sabato 13 maggio 2023

Crepa padrone, tutto va bene (Tout va bien) - Jean-Luc Godard, Jean-Pierre Gorin

già solo per alcune scene il film è imperdibile, cì sono tanti temi, e tutti ben delineati e sviluppati.

la rivoluzione, il lavoro, la lotta di classe, il cinema, la pubblicità, il consumismo e tanti altri argomenti sono filmati e restano ben impressi sulla pellicola e negli occhi di che guarda.

e poi ci sono Yves Montand e Jane Fonda, al loro meglio.

buona (rivoluzionaria) visione - Ismaele


 

 

 

 

Godard, dopo aver lasciato per quattro anni il cinema "normale" per i cinegiornali militanti, torna con un film che è una riflessione geniale sulla politica, sul cinema, sul divismo, sulla lotta di classe. Si parla di una fabbrica di salumi autogestita con il padrone Caprioli sequestrati, si seguono una giornalista americana e un regista che raccontano i problemi di coppia e di lavoro, si vede un esproprio in un supermercato mentre un "riformista" cerca di vendere con lo sconto il programma del suo partito. Come sempre Godard è geniale, sorprendente, profondo.

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La carrellata (e controcarrellata) lungo le casse del supermercato, le scene di vita di fabbrica e di ufficio mostrate da fuori attraverso le vetrate: la rappresentazione cinematografica si confonde con l’analisi politica e la funzione sensibile dell’immagine oscilla costantemente tra questi due poli; ma tale oscillazione didascalica-brechtiana va presa per quel che è, vale a dire il libero scorrazzare del cinema, il suo esprimersi e rivelarsi in quanto cinema, il suo metterci per forza di cose di fronte alla “texture” di immagini, al di là del vincolo narrativo e al di qua dell’opzione contemplativa. Se non è un manifesto del cinema militante, poco ci manca, ma certamente resta un grande esempio di cinema moderno che cerca il contatto con la superficie dei corpi, dei volti, degli oggetti, come a voler acuire, con la superficialità, la tattilità delle immagini e, nel contempo, suggerirne la loro natura smaccatamente cinematografica.

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Un pubblicitario e sua moglie giornalista rimangono bloccati per cinque giorni in un salumificio i cui operai sono in agitazione e tengono in ostaggio il direttore. Il solito Godard postsessantottesco, pesantemente didascalico nella forma ma inventivo in certi singoli momenti: uno su tutti, l’esibizione dei costi di produzione visualizzati in dettaglio attraverso una serie di assegni che vengono man mano firmati e staccati (“Voglio fare un film” “Per fare un film ci vogliono i soldi”). Meglio la prima parte, in cui l’industriale e i lavoratori prendono la parola per illustrare i rispettivi punti di vista; prolissa e involuta la seconda, dove marito e moglie discutono della loro crisi di coppia con dialoghi che sembrano scritti dal peggior Antonioni.

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Per Godard il sessantotto è fallito ma non terminato. La classe operaia è stanca dei soprusi padronali (di un Caprioli che dice "Tutto va bene"), del sindacato doppiogiochista, del "partito" che vende il proprio manuale al supermercato (simbolo del consumismo): i cartelli che recitano "1968-1972" testimoniano una continuità, perché ciò che accade (fra fabbrica occupata e gauchisti che invadono il supermarket) "È oggi". Il regista sta con il proletariato, ma il suo cinema militante non è interessato alla propaganda, invita bensì all'acquisizione d'una coscienza critica. La virtuale "love story" fra Yves Montand e Jane Fonda è una gag per permettergli il solito discorso del cinema sul cinema: il film parte con la mano del regista che firma cambiali, in cerca di fondi e consapevole che, per realizzare la sua opera, dovrà scritturare dei divi con un melodramma. Il cinema, in quanto merce, deve trovare una distribuzione: lo stesso Montand, in veste di cineasta intervistato come Godard in Lontano dal Vietnam, spiega perché ha accettato dei compromessi (gli spot) dopo aver militato nella Nouvelle Vague (cita la prefazione del "Mahagonny" di Brecht). Godard non è accomodante: i due protagonisti sono pedine del gioco, della sua "casa di bambole" espressionista (la fabbrica colorata all'eccesso di rosa fucsia e rosso, "vivisezionata" dalla macchina da presa in carrelli laterali) e la loro relazione, in cui è impossibile identificarsi, si chiude con una scena muta, dove l'autore rimarca quanto sia necessario immergersi nella realtà per capirla e nei rapporti di lavoro/potere per ovviare alle crisi di coppia con il falso problema sessuale. Non il miglior Godard, manca l'ironia feroce ed efficace de La Cinese, le invenzioni scarseggiano, sostituite da lunghe interviste, piani sequenza e pesanti apologhi politicizzati. Quando però si tratta di realizzare un semplice campo/controcampo, salta fuori il suo genio rivoluzionario: è splendida, ad esempio, l'eclissi dei volti, quando Fonda e Montand sono ripresi all'altezza della nuca di quest'ultimo.

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