lunedì 31 agosto 2020

High life – Claire Denis

una accozzaglia di reietti, anziché marcire in galera, aderiscono a una missione spaziale, verso un buco nero, senza ritorno.

la libertà è un'altra prigione, senza secondini.

uno scopo della missione è quella di capire se e come potrà nascere e crescere una vita, fra le altre cose.

piano piano, negli anni, quasi tutti scompaiono, lasciandosi morire, anche la dottoressa.

restano solo Monte e la figlia Willow, cibandosi anche dei frutti dell'orto, era una neonata, è diventata un'adolescente.

e insieme al padre prenderanno delle decisioni.

un film che vale, secondo me (se qualcuno deve ridere, lo avverto che non è un film per lui/lei) - Ismaele

 

 

 

 

 

La nenia che Robert Pattinson canta alla piccola figlia ci culla e ci accompagna in un viaggio spaziale che fa dell’uomo il suo punto centrale. Il corpo immerso nello spazio infinito, l’assenza di tempo, di vecchiaia, di scopo. Dove ci porterà questo viaggio, Willow? Nessuno lo sa, neppure la scienza. Iniziare una odissea perché non si ha scelta, si è in trappola. È questa la base concettuale da cui parte High Life, film del 2018 diretto da Claire Denis. I cosmonauti protagonisti non viaggiano per amore della scoperta, o per esigenze sociali, o almeno, fanno ciò solo perché costretti (lasciamo a voi scoprire il motivo, poiché il film vive di un montaggio alternato che pian piano ricostruisce il quadro “storico” della trama). Non ci sono eroi in High Life ma solo persone normali con passati controversi, da questa melma umana emerge un antieroe, che di eroico pone in essere solo una singola azione: crescere con amore e speranza una figlia nata su una astronave, che conoscerà solo l’infinito vuoto tra le stelle, le ingovernabili forze di un buco nero. E proprio comprendere queste forze è lo scopo della missione:ovvero riuscire a estrarre energia da un buco nero tramite il processo Penrose, per permettere all’umanità di accedere a risorse di energia infinite…

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High Life è dunque un oggetto filmico che rifugge da qualsiasi scansione testuale: come sempre nel cinema della Denis, c’è più materia che pensiero, più fisicità che speculazione. La flagranza del rapporto di questa regista con la sostanza fisica delle sue storie, coi corpi dei suoi personaggi, con la pulsionalità delle loro emozioni, è preponderante rispetto a qualsiasi logica. È anche per questo che amiamo tanto il cinema di Claire Denis.

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Affresco di un'umanità senza ideali e senza speranze, High Life è uno strano oggetto di riflessione che nel suo ultimo atto, la bambina è diventata una giovane donna che ha conosciuto e conoscerà un solo uomo, suo padre, interroga il tabù (assoluto) e la moralità. Perché Monte e Willow sono soli a bordo, soli al 'mondo'. Lunghi flashback che affiorano come bolle sulla superficie della coscienza di Monte, mostrano al pubblico che il peggio per loro è passato. Di quel pugno di mostri fuorilegge e fuori di sé spediti in orbita per crimini inconfessabili, non è rimasto che Monte che alleva la vita in una nave programmata per andare a morire. Veicolo di desideri primitivi, di piaceri solitari e funebri, di sesso meccanico, di pulsioni frustrate e di regime clinico, il vascello 7 è una fuck box (come quella che cavalca la dottoressa Dibs in una delle scene più perturbanti) che divora e dove tutti si divorano. Un monolite che rompe le geometrie asettiche delle navi tradizionali e fluttua inesorabile verso l'orizzonte dell'incesto. Orizzonte da tragedia greca a cui il protagonista Robert Pattinson resiste dominando le sue emozioni e lanciandosi verso l'incognita di un'altra galassia, di un'altra forma, verso la yellow light di Olafur Eliasson.
Il buco nero che costituisce il cinema di Claire Denis coincide in High Life col buco nero della morale. A lambirlo è il corpo (inter)siderale di Robert Pattinson. La bellezza del suo gesto, radicale e lirico, è la promessa di un'andata senza ritorno verso l'amore. Un amore cosmico che dialoga direttamente con Interstellar e non può che (ri)congiungersi con l'universo, malgrado tutto. Malgrado la morte fisica e morale dell'umanità in assenza di gravità e dentro una supernova narrativa propizia a tutte le interpretazioni. Il caos è in marcia e Claire Denis testa la resistenza fisica dello spettatore. Allacciate le cinture e bon voyage.

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Un film di passioni e di istinti, di pulsioni, di corpi torturati dal dolore e dalla vertigine del desiderio, sui quali si stende però il velo di una forma smagliante e perfetta, di una bellezza in grado di sopraffare e neutralizzare ogni buco nero. Rispetto per Juliette Binoche, che non esita a lanciarsi in una missione impossibile (quante attrici del suo rango avrebbero accettato un personaggio come Dibs e recitato una scena disturbante come l’amplesso meccanico?). Ma a fare suo il film è Robert Pattinson, ormai una certezza e, più che un attore, una presenza assoluta, meraviglioso quale padre fragile e tormentato eppure di una fibra infrangibile. Claire Denis aveva pensato il film per Philip Seymour Hoffman, poi sappiamo cosa sia successo, e le ci sono voluti anni per trovare finalmente in Pattinson il protagonista che cercava.

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Questo non è un film per tutti. Non è uno scacciapensieri estivo da consumare fra popcorn e cocacola. Questo è un film-sfida. E’ un oggetto ipnotico e misterico dedicato a spettatori disposti a passare un paio d’ore dalle parti di Interstellar, o di Arrival, magari mescolandoli con il ricordo di Stalker e di Solaris, là dove la fantascienza si contamina con la filosofia e con i misteri del tempo, del sesso e della vita. Fra le poche uscite estive di questa strana estate, High Life di Claire Denis (uscita prevista il 6 agosto) è davvero quella imprescindibile.

Fantascienza? Anche, ma non solo. Anche prison movie, apologo filosofico, investigazione etica, ricognizione scientifica. Un uomo (Robert Pattinson) e una bimba appena nata sono a bordo di una navicella che galleggia nel buio oscuro dello spazio. Lui è il padre, lei sua figlia. Gli altri membri dell’equipaggio sono tutti morti. Con una serie di flashback successivi Claire Denis ci racconta come. Meglio: ce lo fa intuire, ce lo lascia supporre. Perché non c’è nulla di chiaro o di scontato, a bordo della Navicella 7.

Non è un’odissea nello spazio, quella a cui assistiamo. Qui non si torna a casa. Non c’è nessun ritorno possibile. Qui si va avanti. A oltranza. Verso un buco nero che potrebbe fornire l’energia necessaria per salvare la Terra dall’incombente catastrofe. A bordo sono stati imbarcati galeotti e prigionieri con colpe indicibili alle spalle, disposti a vivere una sorta di ergastolo infinito nello spazio. Perché non c’è più il tempo, a bordo della navicella. Non c’è il nostro tempo. Il nostro modo di misurarlo, gestirlo, riempirlo. C’è il vuoto, e c’è l’oblio. Dalla terra continuano ad arrivare immagini che sono come virus, come parassiti. Perché ancorano i membri dell’equipaggio a una nozione di tempo e spazio che a loro è preclusa per sempre. Indietro non si torna, mai più…

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…l’opera è molto modesta e manca completamente il bersaglio, come un arciere dalle grandi ambizioni. Il senso del film sfugge dalla sceneggiatura, la scenografia fa molto anni ’70, quasi fosse tutto di cartone. L’ambientazione, peraltro, è limitata a pochi ambienti che si ripetono, probabilmente per motivi di budget.

Gli attori sono svogliati e atoni, in particolare Juliette Binoche che si cimenta in un paio di scene che rasentano lo scult. Passabile Robert Pattinson che continua il suo percorso di allontanamento da Twilight. La pellicola insiste sui liquidi vitali: sangue, sperma, latte materno, è tutto un colare ripetuto e insistito.

Non aiutano neanche i piani temporali, non proprio chiarissimi e un finale un po’ flaccido. Beninteso, il film non è bruttissimo, ma Claire Denis è una grande autrice che trova sicuramente il suo senso tra le strade e i cuori parigini, non nello spazio.

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After many years lost in space, with Monte’s clothes now in tatters, his hair greying and Willow an adolescent, the film comes in for an ambiguous ending. Denis is more concerned with the affects of isolation on her subjects and on their behavior during this period than she is in learning about space travel. It’s that kind of unique space film that could have been shot on Earth, in a science lab, and the results would have still matched what the director was looking for–as she’s more interested in the journey than the destination to nowhere, which might be a metaphor for life on Earth.

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