martedì 4 agosto 2020

Frances Ha - Noam Baumbach

Frances cerca la sua strada nel mondo, sta crescendo ancora, vorrebbe essere forever young, ma non si può forever, forse.
vorrebbe fare la ballerina, e poi la maestra di danza, ma non è facile, vorrebbe stare col la sua amica di sempre, Sophie, ma poi questa si sposa. conosce dei ragazzi, Benji (visto anche qui) e l'unico con cui si capisce, magari perché non sono tipi di successo.
speriamo che Frances trovi la sua strada.
non perdetevi Frances Ha, non potrete restare indifferenti - Ismaele




Nella sua parabola di autodeterminazione, alla ricerca di un posto nel mondo, Frances imparerà progressivamente, con fatica, a scendere a patti con le contingenze, a rinunciare a utopie e aspirazioni vane, a investire nelle opportunità che le vengono offerte, a incassare un rifiuto o un abbandono, pur mantenendo sempre (e scoprendo) la sua identità.
Naïf e anticonformista nel senso più profondo e meno salottiero del termine, Frances è una donna "versus", come la Lola di un altro famoso film della Gerwig, che non ha paura di correre da sola, controcorrente, di inciampare e di sbagliare, se capita. E che quando riesce a trovare il ritmo giusto per smettere di agitarsi vorticosamente su se stessa e progredire realmente, può anche permettersi di affermare, seduta e insolitamente posata: "Mi piacciono le cose che sembrano errori". Dopo tanto caos e confusione, il sospiro liberatorio nella placida tranquillità del suo nuovo appartamento ha il sapore di una conquista. Che sia questo, in definitiva, crescere?
…A parte la fotografia e la musica (magnifica la colonna sonora, ancor più magnifico l’accordo con le immagini: che dire della parte girata a Parigi?), ciò che colpisce più è il modo in cui vengono assemblati i piccoli aspetti della vita di Frances: “situazioni” di pochi secondi montate in modo da richiamare, più che descrivere, la sua insicurezza, oltre che la sua tenerezza; “situazioni” che non si trovano nel film per avere un seguito o per essere approfondite, ma solo per aggiungere un tassello in più alla personalità della sua protagonista. Se la fotografia quindi ha un valore evocativo, il montaggio ha un valore squisitamente descrittivo, ancor più di quello strutturale. E’ in questi piccoli dettagli, più ancora che nelle scene madri, che cogliamo il vero spirito della pellicola.
Frances Ha ci piace perchè non ha enormi ambizioni; ci piace perchè ha anche consapevolezza dei propri limiti; ci piace perchè ha un lieto fine ma soprattutto nessun pistolotto retorico sulle crisi generazionali; ci piace per quelle piccole situazioni così ben cesellate: situazioni che danno una parvenza di felicità a Frances Ha, e a quelli che andranno (speriamo) a vedere questo delizioso, splendido film.

Frances Ha è un film che realizza un’estetica della levitas, vocabolo latino che in sé racchiude tutte le sfumature di significato che spaziano da “leggerezza” a “inconsistenza”, “volubilità”. La protagonista, ventisettenne newyorkese ancora adolescente, incarna alla perfezione queste qualità caratteriali, che si riflettono nella sua eccentricità, rispetto al contesto sociale che la circonda. Si può parlare di eccentricità, e non di estraneità o alienazione: Frances infatti ha una migliore amica, con cui condivide casa, letto, persino le sigarette, ed è apprendista in un’accademia di danza classica presso la quale sogna di diventare coreografa. Ma nel momento in cui Sophie, l’amica di sempre, decide di trasferirsi prima a Tribeca, con una sua collega, poi in Giappone, con il proprio compagno, pare che la realtà idilliaca in cui la protagonista conduceva un’esistenza felice e spensierata si dissolva improvvisamente. Non assistiamo tuttavia a uno scontro drammatico e violento con la “vera” realtà, come ci si potrebbe aspettare, bensì a un continuo vagare della protagonista attraverso svariati luoghi, anzitutto “spaziali” (varie zone di New York, Sacramento, Parigi), ma al tempo stesso “sociali” (i nuovi coinquilini, il gruppo di amici della compagna dell’accademia, i parenti a Sacramento). Frances non è mai davvero estranea ad alcuno di questi contesti, senza tuttavia riuscire a esserne realmente parte: la giovane pare muoversi in un non-luogo, in un universo personale di cui è l’unica abitante e di cui gli altri personaggi non riescono a decifrare le regole e i significati…

Difficile trovare le coordinate di riferimento ma, oltre ad un certo gusto favolistico e bizzarro tipico di Anderson, non può che venire in mente il miglior Woody Allen (e un po’ mi dispiace citarlo così, come tutti hanno fatto!). Si, Allen e il suo Manhattan vengono in mente, oltre che per la comune fotografia in bianco e nero, per l’uso non banale che viene fatto di New York. Senza citarne i suoi luoghi iconografici, ma facendone diventare iconografici i luoghi attraverso la storia di Frances, dando valore affettivo a tutti i luoghi che appartengono alla storia della sua protagonista.
Insomma un gioiello da non perdere (per inciso con una bellissima colonna sonora) che passa attraverso la caparbietà e l’elogio delle cose che sembrano errori come, sovente, è la nostra vita.

Forse la colonna sonora studiata alla perfezione – una furbissima selezione che va dagli Hot Chocolate e David Bowie a Mozart – o forse l’espressività senza tempo del volto della Gerwing, che ricorda per intensità quello di Kate Winslet; la sceneggiatura che funziona sempre e la sofisticata fotografia in bianco e nero: dopo aver visto Frances Ha si ha quel buonumore soddisfatto di quando si è scelto il film giusto. Che ci si senta o no raccontati in questa storia newyorkese, che si condivida o si biasimi il metodo un po’ ingenuo della protagonista, foriero di continui passi falsi e disfatte, alla fine, nonostante tutto, si avrà meno paura del vuoto e per un attimo non sembrerà impossibile resistere al grande inganno. Per un attimo non sembrerà impossibile rimanere se stessi.

La pellicola, inoltre, trasuda cinema – e amore per lo stesso – da ogni fotogramma. Questo non vuol dire che la sua opera si riduca a una collezione di citazioni colte bensì, al contrario, indica la capacità di interiorizzare una passione, trasformandola in concetto e riconsegnandola con un’inedita consapevolezza e individualità. A tal proposito, molte sono le allusioni alla Nouvelle vague: i riferimenti a Jean-Luc Godard, l’utilizzo delle musiche di Georges Delerue – dal celebre Jules et Jim di François Truffaut – e la recitazione della stessa Gerwig che dona alla sua Frances ingenuità e irrequietezza, alla stregua di una moderna Anna Karina. Consistenti, allo stesso modo, i cenni al cinema di Woody Allen; a partire dall’amore viscerale per New York – enfatizzato dal magnifico bianco e nero di Sam Levy che tanto ricorda quello di Manhattan – alla riflessione sulla figura dell’intellettuale, fino all’utilizzo sapiente del genere commedia, quando l’ironia e la leggerezza non sono nient’altro che un criterio elegante per narrare problematiche esistenziali.
Il capolavoro di Woody Allen, Io e Annie (Annie Hall, 1977), si apriva con una citazione di Groucho Marx – o forse di Freud – che recitava: «Io non vorrei mai appartenere a nessun club che contasse tra i suoi membri uno come me»; e in effetti i protagonisti di Baumbach, così come quelli alleniani prima di loro, condividono lo stesso senso di non appartenenza che li costringe a rimanere indietro lungo la corsa verso il compromesso tra il sogno e la convenzione sociale.

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