sabato 31 dicembre 2022

Kız Kardeşler (A Tale of Three Sisters) - Emin Alper

in un posto dimenticato da dio, nelle montagne dell'Anatolia, in un villaggio quasi deserto (lo spopolamento colpisce dappertutto), con una strada non asfaltata, di cui quel villaggio è il capolinea, isolato per la neve d'inverno, c'era un padre di famiglia ormai vecchio, vedovo, le cui tre figlie erano andate a servizio in qualche famiglia di città, come capita in tutti i sud del mondo.

per i casi della vita le tre sorelle si trovano di nuovo al villaggio, una ha avuto un figlio (clandestino), le altre due hanno perso il lavoro.

e vogliono fuggire ancora da quel posto ormai morto, per farsi un'altra vita.

è un film universale, tutti lo capiscono (con i sottotitoli, naturalmente), un gran film, bello e terribile.

buona (al capolinea) visione - Ismaele

 

 

Un cuento de tres hermanas es una película lacónica, de personajes atrapados y confrontados en medio de lugares inhóspitos. Pero es una película bella y hermosa. Quizás su mayor defecto es un ritmo en exceso pausado, que aunque interesante resulta tediosa en algunos momentos. No obstante es una película que merece la pena y ofrece una visión del cine diferente. Es importante acercarse a otro tipo de cinematografías que no suelen ser las más populares, pero que sin embargo tienen mucho que ofrecer.

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La historia transcurre en Anatolia, bajo el techo de una humilde aldea, estamos en los años 80 y vamos viendo desde el principio la vida de tres jóvenes, cuya existencia depende de las decisiones que toman los hombres que las rodean. Ellos planifican todo lo que tienen que hacer, sin consultarles, mientras ellas tienen otros sueños. Las jóvenes son Reyhan, de 20 años, Nurhan, de 16 y Havva, de 13. Viven junto con su padre y con el analfabeto y pobre esposo de Reyhan, pastor de profesión, con quién se casó precipitadamente para disimular un embarazo de otro hombre.
En la cultura turca era muy habitual que las familias ricas acogieran a mujeres jóvenes y pobres. Teóricamente eran chicas acogidas y solían llamar padre y madre a los cabezas de familia, los cuáles las estaban dando la oportunidad de cambiar sus vidas, pero en realidad eran simplemente unas criadas. Las tres protagonistas se fueron de sus casas para ejercer de criadas, pero tuvieron que volver por distintos motivos.

La mayor tuvo que volver a causa de un embarazo no deseado, la pequeña debido a la repentina muerte del niño al que cuidaba, y la mediana por haber castigado a su "hermano" por hacerse pis en la cama. El futuro para ellas es verdaderamente negro. El padre no deja de buscarles un futuro mejor, pero la verdad es que no se lo ponen nada fácil.
Durante gran parte de su visionado me recordaba mucho al cine de Nuri Bilge Ceylan, sobre todo a "
Sueño de invierno" y "El peral salvaje". La película es bastante dura, cuesta entrar en la historia y empatizar tanto con las decisiones del padre como con las actuaciones de las hijas. En definitiva, estamos ante un bello relato de mujeres condenadas de por vida. Muy recomendable.

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giovedì 29 dicembre 2022

August: A Moment Before the Eruption - Avi Mograbi

con il solito sguardo tragico e umoristico insieme Avi Mograbi mostra cosa succede in Israele normalmente, il razzismo e l'odio aperto verso i palestinesi, il trattamento della polizia verso di loro.

spesso come dice il titolo quelli che sembrano momenti apparentemente tranquilli non sono pace, ma prodromi di un qualche conflitto ad alta intensità.

buon Avi Mograbi a tutti - Ismaele

 

QUI il film completo, con sottotitoli in italiano

 

Avi Mograbi, a filmmaker known for both his strong political opinions and his sense of humor, decides to document the anger and unrest he witnesses in his homeland of Israel during August of 2001. Using only a video camera—no script, no cast, no crew—Mograbi tries to make sense of the complex problems facing Israel. A deeply personal film, August: A Moment Before the Eruption is, like its director, at turns tragic and comic.

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A blackly comic rumination on the state of mind of Israel in summer 2000, the acerbic and eerily prophetic “August” captures a snapshot of the Jewish nation just prior to the hostilities that broke out two months later. Even those accustomed to director Avi Mograbi’s signature variations on the “personal diary” format may find “August” disconcerting, ending as it does with an implied psychological and cinematic meltdown. Half documentary, half intentionally fake psychodrama, film alternates man-in-the-street vignettes with increasingly bizarre confessional speeches made directly to the camera, the two modes merging pointedly as pic progresses. Winner of the peace prize at Berlin fest, piece features a bleak insider portrait of Israel that will appeal to the director’s fans, but is unlikely to gain him new adherents on this side of the Atlantic. Arthouse or indie cable play may depend on changes in the American perception of the Middle East.

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mercoledì 28 dicembre 2022

The Fabelmans - Steven Spielberg

Steven Spielberg dipinge il (suo) ritratto dell'artista da giovane.

l'amore per il cinema, non un hobby, nasce da lontano, lui non vuole ritrarre ciò che vede, ma controllarlo, rivederlo, (ri)montarlo, interpretare, dare un senso a quello che si vede (e a quello che non si vede).

cresce in una famiglia di origine ebraica, e assaggia l'antisemitismo nella civilissima California, e dal bulismo si sava con il cinema.

la festa di fine anno scolastico diventa il salto di qualità, la potenza delle immagini in movimento, della loro rappresentazione, del loro montaggio gli fanno capire che quella è la sua strada, l'università fa schifo, e quando ormai non ci crede più ha la sua grande occasione, quando arriva lui c'è e da lì inizia la sua vita di uomo con la cinepresa, per sua e nostra fortuna.

ottimi interpreti, ottima regia, un grande film, da non perdere.

buona visione - Ismaele


 


…Centrato sul suo personaggio e sulla sua famiglia, i suoi eroi hanno uno spessore reale, una vera densità psicologica, The Fabelmans lascia fuori la Storia. Spielberg sottrae a sorpresa il suo destino dal contesto americano. Inventa un Paese studio, senza guerra del Vietnam, senza minaccia nucleare o ossessioni per il comunismo, senza lotta per i diritti civili. La radio diffonde solo musica, i giornali non esistono. I costumi, che evolvono con la morale, passano per uno spinello che Sam rifiuterà di fumare. 

The Fabelmans è la testimonianza di un autore che ha dedicato la sua vita a una forma d'arte che credeva onnipotente e che oggi scopre fragile, una lezione di messa in scena che rivela il trucco del mestiere (Sam espone minutamente a un compagno come interpretare un ufficiale della Seconda Guerra Mondiale che prende coscienza di tutti i soldati Ryan che ha perso sul campo) mentre esegue il 'prestigio' (Burt osserva scosso una fotografia che ritrae la moglie sorridere all'altro uomo). 

Il film si conclude con un irresistibile movimento della m.d.p. che svela l'orizzonte del nostro eroe. Il seguito lo conosciamo già e risuona tutto in quel nome, ben reale, che incide i titoli di coda. Monumento alla mitologia del suo autore, The Fabelmans non racconta che questo: come si diventa Steven Spielberg.

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…I film sono sogni che non dimentichiamo.

Che frase magnifica, che concetto incantevole e vero. Sogni. Veicolo di immaginazione. Fiabe, in qualche modo. Forse è per questo che Spielberg ha scelto Fabelman come cognome per il proprio alter ego su schermo e la sua famiglia, un nome che suona tanto come "uomo delle favole", affabulatore. E non è forse una fiaba a sua volta il racconto che ce ne fa? Storia romanzata di un'esistenza, versione trasformata di una vita. Questo fa il cinema nel messaggio che l'autore vuole trasmetterci: racconta e trasforma, prende la realtà ma non si limita a riprodurla com'è, la muta e ne dà una propria idea nuova, più forte, più ricca. Fiabesca, come da sempre è stata l'opera di Spielberg, un cinema che sa volare sulle ali della fantasia per raggiungere vette di sentimenti e sensazioni vertiginose.

 

Ma non è solo questo il messaggio del film, perché il cinema muta la realtà, la colora, deforma o migliora, ma trasforma anche noi che ne fruiamo: i momenti chiave di The Fabelmans si sviluppano attorno a qualcuno che guarda immagini proiettate e cambia nel farlo. Gli occhi spalancati del piccolo Sam incastonati in una maschera di stupore, il volto di sua madre che chiusa in un armadio viene travolta dal dolore, le reazioni opposte dei compagni di scuola di Sam che guarda il film del loro Ditch Day girato e montato dal ragazzo. Sguardi che ammirano, assorbono e cambiano. Il cinema, ci dice Spielberg, ha questo immenso potere di catturarci, ipnotizzarci, per poi entrarci nell'animo e mutare il nostro pensiero e le nostre emozioni. E noi che siamo suoi spettatori affezionati da oltre quarant'anni lo sappiamo bene…

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Negli occhi del Sammy Fabelman bambino c’è lo stupore della visione, l’imprinting dello spettatore che assiste per la prima volta allo spettacolo delle immagini in movimento: il più grande spettacolo del mondo. Nelle mani del Sammy Fabelman ancora bambino ma già regista amatoriale, c’è invece l’agilità dell’operatore che regge la macchina da presa, dell’artigiano che taglia la pellicola 8mm, del regista che realizza con amici e familiari – come ha scritto Pietro Bianchi nella recensione di The Fabelmans sul n. 8 della rivista «Cineforum»  – «esperimenti di storytelling e montaggio molti simili agli albori del cinematografo, alla scoperta del comico, dello slapstick, dell’horror... e poi del western, dei film di guerra in un crescendo di complessità che è a un tempo padronanza tecnica del mezzo ma anche crescita soggettiva». Nella testa di Sammy Fabelman diciottenne, infine, nel film che gira per la scuola durante una gita al mare, c’è già tutta l’ambiguità dell’autore hollywoodiano, consapevole di poter manipolare le immagini a tal punto da far dire loro cose a cui nemmeno crede…

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The Fabelmans fin dall’inizio ha il grande pregio di rendere non la storia in sé, ma i personaggi che la abitano i veri pilastri di una narrazione familiare colma di un’ironia mai eccessiva, quanto ammantata dal ricordo del narratore. Il che contribuisce a rendere universale e ancora più potente il film, perché bene o male tutti possiamo rivederci nelle avventure di Sammy, nel modo in cui ci fa comprendere l’importanza di certe serate familiari, dei regali, delle piccole avventure e soprattutto della scoperta. La scoperta è il grande tema sotterraneo del film, sia per quello che riguarda il cinema, le sue leggi scritte e non scritte, sia soprattutto la vita del protagonista, a cui il giovane Gabriel LaBelle dona un grande verosimiglianza, grazie ad un'interpretazione magistrale. Il suo Sammy è un uno dei ragazzi più normali, veri, autentici e scevri dai cliché narrativi sull’adolescenza che il cinema e anche la televisione ci abbiano donato ultimamente…

The Fabelmans ci parla quindi in ultima analisi dell’arte, un'arma a doppio taglio per chi la rende la propria ragione di vita, del prezzo in fatto di vita sociale e sentimentale che l’artista rischia di pagare, vuoi per l’essersi votato in modo totalizzante al proprio talento, vuoi anche per i limiti che l’essere umano ha e che Spielberg ci mostra. Vi è un po’ di Fellini e di Allen, un po’ di Lucas e  dei maestri immortali della Nouvelle Vague francese, in questa sua autobiografia ma poi in realtà no: c’è soprattutto Spielberg che dipinge a mano libera. L'insieme abbraccia ma senza fanatismo il sogno americano, prende per mano il pubblico e lo guida dentro la sua anima, quegli anni in cui trovò dentro a piccole cineprese il modo di fuggire da tutto e tutti, di accettarsi per ciò che era.

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La cinepresa come mezzo per capire ed esorcizzare il dolore e soprattutto rielaborarlo e metterlo in scena. 

Una lezione crudele che Sam fa sua quando si trasferisce in California e viene bullizzato dai propri compagni perché è ebreo.

Le immagini però gli permettono di avere potere su di loro, aspetto che ci porta all’altra sequenza fondamentale di The Fabelmans: Sam deve realizzare il film della gita al mare del proprio istituto che verrà successivamente mostrato al ballo di fine anno.

Una volta arrivato il fatidico giorno, nel buio dell’istituto viene proiettato il lavoro del personaggio interpretato dal commovente Gabriel LaBelle, che sconvolge uno dei bulli.

Le immagini infatti lo elevano a divo del Cinema, mettendo in risalto tutte le sue qualità atletiche.

Perché farlo?

Semplice: Sam con questa scelta ottiene il rispetto del bullo - che grazie al film riconquista la propria ragazza - mettendo in scena una manipolazione del vero, una sorta di propaganda, un rischio etico che riflette sulla nostra vulnerabilità da spettatori.

Due sequenze dall’aspetto teorico vitale, che prendono in esame due modi di vedere e concepire il Cinema, due modi di intendere la vita, due modi di catturare le immagini-specchio della natura dei genitori di Sam/Spielberg.

The Fabelmans a mio avviso non è solo un biopic, ma un punto di vista sul guardare le immagini, un film che non ha mai l'orizzonte centrale ma sempre in alto o in basso e perciò, come insegna John Ford, un orizzonte interessante che produce un significato, una narrazione.

Un’opera che è un saggio teorico, una dichiarazione d’amore e una storia struggente, l’ennesima lezione di Cinema di un regista unico che in questo film da The Fabelmans diventa The Fablesman, l’ultimo cantastorie: Steven Spielberg.

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martedì 27 dicembre 2022

Hamoun - Dariush Mehrjui

un Iran e una storia che sembrano simili all'Italia degli anni sessanta.

Hamid, sposato con un'artista, ha problemi nella conclusione della sua tesi e in più la moglie vuole divorziare, scoprirete perché.

lui lavora in un ministero e tira avanti così, senza grande interesse.

il film è denso e ricco di situazioni e citazioni, sogno e realtà, appare anche Lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta.

Dariush Mehrjui è davvero bravo a tenere la tensione e l'attenzione per tutto il film.

un piccolo gioiellino da non perdere, promesso.

buona (meglio due volte) visione - Ismaele

 

 

 

The film is shot with many short-duration shots, which gives it a nervous, energetic dynamic. Many of the shots, as with Ali Santouri, are hand-held, and there are numerous zoom shots. In addition, there are a number of jarring jump-cuts, which detract somewhat from one's engagement with the film. Overall, the brisk pace of the action affords a large number of episodes, which must have entailed an astonishing number of camera setups. As with some of Fellini’s films, many of these episodes add to the general effect, but are not uniquely essential to the story – they could have been omitted, and others added, without the viewer noticing much difference. The soundtrack background is often quite dead and lacks the ambient noise that gives one a sense of presence. In addition, the soundtrack is overlayed with modern organ music (said to be inspired by Bach). The combination of the soundtrack music and the lack of ambient sounds tends to alienate the viewer from the reality of the situation, which though it may have been the intention of Mehjui, is, I think, detrimental to the viewing experience.

At the end of the film, astonishingly, just as Hamid is finally about to succeed in killing himself by drowning, Ali, his elusive spiritual master, appears out of nowhere, has him pulled out of the water, and saves him. It is an epiphany! Hamid, as he was drowning, had been dreaming of an imaginary fantasy world in which all his dreams come true. Instead, he has been brought back to the real world (with all its problems) and rescued from a "sea of confusion". Maybe this time he can engage it authentically. Despite all the despair in the film, there is this final hopeful image of Hamid coming back to life. Or is that last scene just another dream?

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“Hamoun” (1989) is undoubtably Dariush Mehrjui’s most famous and popular film, which also has the biggest cult following in Iranian cinema. The admirers of the film have seen “Hamoun” repeatedly over the years and know its dialogue and scenes by heart. All of Mehrjui’s cinematic themes are gathered in one place in “Hamoun”. The old Mehrjui and the new Mehrjui are confronted with each other in the film: Hamid Hamoun against Ali Abedini; body against soul; insanity against serenity; realities against divinities; cinema against philosophy. The opening scene is one of the most beautiful moments in Mehrjui’s cinema: the director, heavily influenced by Fellini’s cinema, gathers all the people from his life in an imaginary location to once again show us his infatuation with having a mass of characters in a limited space.

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lunedì 26 dicembre 2022

Sarura - Nicola Zambelli

da alcuni anni ad At-Tuwani, un piccolo villaggio vicino a Hebron, si è scelto di reagire all'assedio e all'aggressione dei coloni armati, e dell'esercito israeliano che li protegge e li supporta, in modo nonviolento.

un gruppo di giovani, Youth of Sumud, coordina la lotta pacifica, con l'aiuto di volontari internazionali.

Nicola Zambelli, che già nel 2009 aveva documentato la loro lotta in Tomorrow’s Land, visita quei luoghi, i bambini di allora sono cresciuti e organizzati adesso in Youth of Sumud.

è una lotta impari, una resistenza piena di coraggio e perseveranza per difendere la loro terra.

si può consultare il sito del film, https://sarurafilm.com, anche per eventuali proiezioni.

buona (piena di speranza) visione - Ismaele



 

 

La vicenda del villaggio di At-Tuwani è la storia che nel 2010 abbiamo filmato per poi raccontarla con il nostro primo film “Tomorrow’s Land – how we decided to tear down the invisible wall” (2011 – vincitore di numerosi premi in Italia, documentario che ha partecipato tra gli altri ai David di Donatello, Thessaloniki Film Festival, Al Jazeera Film Festival), centrata sull’esperienza del comitato di lotta popolare nonviolenta delle colline a sud di Hebron. Nel corso degli ultimi dieci anni, le colonie attigue ad At-Tuwani hanno continuato ad espandersi, incrementando il numero di abitanti, continuando a costruire abitazioni e fattorie per gli animali. Allo stesso tempo, l’esercito israeliano ha continuato a ostacolare la presenza palestinese nell’area, demolendo qualsiasi nuova abitazione, ostacolando la vita quotidiana tramite check-point volanti e controlli arbitrari, continuando a cercare pretesti per poter allontanare gli abitanti dalle loro case.

Un documentario – interamente autoprodotto on-line grazie a Produzioni dal Basso e off-line grazie a decine di incontri pubblici – che ha aiutato a far conoscere la storia di At-Tuwani, è stato visto da migliaia di persone in centinaia di proiezioni nel mondo.

Il ritorno ad At-Tuwani

Nel 2018 siamo tornati ad At-Tuwani per raccontare la storia di “Youth of Sumud”, un collettivo di giovani e teenagers nato e cresciuto sotto occupazione militare e all’interno della lotta popolare del villaggio, composto da ragazzi e ragazze che studiano e si impegnano per garantire a sé e ai loro concittadini la possibilità di continuare a esistere sulla propria terra e ottenere un futuro migliore. I ragazzi e le ragazze di YOS sono i bambini che dieci anni addietro abbiamo filmato mentre compivano un estenuante tragitto dal villaggio di Tuba a At-Tuwani scortati dai soldati dell’esercito israeliano (scorta istituita a seguito dei violenti attacchi portati avanti ai danni dei bambini dai coloni di Ma’On e Havat Ma’on, che furono fonte di proteste e indignazione nella stessa Israele); sono i bambini che abbiamo visto andare a scuola e che sognavano la scomparsa dell’occupazione.

Crescendo, alcuni di questi ragazzi hanno costituito un collettivo di lotta chiamato “Youth of Sumud”, decidendo non solo di proseguire l’azione di resistenza nonviolenta del comitato popolare del villaggio ma anche di riappropriarsi (simbolicamente e materialmente) delle terre che sono state sottratte ai loro concittadini, andando ad abitare nelle grotte evacuate di Sarura.

Vogliamo raccontare la storia di Youth of Sumud perchè possa costituire un esempio concreto di speranza, una lotta pacifica condotta all’insegna della dignità umana, il cui esito resta tuttora incerto ma il cui finale è scritto attraverso la storia di ciascuno. Una storia minuscola rispetto alla Storia con la S maiuscola, ma allo stesso tempo universale e rappresentativa di un conflitto che sembra non trovare mai fine.

Un conflitto che, come tutti i conflitti, potrà trovare un esito positivo solo nella piena accettazione dell’essere umano, riconoscendone l’esistenza e dando ad esso visibilità. E, soprattutto, come i ragazzi e le ragazze di Youth of Sumud sembrano fare nei confronti dei loro pari, speranza…

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Sarura mostra immagini di oggi, del 2009 e degli anni intercorsi tra la prima e la cosa visita dei registi. Segue i bambini di allora diventati ragazzi o adulti, filma le stesse strade, gli stessi campi, le stesse zone di frontiera, gli stessi scontri fra i coloni dell'avamposto israeliano di Ma'on, l'esercito, i palestinesi di At-Tuwani e gli attivisti: a parte la grana del digitale, meno definita e netta, nulla pare cambiato. La stessa aggressività dei soldati, gli stessi ragionamenti paradossali degli occupanti (secondo i quali il problema non è l'aggressività dei coloni, ma l'ardire dei palestinesi che si ostinano a pascolare nelle proprie terre), la stessa tensione che coinvolge anche i registi, trasformati da testimoni distanti a presenze partecipi.

Le linee temporali di Sarura si sovrappongono, mentre il montaggio accosta passato e presente. Ciò che nel frattempo è cambiata è la storia di At-Tuwani e del vicino villaggio di Sarura, sgomberato dagli israeliani. Soprattutto, sono cambiate le teste delle persone che lì vi abitano: oltre a resistere allo sgombero con la creazione di un comitato di lotta popolare, con azioni pacifiche contro il governo israeliano e con registrazioni audio e video delle violazioni dei diritti dei palestinesi, da qualche tempo si è cominciato anche a restaurare Sarura e le sue grotte.
La perseveranza, dunque, nel film è la luce di candela dell'inizio: una fiamma tenue, un fuoco controllato che non distrugge, ma illumina, e per ora non si è ancora estinto.

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In una striscia di terra occupata, tra persone ormai abituate alla loro condizione, il film testimonia un movimento che rompe la catena degli eventi, che prova a immaginare un altro mondo, un altro modo di vivere: «il futuro è un posto sconosciuto», recita il sottotitolo della versione internazionale.

La questione palestinese è uno stallo perenne, una condizione che dopo vari decenni è quasi istintivo – colpevolmente – considerare, se non naturale, almeno strutturale, parte del mondo che l’ha creata e alla quale appartiene.
Ali, uno dei “giovani della perseveranza” di At-Tuwani, dice: «Qui ogni bambino crede che sia normale la vita che vive, qualunque essa sia. Poi però crescendo ho capito che ci sono persone che violano i miei diritti, e che questo non è il modo in cui i bambini di tutto il mondo normalmente vanno a scuola». È proprio questo lo scarto che il film cerca e filma nei territori occupati: l’inversione di rotta della Storia e della mente delle persone, protagonisti e osservatori, vittime e spettatori; l’iniziativa che cambia il decorso delle cose.

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The Future Is an Unknown place nasce e cresce in questo clima di endemico conflitto, uno scontro che dopo l’intifada sembra essersi frammentato in decine o centinaia di piccoli conflitti. Le cronache e anche il cinema hanno raccontato queste situazioni che non hanno solo un riflesso locale, ma fanno inevitabilmente parte di una più grande unità. Dall’altra parte del racconto, attraverso immagini e interviste che sanno restituire una rabbia soffocata da una non violenza praticata e convinta, Zambelli lavora sul tempo. Un lavoro precedente, al seguito di sigle internazionali che da sempre lavorano in solidarietà con gli abitanti dei territori della Palestina, aveva già mostrato le condizioni in cui erano costretti a vivere i palestinesi tra provocazioni e aggressioni ingiustificate. Il tempo che da una parte è trascorso velocemente, sembra invece immobile quanto agli avvenimenti. Nulla è mutato a Sarura, i ragazzini di allora sono diventati adulti e qualcuno si è anche laureato, ma i ragazzini di oggi, che pascolano le greggi al pomeriggio e al mattino vanno a scuola, hanno bisogno dell’esercito che li scorti per evitare le aggressioni. Anzi, alla fine del film si viene a sapere che nel maggio 2021 i coloni hanno distrutto le piantagioni di ulivi e quanto i giovani della “Youth of Sumud” avevano realizzato a Surura. Il lavoro è ricominciato subito dopo, ma il futuro, come ci ricorda Zambelli, è una terra sconosciuta ed in questo tempo senza volto che si snoda ancora la resistenza di questi giovani con la speranza negli occhi e nelle parole.

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sabato 24 dicembre 2022

Taraneh Alidoosti in prigione

 


…Il regista Asghar Farhadi si è esposto sui social lanciando un appello per la liberazione dell'attrice iraniana Taraneh Alidoosti, arrestata qualche giorno fa a causa del suo sostegno alle proteste nel Paese contro il regime guidato dall'Āyatollāh Ali Khamenei. Farhadi ha scritto un lungo messaggio con una foto dell'attrice.

"Ho lavorato con Taraneh in quattro film, ora lei è in prigione per il giusto sostegno che ha dato ai suoi connazionali e per l'opposizione alle ingiuste sentenze. Se sostenere chi protesta è un crimine, allora decine di milioni di iraniani sono criminali" ha scritto Farhadi. Taraneh Alidoosti è stata arrestata lo scorso 17 dicembre…

Alidoosti boicottò la cerimonia di premiazione per protesta contro le politiche di immigrazione sancite all'epoca dal presidente americano Donald Trump nei confronti delle persone provenienti dai Paesi a maggioranza islamica.

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venerdì 23 dicembre 2022

Korkuyorum Anne – Reha Erdem

un film di quando in Turchia non era un regime erdoganiano-musulmano-carcerario, un gruppo di vicini e amici, con le amicizie e le disavventure di Alì, che perde la memoria, di un bambino che non vuole essere circonciso, un cane che riesce a tornare a casa, un anello che va e viene, amori nascosti e dichiarati.

insomma un film neorealista di un ottimo regista turco, che poi farà film più impegnati.

buona visione - Ismaele

 

 

Après l'exposé de quelques dictons plutôt intrigants sur les catégories de femmes et d'hommes qui peuvent exister, entre insatisfaites éternelles et contents d'eux-mêmes, le film démarre et brasse nombre de personnages et de thématiques. Au bout de quelques minutes, on se dit que ce film devait sûrement être une comédie, mais que notre culture fait qu'on ne comprend pas grand-chose, ni des enjeux lié à l'amour d'un chien auquel on est allergique, ni de la signification de cette bague mise au rebut, prétendue volée, mais payée et donnée en gage d'amour à un autre. Elle doit avoir de la valeur, mais laquelle, lesquelles ?

Et le spectateur patient n'aura de cesse de s'interroger tout au long du film, sur les rapports familiaux improbables entre les uns, la peur du service militaire de l'autre, ou les trous de mémoire de celui-ci… Le spectateur impatient, lui, finira par trouver le temps long devant cette agitation sans queue ni tête de plus de deux heures dix. Si on sourit parfois, on se qu'on a soit pas du tout le même sens de l'humour, soit que chaque scène tombe à plat, malgré tous les efforts d'une honorable troupe d'acteurs.

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martedì 20 dicembre 2022

Sound of My Voice - Zal Batmanglij

Maggie (Brit Marling) arriva dal futuro e ha fondato una setta per aiutare le persone ad affrontare il futuro.

due fidanzati (Peter e Lorna) si infiltrano nella setta per poter fare un documentario che smascheri i loro imbrogli.

Maggie affascina tutti, ha le parole giuste per tutti, li informa che dovrà sparire e dovranno cavarsela da soli.

poi il mistero esplode, sembra che qualcuno ricerchi Maggie per arrestarla, mentre Maggie cerca una bambina, alunna della scuola dove lavora Peter.

Peter e Lorna si guardano, forse Maggie ha sempre detto la verità, lei arriva dal futuro, forse.

ciascuno interpreti le cose, niente è come sembra, o tutto è come sembra, chissà.

piccolo grande film da non perdere.

buona (misteriosa) visione - Ismaele

 

 

chi vuole qualche spiegazione, ne trova, forse, qui

 

"Sound of My Voice" è un esordio all'insegna del genere che però non disdegna incursioni nel cinema d'autore, soprattutto quando costruisce una tensione che esula dai clichè dell'azione e del colpo di scena, ma deriva direttamente dal volto dei personaggi e dalla bravura del regista di sapervi leggere umori e stati d'animo. Immerso in un atmosfera sospesa e dilatata, concentrato in spazi chiusi e claustrofobici ed illuminato da una luce plumbea quand'anche artificiale, il film di Batmanglji è anche la conferma di un'attrice in ascesa, Brit Marling ("Another Earth", 2011 ma anche "Le regole del silienzio", 2013) che per il momento riesce a sfruttare il mistero di un volto da gioconda "preraffaelita" per costruire visioni di uno spaesamento su cui si riversano le paure di un paese in cerca di  nuove identità.

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L’interpretazione di Brit Marling, già pluripremiata  per Another Earth, fissa l’incanto nell’imperturbabile fermezza che caratterizza le grandi guide spirituali. L’eloquio del suo personaggio, tanto brillante e profondo quanto limpido e naturale, porge il racconto dell’impossibile con quella grazie sofferta che è il nobile sedimento del dolore, e che non permette al cuore di dubitare della sua autenticità. Anche la  ragione di noi, distaccati spettatori, per un attimo sarà portata a cadere nel tranello. E in quel momento, permanendo nel nostro romantico errore, proveremo il piacere di trovarci di fronte ad un film irrisolto, che sembrava un delicato psicothriller e poi è dolcemente naufragato nell’assurdità di un sogno in cui è tanto bello credere. Tuttavia, anche se alla fine decideremo di arrenderci alla triste evidenza, l’amarezza di Sound of My Voice ci apparirà comunque stemperata dalla gentilezza di un animo – teneramente infido – capace di coltivare l’inganno con il gusto raffinato di chi ama dispensare magnifiche illusioni.

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Noi spettatori alla fine siamo persone semplici. Non abbiamo bisogno di insistiti colpi di scena, trovate raccapriccianti ed epifanie dell’ultima ora, ci basta una buona manciata di intelligenza, qualche bel dialogo ben scritto e un incedere elegante, aiutato da una regia degna di questo nome. Insomma abbiamo bisogno di un film che non vada ad intaccare la nostra autostima, telefonando fin troppo ed arrivando a giustificare qualsiasi bivio narrativo. Sound of my voice si classifica ai primissimi posti tra le pellicole più intelligenti dell’anno, entrando lentamente ed inesorabilmente nella mente dello spettatore, arrivando a restituire uno spettacolo stimolante, mai banale, ricchissimo di domande e finalmente avaro di risposte. La storia della coppia che si avvicina ad una setta di pochi eletti, riuniti nell’adorazione di una ragazza che dice di venire dal 2054, per smascherarne le menzogne, è di per se un’idea estremamente intrigante, sviluppata da una sceneggiatura, caso più unico che raro, più intelligente che furba, capace di istillare nella mente dello spettatore il tarlo del dubbio e del forse perfino sospetto di non aver capito nulla. Sempre più spesso il cinema cede alla tentazione di spiegare tutto, togliendo così a noi spettatori l’etica del dibattito e la dignità dell’ignoranza. Fin troppo traditi dalle scorciatoie narrative orchestrate da sceneggiature esili, frutto della mente di sceneggiatori deboli, noi spettatori senzienti ci siamo abituati ad inserire il pilota automatico, condannando noi stessi a subire il film. Sound of my voice ci restituisce la vista e il gusto, riconsegnandoci un cinema più libero e più affascinante, anarchica reliquia di una gioia espressiva, fatta di dubbi, domande e lacrime. Vero punto di non ritorno verso un altro cinema più che possibile, un cinema che forse viene da molto lontano, dal 2054.

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…En la película se aborda el tema de las sectas o grupos religiosos, en este caso formado con una joven que dice venir del futuro. Una líder misteriosa pero a la vez carismática que ha formado un grupo importante de fieles. Es interesante la evolución de la pareja infiltrada, quien al inicio están convencido de que destaparán una farsa, y como poco a poco en uno de ellos surge la duda, la confusión por su misión y entre ellos mismos. Toda esa intriga, el director logra trasladarla al espectador, quien también deambula entre los distintos terrenos de veracidad. Hay algunas críticas visibles y camufladas en los diálogos, a la psicología y las mismas organizaciones y sectas, entre otros. Cuando al final, estamos casi seguro de tener cierta certeza sobre el asunto, la historia toma un rumbo que pone de cabeza todo lo se venía hilvanando y concluyendo. Aunque algunas personas critiquen el final, a mi me ha gustado. Pero finalmente, todo el filme se mantiene por las excelentes actuaciones del reparto, principalmente de la pareja de infiltrados, Christopher Denham y Nicole Vicius, que realmente destacan y viven sus personajes; sin olvidar a la líder de la secta, Maggie, interpretada por la estupenda Brit Marling, quien siempre brilla en pantalla.  

En síntesis, un trabajo muy bueno con un tema muy interesante, con muy buen ritmo, dosificación y sorpresas, acompañadas de muy buenas interpretaciones.

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Una cinta que habla del cambio, la duda y el antagonismo; del grupo espiritual, consolador hasta la delirio, y el del frenesí tradicional de la clase media, con sus ambiciones laborales y sus angustias materialistas. Una introversión en el devenir temporal. Un futuro que ya está escrito, un pasado mal borrado y un presenta sujeto al cambio. Un sermón en boca de una maravillosa Brit Marling, que de entre sus múltiples y polifacéticas tareas, destaca sobre cualquier otra la de actriz. Está hipnótica, sublime, persuasiva y su tono y color de voz tirarían abajo cualquier tentativa de esgrimir un argumento racional. Transmite paz, esperanza, sabiduría panfletaria. Incluso llega a dar miedo. Un registro interpretativo que toca los extremos sin aspavientos ni exageraciones. Lo mejor de una película a la que le haría falta media hora más para hacerse grande, abandonar ese tufillo a teleserie y no parecerse tanto a un buen capítulo de Fringe. Quizá con más imperfecciones y errores de los que parecen, para creer en ella se necesita un salto de fe que cualquiera estaría dispuesto a dar si viene del 2054 una profeta como Brit Marling.

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…What's even more impressive is the fact that Marling co-wrote the screenplay (with director Zal Batmanglij), and created this character for herself. Not only is Maggie not a typical "pretty girl" -- she's a grown-up with mystery and depth -- but she also has powerful, showy moments that many actors wait years for a chance at. But then, when it comes down to it, Marling actually has the raw skill and charisma to play the role, and to turn in one of the great performances so far this year.

Additionally, other characters talk about her, heightening her allure. After Peter's opening up, Lorna talks about Maggie as if she has superpowers; she's not only pretty, but she reaches Peter in ways that Lorna cannot.

Aside from this great character, Marling and Batmanglij have also whipped up a tantalizing mystery story, broken up into ten "chapters" and sometimes launching into a puzzling scene that is, for the moment, totally unconnected. Almost like a "B" movie, Sound of My Voice embraces its grayish, washed-out, low-budget video look. Batmanglij paces the movie quickly, paying it off with a nifty zinger, and closing up shop before anyone has a chance to catch his or her breath…

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domenica 18 dicembre 2022

Farha - Darin J. Sallam

a volte chi guarda un film, anche se non legge molto, può capire un po' di cose.

per esempio si può capire:

che "l'esercito più morale del mondo", così si glorificano da soli in Israele, è un esercito di merda come tutti gli altri, e probabilmente anche peggio;

che l'affermazione che la Palestina fosse un deserto inabitato da rendere vivo da parte dello stato israeliano è una delle bugie più grandi mai concepite da cervello umano;

che la speranza dei palestinesi che aspettano un aiuto dai paesi arabi è proprio un'ingenuità, allora come oggi;

che nel 1948 in Palestina non c'è stata una guerra, in realtà è stata una caccia al palestinese, da parte di efferati assassini di origine ebraica, per rubare le terre palestinesi e per ottenere una pulizia etnica che continua da allora tutti i giorni;

che mostrare un sadico assassino di origine ebraica è uno intollerabilmente antisemita, dicono, per questo in Israele vorrebbero che Netflix censurasse Farha.

oltre ai motivi sopra esposti ci sono altri motivi per vedere il film.

prima di tutto è una storia raccontata dalla parte degli sconfitti, vista con gli occhi di una ragazzina che aveva uno splendido futuro davanti, e dal 1948 avrà una misera vita in un campo profughi.

la protagonista Farha è bravissima a rendere la paura, la disperazione e l'impotenza, sua e di tutti.

insomma, non sarà un film perfetto, come dice qualcuno, ma allo stesso tempo è un film da non perdere.

buona (Farha) visione - Ismaele 

 

 


 La regista ha raccontato di essere viva perché il padre fu un sopravvissuto alla Nakba (che vuol dire “catastrofe”). Ascoltando le storie della madre si interessa particolarmente a quella di Radiyyeh, che la madre ha avuto modo d’incontrare dopo essere arrivata in Siria. Ciò che ha molto colpito Sallam è l’idea di una ragazza rinchiusa dentro una cantina dal proprio padre per salvarla dalla violenza degli eventi esplosi in Palestina.  

Non riuscivo a togliermi dalla testa quella ragazza, continuavo a pensare a come poteva sentirsi in questa piccola stanza oscura, soprattutto perché ho paura dei luoghi stretti e bui. Nel corso degli anni, queste storie, queste persone, le loro vite, si sono unite nella mia mente, andando lentamente a formare la storia di Farha. Non volevo trattare Farha solo come un numero, una dei 700.000 che furono costretti all’esilio. Volevo concentrarmi sul suo viaggio personale a sui suoi sogni, passati dal combattere per imparare, al combattere per sopravvivere. E’ una storia di amicizia, aspirazioni, separazioni, formazione, sopravvivenza e liberazione di fronte alla perdita.

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…Se il contesto storico è infatti ampiamente delineato, quello più squisitamente umano manca a volte di profondità.
Darin J. Sallam dirige con sicurezza, muovendosi con abilità nella costrizione degli spazi chiusi in cui è ambientata l’ultima parte della pellicola. La regista lavora con efficacia su luci e suoni, alternando momenti più claustrofobici ad altri di introspezione, grazie al dualismo prigione/rifugio su cui riesce a costruire una tensione che giova alla tenuta complessiva del film. Discreta la prova del cast, nonostante qualche ingenuità dovuta alla giovane protagonista Karam Taher e alla caratterizzazione non sempre attenta dei personaggi.
Farha è un film che tratta in maniera sentita e autentica una pagina terribile di storia recente, non riuscendo però a mantenere sempre una sua coerenza narrativa interna. L’accostamento della dimensione più intima e personale a quella collettiva palestinese, pur non essendo esente da scelte a volte sbrigative e riduttive, restituisce una testimonianza forte e vibrante di un evento che ha segnato un intero popolo.

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“Farha”, la Nakba palestinese in un film e Israele boicotta Netflix - Michele Giorgio

La campagna contro «Farha» è cominciata ben prima del rilascio del film su Netflix. Gli israeliani, dai ministri fino ai cittadini comuni, o meglio la maggior parte di essi, sono furiosi contro la piattaforma statunitense perché ha reso disponibile al pubblico mondiale un film che attraverso gli occhi di una ragazzina, racconta di una strage avvenuta nel 1948, durante le fasi che portarono alla nascita dello Stato di Israele, di una intera famiglia palestinese, inclusi bambini, da parte di uomini di una milizia ebraica. «È pazzesco che Netflix abbia deciso di trasmettere in streaming un film il cui unico scopo è di incitare contro i soldati israeliani», ha tuonato il ministro delle finanze uscente Avigdor Liberman. Analogo il giudizio del suo collega alla cultura, Hili Tropper: «quel film si fonda su di un mucchio di bugie». Dopo l’inserimento di «Farha» su Netflix, si è anche registrato in Israele un calo degli abbonamenti alla piattaforma. Azioni che non hanno turbato più di tanto la regista del film, la giordana Darin Sallam, che ripete di aver rappresentato una vicenda vera, simile ad altre avvenute nel 1948 e che Israele vorrebbe tenere nascoste.

Il film piace a molti, naturalmente di più ai palestinesi che vi notano una accurata rappresentazione della violenza subita dai loro nonni e parenti anziani quasi 75 anni fa durante la Nakba, la catastrofe, così come è chiamato l’esodo di centinaia di migliaia di palestinesi dalla loro terra e la perdita di tutto ciò che avevano, a cominciare dai loro villaggi – distrutti in gran parte dopo il conflitto – e dalle loro case. L’elaborazione del trauma nazionale della Nakba attraverso l’arte è una delle strade privilegiate che segue da un po’ di tempo la folta schiera di giovani registe e registi palestinesi sbocciata negli ultimi 10-15 anni. Un percorso che l’establishment israeliano prova ad ostacolare, in particolare all’estero, perché getta un’ombra sulle azioni e le strategie del movimento sionista e contraddice la narrazione ufficiale della nascita dello Stato ebraico: brutali, violenti e intransigenti furono solo gli arabi, gli israeliani non fecero altro che difendersi e realizzare il «ritorno del popolo ebraico dopo duemila anni nella terra promessa». L’esodo palestinese, secondo questa tesi, fu volontario, nessuno dei profughi e degli sfollati fu costretto a scappare sotto la minaccia delle armi.

  «Questa versione non può essere contraddetta neanche da un singolo episodio. Il motivo è semplice: la Nakba per Israele non è mai esistita anche se persino importanti storici israeliani ne hanno scritto sulla base di documenti ufficiali», spiega al manifesto Jeff Halper, antropologo israelo-americano autore di sei libri sulla questione palestinese. «La Nakba non può essere insegnata o studiata nelle scuole – aggiunge Halper – perché il suo riconoscimento metterebbe in discussione l’immagine luminosa che la versione ufficiale ha dato di quanto è accaduto prima, durante e dopo il 1948. Anche il massacro di Deir Yassin (un villaggio nei pressi di Gerusalemme, ndr) ampiamente documentato deve restare chiuso in un cassetto». Di recente, ricorda l’antropologo, «ha generato polemiche e condanne a ripetizione Tantura, un documentario (del regista israeliano Alon Schwarz, ndr) che riferisce con testimonianze dei protagonisti il massacro di decine di palestinesi compiuto sempre nel 1948 da una brigata israeliana». Secondo Halper la comunità internazionale e l’opinione pubblica occidentale accettano senza porsi interrogativi la narrazione ufficiale israeliana perché «considerano necessario tutto ciò che, inclusa la Nakba, ha favorito la creazione dello Stato di Israele».

La campagna israeliana contro «Farha» nel frattempo va avanti. La trama del film è pura fiction, scrivono sui social tanti israeliani, quelle scene, aggiungono, non sono mai avvenute nella realtà. I palestinesi al contrario difendono il film e insistono sul suo fondamento storico. Le atrocità del 1948, scrivono, non sono mai terminate. E denunciano che in serie tv e film di produzione israeliana, presenti anche su Netflix, i palestinesi sono sistematicamente rappresentati come un popolo di violenti e terroristi. 

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sabato 17 dicembre 2022

Les glaneurs et la glaneuse (La vita è un raccolto) - Agnès Varda

due film (Les glaneurs et la glaneuse (La vita è un raccolto) - Agnès Varda Les glaneurs et la glaneuse... deux ans après - Agnès Varda) mostrano spigolatrici e spigolatori, raccoglitori degli avanzi dopo il raccolto e anche dopo la vendita.

molte perdone, per motivi ideologici, economici, etici, vivono, almeno in parte, degli "avanzi".

la grandezza di Agnès Varda  è di cercarle e farcele conoscere, queste persone, con una sincerità, sorriso e umanità invincibili.

provate a cercare quasti film, e conoscerete persone che non pensavare di poter conoscere, persone come noi, sorelle e fratelli, persone che non inquinano, non fanno del male, spesso umiliati e offesi.

grazie, Agnès Varda! 

buona (piena di speranza e fiducia) visione - Ismaele


 

 

…Pratica antica, la “spigolatura” è da tempo immemorabile il connotato di un consorzio umano che ha saputo dare dignità anche ai suoi lati peggiori.

E’ ciò che intende Varda, e per far questo si fa aiutare dalla pittura andando a “spigolare” nei musei le tele perdute di Jules Breton e Jean-François Millet, bellissimi dipinti di un ‘800 segnato dai colori caldi del crepuscolo, quando il lavoro termina, o dal sole vangoghiano di meriggi agresti quando la fatica ferve.

Quelle contadine intente alla “spigolatura” sono piccole dee di un mondo scomparso, ninfe dei boschi, Driadi e Amadriadi che completano il lavoro dei campi.

Quello che raccolgono non sa di rifiuto, spazzatura, miseria.

Eppure miseria c’era, e tanta, ma non si avverte l’assenza di un’etica solidale, c’è il calore di un’umanità in cui vivere insieme sembrava ancora cosa buona e giusta.

Non è possibile senza rabbia vedere intere pagnotte di semi pregiati finire in cassonetti da cui sarebbero state triturate nelle discariche senza gli “spigolatori”, o rosse e gialle mele che sarebbe stato meglio non sottrarre ai loro rami.

Le immagini di Les glaneurs et la glaneuse hanno un potenziale fortemente provocatorio, rivoluzionario, sono una denuncia forte, un atto d’amore, “ un grillo su un mucchio di spazzatura”.

Venti anni fa…

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…In "The Gleaners and I," she has a new tool--a modern digital camera. We sense her delight. She can hold it in her hand and take it anywhere. She is liberated from cumbersome equipment. "To film with one hand my other hand," she says, as she does so with delight. She shows how the new cameras make a personal essay possible for a filmmaker--how she can walk out into the world and without the risk of a huge budget simply start picking up images as a gleaner finds apples and potatoes.

"My hair and my hands keep telling me that the end is near," she confides at one point, speaking confidentially to us as the narrator. She told her friend Howie Movshovitz, the critic from Boulder, Colo., how she had to film and narrate some scenes while she was entirely alone because they were so personal. In 1993 she directed "Jacquot de Nantes," the story of her late husband, and now this is her story of herself, a woman whose life has consisted of moving through the world with the tools of her trade, finding what is worth treasuring.

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De todos los medios de comunicación que hoy en día nos rodean quizás ninguno como el cine documental para mostrarnos aquella parte de la realidad que más acusadamente lejana y ajena nos puede resultar. El medio televisivo, con su inmediatez y su dimensión de producto de consumo, nos puede llegar a inmunizar contra esa sensibilidad necesaria que se llega a requerir para conmovernos a la hora de enfrentarnos a esas situaciones de injusticia social que campan a nuestro alrededor, invocando un dejá vu en los noticiarios, donde el drama colectivo de millones de seres humanos parece frivolizarse al intercalarse estas tragedias entre los eternos bloques de información deportiva (perdón, futbolística). Sin embargo, este género cinematográfico que inmortaliza el presente nos deja muy frecuentemente pequeñas joyas, sublimes aportaciones que nos posibilitan reconocer el mundo que habitamos, reflexionando sobre él y tratando de dar respuestas a las inquietudes que nos abordan e incomodan. Suponemos que con esta filosofía nació en el año 2000 de la cabeza de la veterana realizadora francesa Agnès Varda el documental titulado Los espigadores y la espigadora (Les glaneurs et la glaneuse).


Ya desde los efímeros títulos de crédito, esas imágenes que nos introducen en la narración y que por el solo hecho de ser las primeras suelen tener una importancia primordial en todos aquellos “autores” que se precien de ser llamados como tales, observamos que estamos ante una obra que tiene pretensiones de parecer improvisada. Nos recibe la penetrante mirada de un gato, escrutadora, llena de inquietud por observar lo que le rodea y que, por tanto, parece quererla para sí la propia Agnès Varda, y su porte noble y distante (como lo será en cierta forma la actitud de la directora, que intentará retratar, y no juzgar ni hacer apologías ni proselitismos, dejando que el espectador saque sus propias conclusiones) se aposenta sobre una pantalla de ordenador en la que aparece el nombre de la productora: estamos ante el ensalzamiento de la economía de medios, de la utilización de todos aquellos elementos que están a nuestro alrededor, esperando a ser usados para alguna tarea (aunque no sea aquella para la que fueron concebidos), y esta idea parece imponerse como la filosofía sobre la cual se vertebrará el discurso capital del filme, aquel que nos habla sobre la reutilización, el aprovechamiento, la segunda vida de las cosas...

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By strict definition gleaners describes the practice of gathering crops left on the ground after the harvest, such as any grain. But that old-fashioned practice has all but given way to machines doing that job. Veteran seventysomething French New Wave filmmaker Agnes Varda (“Far From Vietnam”/”Vagabond”/”Cleo from 5 to 7”) shoots a moving humanist/social conscience documentary that gets its title from an 1867 painting by Jean-Francois Millet entitled that “Les Glaneuses” (“Women Gleaning”). It shows three peasant women in a wheat field, stooping to pick up what’s left behind after the harvest. Inspired by this painting Ms. Varda, with her digital video camera in her hand, tracks down modern-day gleaners across France and interviews them whenever possible…

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Fastosi relitti - J.Prevert

Un giorno

Kor Postma scriveva a un amico

uno di quelli che amano i suoi dipinti

giacché egli non dipinge che ciò che ama

Tu sai che la mia pittura non vuole niente di magistrale

d'importante e che cerco di dare una vita più reale a

cose insignificanti, povere, semplici, dimenticate e getta via...

Piume e piante

oggetti sperduti provati

canne secche legate slegate e spezzate

e farfalle sparpagliate

Vecchia trappola e nuova ciliegia

scarti di sughero vestiti come uccelli

Vestigia di terra e di mare di gioia e di miseria

di luce e di vento

Segnali di morte segni di vita

viventi e fragili rovine

figure di rebus teneri enigmi segreti pubblici

Fastosi relitti e favolosi avanzi

rifiuti del bello e cattivo tempo

nelle reti dell'Olandese Volante

a Sanary

dove il pittore affettuosamente li ha sorpresi

nella loro ardente ed incantevole inerzia

sorpresi e raccolti in piena realtà

vale a dire in pieno sogno in pieno desiderio in pieno mistero

in pieno oblio

Là dove la vita non cessa di sciogliersi in lacrime

che per scoppiare in singhiozzi

Là dove la terra dall'orizzonte funebre

sonnecchia sotto l'occhio solo del sole

e poi piangendo dal ridere si sveglia di soprassalto

suoi fiori i suoi mendicanti i suoi uccelli

e fa cantare

Non lontano da li

nelle Alpi Marittime

una bambinetta

come il pittore sulla sabbia

ritrova nel paesaggio della sua testa

cose venute non sa da dove

cose di tristezza e di festa

d'altrove e di dovunque

E queste cose la mia ragazza le dice cantando

Finite le belle barche d'un tempo

finite finite

sono rotte in piccoli pezzi

mai più mai più avranno

una goccia d'acqua

in vita loro

Sono ridotte in mille pezzi

in minuscole fascine

affinché brucino bene

E l'elefante fa un goccio di pipì

È la festa del Montone all'aglio

è ora d'andare a mangiare

dice Cortese il cane povero.

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