mercoledì 19 agosto 2020

La virgen de los sicarios - Barbet Schroeder

lasciate ogni speranza voi che guardate questo film, e se avevate intenzione di fare un viaggio a Medellin, come turisti, forse è meglio cambiare destinazione.

non c'è futuro, le cose vanno sempre peggio, pensa Fernando, il protagonista del film.

Fernando è tornato dopo 30 anni, dice, per morire, intanto vede i morti, quelli veri, quotidianamente.

Barbet Schroeder sa come si fanno i film, a me è piaciuto.

buona visione - Ismaele



 

 

 

C’è una profonda tristezza radicata all’interno dell’universo chiuso, asfittico e violento di Medellin, in Colombia. Una tristezza strutturale che intasa qualsiasi via d’uscita. O forse non si tratta di tristezza, ma di un’improvvisa tenerezza, di un’inattesa, incredibile innocenza che ritorna sempre, perfino negli episodi più brutali e gratuiti. La città che racconta La Vergine dei sicari di Barbet Schroeder, tratto dal libro autobiografico di Fernando Vallejo, è in realtà un inferno privato, un circolo chiuso dominato dal più inumano degli automatismi: l’omicidio. Eppure, all’interno del peccato per eccellenza, laddove l’azione non segue il pensiero, ma ne è compagna simultanea, si riscopre un’umanità talmente intensa da diventare inammissibile…

…Schroeder ha l’invidiabile capacità di portare il suo cinema tra la gente, di pedinare il quotidiano, di osservare lo sguardo altrui, perfino il volto uno sconosciuto (in questo senso l’intuizione di raccontare l’intera storia in digitale, ci rende ancora più partecipi di questa presenza/assenza del cinema): non c’è nessuno stucco, nessun abbellimento, nessun tipo di edulcorazione. La camera è per strada, accanto ai suoi personaggi, è in pericolo come loro, sempre pronta a cadere: emerge la fibrillazione inquieta del movimento, mentre la paura che attraversa ogni immagine è il timore stesso di filmare senza alcun tipo di filtro. Ne La Vergine dei sicari tutto è peccato e violenza, non c’è più spazio per la redenzione, non c’è più spazio per Cristo, ma solo per i suoi retaggi invertiti…

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…La visione cinica e drammatica di un mondo dove gli avvenimenti si ripetono analoghi e senza via d'uscita (la nuova relazione con Wilmar [Juan David Restrepo]), fortemente accusatoria, scettica nei confronti delle credenze religiose e pure offensiva (anche se trasmette un modo di pensare alternativo un po' limitato e semplicistico) , non è però gratuita e soprattutto è sostenuta da dialoghi diretti e freschi e da un'ironia persino umoristica per gran parte del film, stranamente non percepita da molti detrattori e che al contrario mi sembra molto evidente e riuscita senza che per questo vengano soffocati i necessari e ben calibrati momenti di tenerezza o di malessere dello spettatore, più che di Fernando, ormai così abituato ai tragici fatti della vita che pare sentire più dispiacere che dolore. Oppure è una capacità logorata e in via di estinzione del sentire dolore, come la malinconia discreta e sullo sfondo della sporadica musica di Jorge Arriagada che si scontra con l'apparente allegria di certe canzoni? Le risposte possono essere ancora una volta numerose e spesso complesse, come nella attrazione/repulsione verso le chiese e la presenza/assenza della Chiesa stessa nella coscienza popolare.

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la stroncatura di Goffredo Fofi 

Barbet Schroeder esordì a fine '60 con un film sugli hippy arenati a Katmandu o da quelle parti, e già allora ci fu chi parlò di voyeurismo: voyeurismo intellettuale europeo sul mondo altro, anzi voyeurismo parigino, che ha continuato a marciare e marcia ancora. Il film dedicato ora a Medellín, Colombia, patria dei narcos, parte da un romanzo che non conosciamo ma che dev'essere tremendo, di Fernando Vallejo, e narra in prima persona di uno scrittore che torna in patria e la trova più disastrata che mai e che, essendo gay, si trova un amico adolescente gay venuto dagli ambienti più miserabili, che gioca la sua adolescenza giorno per giorno vivendo di morte, da sicario e da killer, in un paese dove la vita umana vale davvero niente. Bene, un vero scrittore o un grande regista potevano tirarne fuori un capolavoro, un demagogo tipo "cinema politico italiano" un filmone di denuncia e successo. Uno scrittore di destra o un regista di destra di statura alta e tragica un esempio di alto nichilismo; ma ci voleva un Céline, un Drieu, e non il fascismo incosciente e saccente che sembra essere di questo Vallejo, un personaggio, a giudicare dal film, peggio che odioso. In un festival veneziano pieno di omosessuali "politicamente correttissimi", il film offre un esempio di omosessuale abbietto e di intellettuale abbietto. Ma il peggio è, ovviamente, il regista, autore del film più immorale che si veda da anni.

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La divergenza di opinioni, anche frontale, sorta a proposito del film di Barbet Schroeder spiega meglio di tante parole l’intima conflittualità dell’opera. Chi si ferma all’aspetto allegorico del testo, con quell’aria pericolosamente magico-realistica, può infatti rifiutare in blocco La vergine dei sicari quando, al contrario, si tratta di uno dei film per i quali si può reinvestire l’abusato termine di “visionario”. La storia dello scrittore e del suo giovane amante colombiano, deambulanti per le strade di Medellin e coinvolti in terribili quanto surreali sparatorie, assume presto un’atmosfera da incubo che non viene più abbandonata per il resto del film. Metafora della prossimità tra vita e morte in un mondo che si crede civilizzato e invece viene dominato dalla violenza dei forti sui deboli? Brutale poesia sull’amore e sul vitalismo impastato di “thanatos”? Forse. Ma quello che più interessa è la radicalità del discorso sul cinema: Schroeder, irriconoscibile rispetto alla sua carriera “di mezzo” hollywoodiana, mantiene tutto il racconto in quella fertilissima terra che si situa tra realismo e anti-realismo senza che mai si riesca a decidere per l’uno o per l’altra. Così facendo, il regista evita ogni pericolo didascalico e conduce lo spettatore senza filtri nei gangli di un’opera viscerale come poche altre. A ulteriore conferma dell’attenta riflessione sui mezzi espressivi, si pensi che il film è girato in video digitale, così da destrutturare selvaggiamente il lato “apologico” e conquistare uno statuto da cinema diretto sempre contraddetto dagli avvenimenti. E’ forse la prima volta che non si usa il video per ottenere certificati di realismo (cfr. Blair Witch Project) bensì per insinuare contraddizioni sulla veridicità delle immagini e del significato che veicolano. Inutile sottolineare che i quotidianisti nostrani nemmeno si sono accorti della tecnica utilizzata e hanno stroncato il film per le ragioni più viete.

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…Can a man of 60 have a romantic relationship with a boy of 16? In a sane world, no. They would drive each other crazy. In a world where both expect to die in the immediate future, where plans are meaningless, where poverty of body and soul has left them starving in different ways, there is something to be said for sex, wine, music, and killing time in safety. And there is an agelessness in Fernando, who has no family, no plans, no bourgeois preoccupations, and has simplified his life to a zen emptiness--he and these boys share the same cool disinterest in tomorrow.

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sobresale una observación de Judith Steiner, crítica de literatura en la popular revista Les inrockuptibles: ‘Una prosa furibunda, imprecatoria, apocalíptica, cuya desesperanza deja entrever una profunda ternura’. Steiner detecta algo que pocos verán: tras la pose de maldito, en Fernando Vallejo hay un santo laico. Un hombre incapaz de hacer daño, que sin embargo disfruta enormemente abrir cualquier caja de Pandora disponible: un eterno niño que ha vivido mucho y sabe demasiado…

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