giro senza un briciolo di vita improvvisamente cominciano a svolazzare.
– Gustav Meyrink, Il Golem

Tra le scelte più singolari adottate da Leos Carax nel suo recente Annette [id., 2021] vi è quella di rappresentare la figlia dei due protagonisti come una marionetta vivente. La bambina, infatti, non solo è dotata di una voce celestiale che la fa innalzare in volo durante le sue esibizioni canore: a rendere la sua presenza straniante per lo spettatore sono soprattutto le sue fattezze artificiali.

Questa sua natura “macchinica” che non sembra essere percepita dagli altri personaggi del film, oltre a intensificare l’atmosfera irrealistica dell’opera, evoca una tradizione (letteraria, teatrale e cinematografica) che vede nelle figure della marionetta, dell’automa e del manichino elementi di grande ispirazione. Annette si rivela dunque lo spunto ideale per prendere in considerazione alcune modalità narrative e stilistiche adottate al cinema nella rappresentazione di questi particolari oggetti che riproducono le fattezze umane, e come la loro affascinante presenza (nonché la loro “demoniaca” animazione) dia corpo a storie morbose e inquietanti.

Il feticcio del desiderio

Più che alla letteratura per l’infanzia e al già ricordato Pinocchio collodiano, vorremmo qui riferirci a due altre tradizioni interessate alla rappresentazione della animazione di esseri inanimati: quella gotico-fantastica ottocentesca e quella delle avanguardie del primo Novecento. Della prima vogliamo ricordare i nomi di Villiers de l’Isle-Adam con il suo Eva futura (del 1886); di Mary Shelley con Frankenstein (o il Prometeo Moderno, 1816-1817); e poi naturalmente il maggiore rappresentante della tradizione gotico-romantica tedesca: Ernst Theodor Amadeus Hoffmann.
D’altronde, è proprio dalla Germania che provengono le suggestioni più significative riguardo a questi temi. Come ricorda la nota studiosa Lotte Eisner, l’«animazione dell’inorganico» che coinvolge queste storie spettrali fa in qualche modo parte della cultura tedesca: non solo perché «abituati alle leggende primitive di animare gli oggetti. Nella comune sintassi della loro lingua, gli oggetti hanno un vita attiva, compiuta: si usano per parlare di essi gli aggettivi e i verbi usati per parlare degli oggetti animati […].»1
Il cinema muto tedesco, espressionista e non, ha dato largo spazio alla figura dell’automa, ad esempio con la serie Homunculus [id., Otto Rippert, 1916]; poi con le due versioni del Golem (1914 e 1920) ad opera di Paul Wegener; con lo sberleffo di Ernst Lubitsch con Bambola di carne [Die Puppe, 1919]; con Metropolis [id., Fritz Lang, 1927]), e, alle soglie del sonoro, con La mandragora [Alraune, Henrik Galeen, 1928], sempre con Brigitte Helm nei panni di una donna dalle origini “artificiali” come il robot di Metropolis...

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