Premessa
Anche e soprattutto per
un critico e persino per uno studioso, stilare un elenco delle migliori opere
filmiche – la classifica può essere generale, legata ad un periodo storico, ad
una nazione, o ad un genere – è un esercizio che ha quasi sempre una doppia
valenza. La prima è di carattere estetico-formale, la seconda affettiva.
Ovvero, per citare un
bel libro, I film della memoria, scritto da
Roberto Campari, l’atto del vedere e dell’immergersi in una narrazione
prevalentemente visiva si lega automaticamente ad una sorta di “memoria”
aggiunta a quella che si acquisisce nella vita quotidiana.
Non è un caso che, da
una decina d’anni, lo studio dei linguaggi filmici abbia come oggetto una sorta
di coinvolgimento “corporale” dello spettatore, il cui cervello reagisce al
racconto per immagini come fosse in un mondo reale.
Quanto al giudizio estetico-formale, per decenni, a
partire dal dopoguerra, i referendum tra la critica mondiale più autorevole
finivano per proclamare i cosiddetti “100 film da salvare”. L’elenco poteva
essere cronologico – da Nascita di una nazione di
Griffith (1914) a Otto e mezzo di Fellini
(1963), giusto per esemplificare – o valutativo.
Nel secondo caso, è obbligatorio
ricordare la ricorrente oscillazione del gusto, decennio dopo decennio. A
esempio, non più di dieci anni fa, l’immancabile Quarto Potere ( 1940) di Welles è stato
sostituito, come capolavoro assoluto della storia del cinema, da La donna che visse due volte di Hitchcock.
E, giusto per fare un
altro esempio ancora più radicale, il capolavoro di Jean Renoir, La regola del gioco (1938), è totalmente scomparso
dalle classifiche. Forse, le nuove generazioni non lo hanno mai visto, ma pure
Truffaut sosteneva che, quando lui mosse i primi passi come cineasta, i due
film che provocavano le maggiori “vocazioni” filmiche (ovvero il desiderio di
passare dalla critica alla regia, come fece una buona parte dei protagonisti
della “nouvelle vague”) erano appunto Quarto Potere e La regola del gioco.
E, ancora, per
estremizzare, nelle classifiche dei dieci migliori film italiani, stilate di
recente da collaboratori del settimanale “FilmTv”, sono apparsi titoli
imprevedibili come Fantozzi (1975)
di Luciano Salce.
Non commento, pur avendo
amato Villaggio e le sue creazioni quasi kafkiane.
Nel caso del western,
credo che, anche non tenendo conto della passione particolare per un genere
divenuto alla base della mia prima formazione di spettatore, il rapporto
affettivo è assolutamente decisivo ed è semmai la successiva formazione di
critico e, forse, di studioso, ad essersi inserita in quella “madeleine” visiva
– per citare Roberto Campari – che mi impedisce, di fronte ad una improvvisa
apparizione televisiva di un film amato (anche non western), di “staccarmi”,
come fossi ancora lo spettatore di tanti decenni prima.
Ed ora veniamo ai film
che, purtroppo, per la mia memoria e la mia esperienza di critico, sono davvero
pochi.
Comincerò con una
esclusione clamorosa: Ombre rosse (1940)
di John Ford. Lo considero un capolavoro e, nella mia breve esperienza di
docente universitario, non è mai mancata una lezione specifica sulla
“drammaturgia” di quel film, ovvero sulle dinamiche di una piccola comunità –
tema chiave di tutta la filmografia fordiana – chiusa in una diligenza
inseguita dagli indiani, con tanto di soste e finali rituali.
Ma non ha mai fatto
parte dei miei amori filmici: l’ho importato nella mia memoria e, dunque, lo
scarto, non senza perplessità.
Dello stesso decennio
cancello un altro titolo che invece ho amato e amo tuttora: L’uomo del west (1942) di William Wyler, ovvero la
storia leggendaria del giudice Roy Bean (poi rifatta da Huston nel 1973 con un
grande Paul Newman), bandito-dittatore ad ovest del Pecos, innamorato
dell’immagine di una attrice che farà in tempo a vedere prima di essere ucciso
da Gary Cooper, il buono del film.
Non è un capolavoro, ma
dalla prima volta che l’ho visto in tv, ha fatto parte dei miei film della
memoria, proprio per quell’intreccio, tipico del cinema americano e del
western, tra romanticismo e fellonia, tra onestà e malvagità. Sono più o meno
gli stessi temi che Wyler riprenderà, quindici anni dopo, in un altro western
epico e morale: Il grande paese, anche questo non
compreso nell’elenco sotto esposto.
1.
Dunque, il primo titolo,
sempre degli anni Quaranta, è Sfida infernale (1946)
di John Ford, la più celebre rievocazione dello scontro a fuoco avvenuto a
Tombstone, nel Texas, nel 1881. I contendenti erano i fratelli Earp, capeggiati
dallo sceriffo Wyatt, e i Clanton, ladri di bestiame e taglieggiatori.
Ford aveva conosciuto e
intervistato Wyatt Earp, morto nel 1921, il quale fece a tempo ad essere una
mitologia vivente. Ma nulla di biografico, né di storico, è rimasto nel film,
che è piuttosto una sorta di sofferta epica della nascita di una civiltà, nel
sud ovest ormai “ripulito” da pellerossa, messicani, ribelli confederati.
Eppure, nel bellissimo
esordio, con la classica inquadratura orizzontale fordiana che sovrasta i
personaggi con il paesaggio – qui notturno e oscurato da nuvole minacciose –
quel territorio è ancora selvaggio e c’è l’ovvia
necessità di affrontarlo, sul piano materiale e spirituale.
Gli Earp, capeggiati da
un grandissimo Henry Fonda, che recita con il suo sguardo magnetico, stanno
scortando una mandria verso la California. Si accampano nei pressi della cittadina,
e lasciano le bestie al più giovane di loro per passare qualche ora in città.
Tornati al campo, non
trovano più la mandria: alcuni banditi l’hanno portata via dopo aver ucciso il
giovane guardiano.
Wyatt decide, così, di
rimanere a Tombstone, con l’incarico di sceriffo, più che altro per scovare i
colpevoli del furto e soprattutto dell’omicidio. Al suo fianco gli altri due
fratelli e, più tardi, il celebre pistolero-dentista Doc Hollyday, interpretato
purtroppo da un pessimo Victor Mature.
Prima di arrivare alla
sfida all’Ok Corral – risolta in poco più di qualche minuto con l’uccisione dei Clanton e dei loro complici
– c’è il meglio del film. Ovvero, la nascita del “giardino”: la civilizzazione
di Tombstone e dello stesso sceriffo, il quale sembra avere una simpatia per la
maestrina (il titolo originale è non a caso My Darling Clementine),
al punto da essere trascinato, profumato ed elegante, con un grande cappello
che non sa dove poggiare (e che, alla fine, lancia fuori dalla pista da ballo),
all’inaugurazione del cantiere in cui si deve edificare la chiesa cittadina.
È questa la sequenza
chiave del film: il cattolico Ford, il quale sa bene che il tempio sarà di fede
protestante, mette in bocca al sacerdote una frase memorabile, che potrebbe essere
attualissima: “ho letto la Bibbia da cima a fondo e non ho trovato una sola
parola contro il ballo”. E, dunque, si può dare il segno al violinista perché
la piccola orchestra attacchi con la musica e la popolazione balli in quel
luogo sacralizzato.
La seconda grande
sequenza “civilizzante” è ambientata in un
saloon/ristorante/teatro/casa da gioco, tipica del cinema western: Doc Holiday
guarda e ascolta incantato i versi dell’Amleto declamati
con difficoltà da un vecchio attore ubriaco (Granville Thorndyke, attore vero,
ormai sul viale del tramonto) e, rendendosi conto che il declamatore ha perso
il filo, lo sostituisce, quasi con le lacrime agli occhi per questa immersione
in un mondo che ha ormai perduto.
Alla fine Wyatt dirà
addio (o arrivederci, non lo sapremo mai) a Clementine: deve tornare dal padre
ad annunciare la morte del fratello. Il dubbio tra la prevalenza del giardino
sul deserto rimane in piedi, come se Ford si fosse ispirato non già alla
leggenda – come affermerà il giornalista di un altro suo grande film, L’uomo che uccise Liberty Valance) – ma al Viaggio in America del francese De Tocqueville.
Certamente non l’aveva mai letto.
2.
Il fiume rosso – Howard Hawks –
1948
Primo vero western di un
regista che nel 1948 aveva già firmato una trentina di titoli (e qualche
capolavoro), tra i quali commedie, gangster movie, melodrammi, film bellici e
avventurosi e, nel ventennio 50/70, avrebbe rinnovato la sua fama con una
trilogia western interpretata da John Wayne (Un dollaro d’onore, El Dorado, Rio Lobo) basata su
una straordinaria teatralità, che, teoricamente, non dovrebbe andare d’accordo
con il cinema western
Confesso anche di essere
sempre stato, fin dall’adolescenza, un cultore di Un dollaro d’onore, di cui conoscevo i dialoghi a
memoria. Ma Il fiume rosso è vera epica,
sorta di odissea – prendo in prestito le osservazioni di Borges sul western
come ultima mitologia – che traccia una mappa dell’americanizzazione del paese
attraverso le carovane non già degli emigrati europei, ma degli allevatori di
bestiame e cioè della carne che avrebbe nutrito le metropoli dell’est.
Uno di questi,
interpretato da Wayne, occupa con la sua piccola mandria i terreni di un grosso
allevatore messicano – Il Texas era stato definitivamente conquistato dagli Usa
a metà dell’Ottocento – e se ne libera con molta disinvoltura a colpi di
pistola. La sua mandria cresce di anno in anno, così come cresce il ragazzino
orfano che ha perso la sua famiglia. Diverrà una sorta di figlio adottivo (è
Montgomery Clift, il quale non amava affatto né il western e tantomeno John
Wayne) e, come fossimo in una tragedia greca, finirà per uccidere
simbolicamente il padre, dopo aver portato la gigantesca mandria, cresciuta in
20 anni di lavoro, alla prima grande stazione ferroviaria.
Come ogni odissea che si
rispetti, anche in questo viaggio – occupa tre quarti del film – ci sono gli
imprevisti: banditi, pellerossa, una carovana di pionieri da salvare e
aggregare, una sorta di sottile rapporto, mai dichiarato, di tipo omosessuale
(l’unica donna è ovviamente innamorata di Montgomery Clift), e, infine, lo
scontro finale tra padre e figlio.
Archetipico, ma anche
meno prevedibile degli western successivi di Hawks, molto più picareschi, al
punto da affogare il racconto in una sorta di eccessiva e comica
drammatizzazione da teatro da camera.
3.
Il cavaliere della valle solitaria – George Stevens –
1953
Amatissimo dai vecchi e
ormai scomparsi cultori del western puro – uno di questi, il più grande, fu
Tullio Kezich – per la sua semplicità quasi da “horse opera”: vado, l’ammazzo e
torno.
Ovviamente, qui, il
vecchio schema è nobilitato e restituito ad una mitologia
storico-politica-esistenziale al passo con i tempi.
Dunque, una comunità di
piccoli allevatori si ritrova minacciata da un “figuro” che, per pochi soldi,
vuole sloggiarli dai loro terreni. Per caso, capita in quella famiglia un
cavaliere bianco – in effetti è vestito in chiaro, simbolo di purezza
contrapposta al killer nero-vestito interpretato da Jack Palance – che ha le
fattezze di Alan Ladd. Ha un passato non proprio “trasparente” (lo si intuisce,
ma non lo si dice) e non vuole più far parte di quel mondo oscuro. È l’idolo del bambino, figlio di Van
Heflin e Jean Arthur, anche lei attratta da quello straniero.
La situazione della
valle precipita, e Shane (questo è il nome del personaggio e del film, nel suo
titolo originale) finisce per riprendere in mano le pistole, fare piazza pulita
per poi riprendere il suo viaggio senza fine, alla ricerca di una espiazione
che, forse, non ci sarà mai.
La semplicità della
trama – più volta “rubata” da altri film più o meno famosi e persino da diverse
avventure di Tex Willer – nasconde l’archetipo base del cinema western: la
lotta per la vita e per la legalità, spesso ottenuta attraverso la pistola e
non la semplice legge scritta nei codici.
4.
Vera Cruz – Robert Aldrich –
1954
Western anomalo, che
potrebbe essere definito anche film storico-avventuroso. È, infatt,i ambientato
in Messico, subito dopo la fine della guerra civile nord americana (1861-1865),
quando nello stato confinante si era insediato, come imperatore, Massimiliano
d’Asburgo, fratello dell’imperatore austriaco Francesco Giuseppe. Furono i
francesi di Napoleone III – che fornì truppe e denaro per l’impresa – a
scegliere il sovrano, subito “assediato” dai ribelli di Benito Juarez, il
quale, nel 1871, ebbero la meglio e lo fucilarono senza troppi problemi.
Poiché il Messico del
cinema western – americano e italiano – è stato prevalentemente legato a Zapata
e Villa, cioè ai primi dieci anni del Novecento, questo è uno dei pochissimi
film che racconta l’Ottocento.
Un primo titolo fu, nel
1939, L’imperatore del Messico (Juarez, in originale) di William Dieterle,
con Bette Davis nel ruolo della principessa Carlotta. Seguirono apparizioni di
truppe francesi in Sierra Charriba di
Peckinpah e I due invincibili di McLagen. E
poi null’altro.
La parte più
propriamente western del film è in carico ai due protagonisti statunitensi, il
capo banda Burt Lancaster, il cui sorriso aperto, con tanto di esibizione
dentaria, è contemporaneamente accogliente e aggressivo. I suoi uomini sono
arrivati in Messico per cercare dei buoni ingaggi tra i contendenti e non si
pongono problemi rispetto alle cause patriottiche o imperiali. Il suo
amico/rivale, Gary Cooper, è invece un reduce della guerra di secessione:
ufficiale sudista, ha perso famiglia, casa e terre e cerca anche lui il denaro
per ricominciare da capo. Però, qualche dubbio sui torti e le ragioni di quella
guerra, se li pone.
Il film procede per
continui cambi di situazione avventurose: ora vincono gli juaristi, ora
l’esercito di Massimiliano. Straordinaria, dopo il primo duello incruento tra
Cooper e Lancaster, la sequenza dei messicani che circondano i dragoni
francesi, e, poi, si devono arrendere alla ribalderia di Burt Lancaster.
Ma la sequenza più
celebre e più bella, da mandare a memoria, è la festa alla reggia di
Massimiliano: Burt Lancaster si aggira tra le dame e i cavalieri, come fosse il
Totò affamato di Miseria e Nobiltà. Però non chiede:
s’impossessa del cibo e del vino, fino a che un alto ufficiale tedesco gli fa osservare sarcasticamente come
una parte di quel liquido, sicuramente champagne, per caso gli sta finendo in
bocca. Il nostro ribaldo si ricorderà dell’offesa.
Il giovane critico
Truffaut – che, a suo demerito, non amava John Ford – lo inserisce tra i film
della sua vita, descrivendo l’alternanza picaresca – termine azzeccatissimo –
delle situazioni, fonte di continue sorprese. Ed in effetti, Vera Cruz è uno di quei film che, fin da quando lo
vidi al cinema – d’estate le pellicole americane venivano riciclate all’infinito
– riesce ad ipnotizzarmi e mi costringe, anche oggi, a non cambiare canale
televisivo, anticipando le battute e aspettando le situazioni topiche, che sono
tantissime.
5.
Dove la terra scotta – Anthony Mann –
1954
Sono ben dieci i film
western diretti da Anthony Mann, che, dunque, può essere considerato uno specialista
del genere. Oltretutto non solo il western domina la sua filmografia, ma
dell’intera serie almeno sei titoli (Winchester 73, Là dove scende il fiume, Terra lontana, L’uomo di Laramie, Lo sperone nudo, Dove la terra scotta ),
tutti girati nel ventennio ’50-’60, possono essere considerati nella lista dei
maggiori western della storia del cinema.
Insomma, dopo Ford e
prima di Hawks, Mann è un regista votato al western, ma caratterizzato da una
poetica quasi opposta a quella di un Ford. Invece della nascita di un giardino
(la civiltà dell’ovest) dove, però, si rimpiange il “deserto” avventuroso e
persino i pellerossa, padroni a buon diritto di quelle terre, in Mann c’è un
mondo anarchico e violento, nel quale anche la civilizzazione non è che opera
cruenta e spesso vendicativa.
Indicativo è proprio il
film scelto in queste pagine: racconta della nuova vita di un ex fuorilegge,
Gary Cooper, il quale, durante un viaggio in treno, si trova in mezzo ad un
assalto di un gruppo banditi.
Salva la pelle, protegge
una ragazza, ma viene successivamente catturato dai banditi, inferociti per il
fallimento della loro impresa.
La sorpresa è però
un’altra: il capo dei fuorilegge, interpretato da un grandissimo Lee J. Cobb, è
stato il suo padre adottivo e il suo maestro di banditismo. Uomo feroce e senza
scrupoli, lo accoglie come un figlio e lo invia in
avanscoperta in un villaggio minerario nel quale dovrebbe esserci una banca ben
fornita.
Ma il villaggio non
esiste più: le miniere d’oro hanno chiuso.
Lo scontro finale tra
padre e figlio (l’Edipo ritorna in gran parte degli western) si conclude con la
vittoria del “redento” e di quella che, probabilmente, diverrà la sua compagna:
insieme torneranno al paese che lo ha adottato. Lei, con un passato da cantante,
farà la maestrina. Cooper era in viaggio proprio per cercare qualcuno in grado
di aprire una scuola nel paese dove si era stabilito per redimersi e
dimenticare il passato.
Proprio il pre-finale in
un paesaggio urbano disastrato e il finale – che non si vede – in un ovest
civilizzato, hanno paradossalmente qualcosa di simile a Sfida infernale di Ford. Solo che in Dove la terra scotta, al centro della scena non c’è il
giardino, ma la distruzione violenta della convivenza umana. Ovvero la fine del
mito.
6.
Sentieri selvaggi – John Ford –
1956.
Sicuramente, il più
complesso e importante western e, se ci è concesso, anche un film tra i più
belli dell’intera storia del cinema.
I nuovi studi teorici
sulla corporeità dell’esperienza di fruizione filmica – di cui ho scritto in
testa all’articolo – scelgono come sintesi linguistica dell’intero film due inquadrature brevissime e mirabili:
all’inizio una porta si apre (una cornice che lo spettatore deve varcare nel
suo viaggio iniziatico) e, in lontananza, appare Wayne, stanco e ancora vestito
con la divisa nordista.
La porta è quella della
casa del fratello e, poco più avanti, la cognata, che probabilmente lo ha amato
senza speranza, accarezza quella divisa sporca e sgualcita.
Alla fine del film, dopo
quindici anni di viaggi alla ricerca di una bambina, Debbie, rapita dai
Comanches – i quali hanno ucciso i parenti di Wayne e devastato la fattoria –
il protagonista rimarrà fuori, mentre gli altri esponenti della comunità
festeggiano il ritorno a casa della ,ormai, donna Debbie.
La cornice dell’esordio
segna la sua volontaria esclusione dalla comunità. La cornice finale esclude
Wayne. Per pacificare l’ovest occorre rimuovere anche la violenza estrema e
l’odio che il protagonista ha sempre avuto a fianco a se.
Chiave di questo
autentico “road-movie” ante litteram (piacque immensamente a Wenders, il quale
cita il romanzo dal quale è tratto, The Searches,
in Lo stato delle cose) non è tanto la ricerca della
bambina, ma la vendetta e la auspicabile – per Wayne – estinzione dei
pellerossa.
Straordinaria e
pienamente fordiana è, non a caso, la lunga sequenza – quasi un capitolo del
film – dove un paesaggio nevoso accoglie le giacche azzurre che scortano al
forte e rinchiudono in una baracca un gruppo di prigionieri comanches,
soprattutto vecchi, donne e bambini. Il popolo rosso, infine, si materializza
nell’ultima caccia ai rapitori di Debbie, sempre in fuga. Alla fine, Wayne
rincorre la ragazza, ormai moglie e madre indiana: la vorrebbe uccidere perché
contaminata, ma la guarda negli occhi e le dice: “torniamo a casa Debbie”.
Il contraltare al
viaggio è il fatto che la comunità dalla quale il protagonista si è
autoescluso, continua la sua vita: il film è intessuto di fidanzamenti e
matrimoni, risse picaresche e bevute, cerimonie religiose e quant’altro. Il
bisogno di andare avanti sovrasta anche la sete di vendetta di Wayne.
Franco La Polla sostiene
come il film sia stato una delle reazioni sottili e nascoste al maccartismo,
che, peraltro, nel 1956, era già sul viale del tramonto. Ford fu un cattolico
repubblicano che, però, apprezzò Roosevelt e partecipò alla guerra del
Pacifico, filmando, a bordo di un aereo, uno dei documentari bellici più realisti
e terribili: La battaglia di Midway. Intoccabile
come personaggio pubblico, rifiutò ogni contatto con gli inquisitori che
mettevano sotto accusa i colleghi la cui colpa era solo avere idee diverse
dalla sua.
Ecco, apertura e
chiusura della porta/cornice, sono anche un’allegoria della fine all’odio.
7.
Furia selvaggia – 1958 – Arthur
Penn
Secondo titolo della
storia del cinema dedicato a William Bonney, alias Billy the Kid. Il primo lo
firmò King Vidor nel 1930. Confesso di non averlo mai visto e comunque non è
facile trovarne una copia, neanche in rete.
Il film di Penn (in
originale The left handed man, ovvero il
mancino, informazione non vera, ma curiosa, vista la diversità psicologica del
protagonista) è interpretato da Paul Newman ed ha uno svolgimento abbastanza
canonico. Il giovane Billy, orfano e ribelle, viene quasi adottato da un
possidente di origini inglesi, che gli insegna a leggere e ad amare la cultura
e il lavoro. Quando questi viene ucciso a tradimento da una banda di
razziatori, Billy riprende la sua pistola e va a caccia dei colpevoli, avendo
contro l’ex amico Pat Garret.
La regia nervosa di Penn
– che fu un’icona del progressismo hollywoodiano post maccartismo – fa di
Newman un erede della “gioventù bruciata” di James Dean.
Solo che Newman non è
cupo, ma quasi pagliaccesco nella sua sfida – rumorosa – alla comunità. Insomma
un vero libertario che annuncia le rivolte del decennio successivo. Sequenza da
antologia è la sua ultima fuga dal carcere nel quale attende di essere
impiccato. La straordinaria alternanza spaziale tra dentro e fuori – allegoria
dell’impossibilità di rinchiudere la ribellione – fu copiata quasi
integralmente da Peckinpah in Pat Garret e Billy the Kid,
brutto film, al limite del kitsch, illuminato solo dalla presenza di Bob Dylan.
8.
Corvo rosso non avrai il mio scalpo – Sidney Pollack –
1972.
Può essere discutibile
l’attribuzione di western ad un film che è anche un capolavoro del cinema
avventuroso. Ma, nel viaggio di Jeremiah Johnson alle “radici dell’America”, lo
sceneggiatore John Milius, (il quale, poi, officerà, con Apocalypse now, la distruzione di quelle stesse radici,
provocata dal conflitto vietnamita) lascia tracce storico-mitologiche
abbastanza riconoscibili.
Il protagonista,
interpretato da Robert Redford, è, infatti, reduce da una guerra (immaginiamo
quella civile o le prime campagne indiane nelle pianure dell’ovest) ed è
costretto a scontrarsi con i militari, invadendo un cimitero
pellerossa, luogo sacro la cui violazione provocherà l’uccisione della sua
famiglia, frutto di un “accumulo” di sopravvissuti
alla difficile wilderness delle montagne rocciose: una moglie indiana e un
figlio che ha perduto il padre e che la madre, sull’orlo della pazzia, ha
affidato a Jeremiah Johnson.
Dunque, la storia di una
civilizzazione teoricamente rispettosa di natura e cultura (quella appunto dei
nativi) si trasforma in una lotta all’ultimo sangue proprio con i pellerossa, i
quali vedono nel cacciatore bianco un nemico irriducibile. Un ultimo saluto tra
il capo indiano e Johnson, nel finale, pacificherà le montagne. Ma per quanto
tempo?
Potremmo definire il
film di Sidney Pollack come una nota introduttiva – magari favolistica o puramente evocativa – ad un’America che avrebbe
potuto essere diversa. Ovviamente un’illusione, tipica del più classico cinema
hollywoodiano. Ma la sua bellezza sta proprio nel sognare di abbandonare il
mondo civile e ritrovarsi a combattere comunque per la vita, giorno dopo
giorno. Tutto sommato, il film rappresenta pienamente il mito del “far
(lontano) west” prima della colonizzazione. Sarà, poi, esistito per davvero?
9.
Il pistolero – Don Siegel – 1979
È il secondo western di
Don Siegel, uno dei maestri di Eastwood (nei polizieschi) e regista di un
capolavoro, ispirato a Hemingway, come Contratto per uccidere (1964).
Come western è
abbastanza atipico: la città, Carson City, dove il vecchio e malato John Wayne
(anche nella vita: morirà di cancro lo stesso anno) compie la sua ultima
missione, è quasi una metropoli caotica, comunque moderna, con i tram a cavalli
ed un benessere visibile.
Wayne vi arriva per
farsi visitare da un vecchio amico, il medico James Stewart, che gli
diagnostica facilmente un cancro terminale. Può solo lenirgli il dolore con il
laudano, ovvero l’oppio. Ma a Wayne basta per poter uccidere i suoi ultimi
nemici, i quali, in quella città, dopo una vita di criminali, hanno avviato una
fiorente attività tra case da gioco e saloon.
Wayne trova un alloggio,
pur con qualche difficoltà, vista la sua fama di giustiziere, ovvero di
assassino. Così, si esprime la sua padrona di casa, una grandissima Lauren Bacall, che vuole salvaguardare il buon
nome della pensione e della città e ha dimenticato i misfatti di cui si sono
resi colpevoli i nuovi padroni, in cambio di un benessere diffuso.
Alla fine, Wayne riesce
ad ucciderli, ma anche lui è vittima di una pallottola. Il figlio della sua
padrona di casa, che conosce la sua storia e la sua leggenda, lo aiuta
nell’impresa ma, dopo la morte di Wayne, disgustato da tanta violenza, butta
via la pistola.
Tappa finale
dell’immaginario western: crepuscolare, ma non inattuale. Wayne – monumento di
se stesso che cita l’ultimo duello di Ombre rosse – e
Siegel rileggono il maestro Ford: prima o poi devi affrontare i cattivi, anche
sapendo di poter morire.
10.
Il cavaliere pallido – Clint Eastwood – 1985
Il cavaliere … della
montagna solitaria. La citazione del film di Stevens, presente nella nostra
classifica, è una derivazione dalla classicità western, o come si è già
scritto, dell’horse-opera.
L’uomo senza nome si
aggira tra la neve, si fa chiamare reverendo, salva un giovane minatore dalle
prepotenze dei banditi al soldo del padrone del luogo. Costui possiede miniere
d’oro e vorrebbe scacciare i poveri minatori che, in una valle, tirano a
campare con le loro famiglie.
Facile intuire lo
svolgimento successivo, che comprende anche un innocuo, ma profondo
innamoramento di madre e figlia per quell’uomo gentile e eroico.
Però il film, oltre che
alla classicità americana, deve molto alla grande avventura italiana
dell’attore/regista. Difatti il picaresco, spinto all’eccesso nella sequenza in
cui Clint atterra il gigante Richard Kiel e finisce per portarselo dalla sua
parte, è puro Sergio Leone. I tempi sono dilatati e il personaggio appare quasi
come una reincarnazione angelica del “biondo” cavaliere inventato in Italia.
Il duello finale è
appunto la rivelazione di una morte – Eastwood, nella sua lunghissima
filmografia, muore e rinasce molte volte, come i miti d’altronde – che non c’è
mai stata o di un ritorno sulla terra per chiudere i conti in sospeso. Poi, il
pallido eroe si perde di nuovo sulle montagne.
Posso aggiungere, ma
sembra chiaro, che lo preferisco al celebre e pluripremiato Gli spietati (1995), un grande film il cui
contesto revisionista – non ci sono buoni o cattivi, neanche i vendicatori, i
quali, per denaro, uccidono i ceffi che hanno sfigurato una prostituta, e fanno
pulizia in una cittadina simile a quella mostrata da Don Siegel – è quasi
abusato. Insomma troppo normale.
Invece Il cavaliere pallido è il mito in purezza.
Conclusioni
Mancano molti grandi
western non inclusi in questo elenco. Alcuni li ho indicati, come la trilogia
di Hawks, altri li cito adesso: uno di questi, cancellato in bozze, è Notte senza fine (1947) di Raoul Walsh, western
psicologico quasi freudiano interpretato da un grandissimo Robert Mitchum.
Un altro titolo
straordinario è Sfida all’ok Corral (1957) di
Sturges, più mosso, sul piano avventuroso del capolavoro di Ford sullo stesso
tema che ho inserito al primo posto, ma, soprattutto, illuminato da un Kirk Douglas
che, nei panni di Doc Holliday, rappresenta un “villain” quasi aristocratico e
votato alla dissoluzione: insomma un eroe tragico come non sempre se ne
rintraccia nel cinema western.
Fa il paio, sul piano
psicologico, con Ultima notte a Warlock (1955)
di Edward Dmytrik, regista anche dello shakespiriano La lancia che uccide (1953).
Altre assenze decisive
sono gli altri western di Ford del dopoguerra – dal 1948 al 1963 – quasi sempre belli e importanti: dalla trilogia sulla
cavalleria (Il massacro di Fort Apache, Rio Bravo, I cavalieri del nord ovest)
a Soldati a cavallo, da La Carovana dei Mormoni (sono
stato ad un passo dall’inserirlo) a L’uomo che uccise Liberty
Valance, per finire con un’altra tentazione: Cavalcarono insieme, che contende a Gli inesorabili (1960) di John Huston, altra
grandissima opera, il primato di film sulla cattiva coscienza dei bianchi
sterminatori di pellerossa.
E ancora, come
dimenticare Peckinpah il quale, a parte Pat Garret e Billy the Kid,
film per neo appassionati di western quando il genere era già moribondo, ha
girato almeno quattro grandi pellicole: Sfida nell’alta Sierra (1964),
ancora a mezza strada tra classicità e disincanto; Sierra Charriba (1966), Il mucchio selvaggio (1968), cancellato all’ultimo
momento per fare spazio a Corvo rosso non avrai il mio
scalpo; e, infine, La ballata di Cable Hogue (1970)
tutti basati sulla messa in discussione dell’epica western come avanzamento
della civiltà.
E ancora, un film fuori
schema, nonostante sia il remake di una bella pellicola di Hathaway del 1969,
è Il Grinta di Ethan e Joel Coen (2013): un film sul
mito e sulla morte che aleggia in ogni avventura e anche dopo che l’avventura
si è conclusa. Anche questo titolo è stato escluso all’ultimo momento.
Infine, mi sono accorto,
rileggendo l’elenco, che esiste una linea di frattura tra la fine della
classicità (anni Quaranta e Cinquanta) e il revisionismo estremo dei
Settanta/Ottanta.
Chiarisco che negli anni
Sessanta il western era ancora vivo, ma alla ricerca di una strada la quale non
poteva più essere quella mitologica tradizionale. In questa revisione ci sono pellicole, un tempo molto famose, ma oggi
discutibili: ad esempio Il piccolo grande uomo (1971)
e Soldato blu (1973) sono certo dei film storicamente
importanti, al di là dell’appartenenza al genere, ma non sono all’altezza dei
classici, soprattutto se rivisti oggi. Al contrario, il dittico Un uomo chiamato cavallo (1970) e La vendetta di un uomo chiamato cavallo (1976),
girati rispettivamente dai quasi anonimi Elliot Silverstein e Irvin Keshner,
sono ancora, se non credibili, abbastanza provocatori sul tema dei pellerossa.
Allo stesso modo, Uomo bianco va col tuo Dio (1971)
di Richard Sarafian, è uno dei film più belli e complessi sull’esplorazione
dell’ovest da parte degli avventurieri in cerca di terre e affari.
E ancora, di nuovo a
proposito della “revisione” del problema indiano, ovvero dello sterminio dei
pellerossa, si possono citare facilmente alcuni film a cavallo dei due secoli e
piuttosto belli: da Balla coi lupi (1990)
di Kevin Costner a Hostiles (2017)
di Scott Cooper, da Geronimo (1993)
di Walter Hill a The Missing (2008) di Ron
Howard. Purtroppo, a parte Balla coi lupi, sono
più o meno sconosciuti.
Infine, un omaggio
obbligatorio a Sergio Leone: C’era una volta il west (1968)
è un vero epitaffio funebre del genere, ideato da due contestatori come
Bertolucci e Argento, basato sull’esplorazione, quasi strutturalista del mito.
Trasforma il picaresco di Leone, sempre presente in dosi massicce, in epica.
L’epica del disincanto.
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