[…] com’è strano quando il vento gioca con
gli oggetti inanimati. È quasi miracoloso il modo in cui cose che giacciono in
giro senza un briciolo di vita improvvisamente cominciano a svolazzare.
– Gustav Meyrink, Il Golem
Tra
le scelte più singolari adottate da Leos Carax nel suo recente Annette [id.,
2021] vi è quella di rappresentare la figlia dei due protagonisti come una
marionetta vivente. La bambina, infatti, non solo è dotata di una voce
celestiale che la fa innalzare in volo durante le sue esibizioni canore: a
rendere la sua presenza straniante per lo spettatore sono soprattutto le sue
fattezze artificiali.
Questa
sua natura “macchinica” che non sembra essere percepita dagli altri personaggi
del film, oltre a intensificare l’atmosfera irrealistica dell’opera, evoca una
tradizione (letteraria, teatrale e cinematografica) che vede nelle figure della
marionetta, dell’automa e del manichino elementi di grande ispirazione. Annette si
rivela dunque lo spunto ideale per prendere in considerazione alcune modalità
narrative e stilistiche adottate al cinema nella rappresentazione di questi
particolari oggetti che riproducono le fattezze umane, e come la loro
affascinante presenza (nonché la loro “demoniaca” animazione) dia corpo a
storie morbose e inquietanti.
Il
feticcio del desiderio
Più
che alla letteratura per l’infanzia e al già ricordato Pinocchio collodiano,
vorremmo qui riferirci a due altre tradizioni interessate alla rappresentazione
della animazione di esseri inanimati: quella gotico-fantastica ottocentesca e
quella delle avanguardie del primo Novecento. Della prima vogliamo ricordare i
nomi di Villiers de l’Isle-Adam con il suo Eva futura (del
1886); di Mary Shelley con Frankenstein (o il Prometeo
Moderno, 1816-1817); e poi naturalmente il maggiore rappresentante della
tradizione gotico-romantica tedesca: Ernst Theodor Amadeus Hoffmann.
D’altronde, è proprio dalla Germania che provengono le suggestioni più
significative riguardo a questi temi. Come ricorda la nota studiosa Lotte
Eisner, l’«animazione dell’inorganico» che coinvolge queste storie spettrali fa
in qualche modo parte della cultura tedesca: non solo perché «abituati
alle leggende primitive di animare gli oggetti. Nella comune sintassi della
loro lingua, gli oggetti hanno un vita attiva, compiuta: si usano per parlare di
essi gli aggettivi e i verbi usati per parlare degli oggetti animati […].»1
Il cinema muto tedesco, espressionista e non, ha dato largo spazio alla figura
dell’automa, ad esempio con la serie Homunculus [id., Otto
Rippert, 1916]; poi con le due versioni del Golem (1914 e
1920) ad opera di Paul Wegener; con lo sberleffo di Ernst Lubitsch con Bambola
di carne [Die Puppe, 1919]; con Metropolis [id.,
Fritz Lang, 1927]), e, alle soglie del sonoro, con La mandragora [Alraune,
Henrik Galeen, 1928], sempre con Brigitte Helm nei panni di una donna dalle
origini “artificiali” come il robot di Metropolis...
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