Laurence, novella Medea, siede in un aula di tribunale accusata della morte della figlia, avuta da un uomo senza qualità, che poteva essere suo padre, lasciate poi sole, madre e figlia.
la giudice e l'avvocato (donna) cercano di inquadrare la vicenda all'interno della miserevole vita di Laurence, caduta probabilmente nel buco nero di una profonda depressione senza via d'uscita.
“prima di giudicare una persona, bisogna camminare tre giorni nella sue scarpe", si legge in un libro, e tutte le donne del film sembrano saperlo.
appaiono nel film immagini di Hiroshima mom amour, di Maria (Medea) Callas, e alla fine si sente cantare la grandissima Nina Simone.
dall'inizio alla fine si soffre, ma non ci si pente un secondo del tempo speso per questo gran film, senza scorciatoie e senza sensazionalismi.
buona (imperdibile) visione - Ismaele
ps: mi ha ricordato un libro bello e terribile di Veronique Olmi, anche lei francese.
…Escluse poche sequenze iniziali e finali
dedicate alla vita privata della scrittrice, Saint Omer è quasi costantemente asserragliato
nell’aula di tribunale, di cui segue i rituali con stile oggettivo e minuzioso.
Non ci sono colpi di scena o il calor bianco sensazionalistico cui ci hanno
abituati i film giudiziari all’americana. Anche perché in questo caso la colpevolezza
non è mai posta in discussione. Il tema, più sfuggente, è legato al perché di
un gesto che resta inspiegabile.
Infatti la giudice (Valérie Dréville) non
è tanto interessata alle prove, quanto alla ricostruzione del retroterra
biografico, culturale ed emotivo di Laurence. La quale, al netto del suo
atteggiamento enigmatico, rivela il profilo di una donna trattata da invisibile nel paese in cui ha scelto di
vivere, con rapporti sociali quasi inesistenti e una relazione
con un uomo imbelle e molto più vecchio di lei che non l’ha mai presentata alla
sua famiglia e nemmeno ha assistito al parto. Anche la bambina, nata in casa e
mai registrata all’anagrafe, è un perfetto fantasma, priva di una identità
ufficialmente riconoscibile.
Saint Omer vuole essere una riflessione asciutta ed elusiva –
seppure assertiva nello stile visivo ieratico e
immobile – su temi che da un lato toccano corde profonde e
radicali – la maternità nel suo intreccio di istinto, biologia e cultura –,
dall’altro, fotografando la condizione delle società cosmpolite contemporanee,
pongono questioni relative a processi di inclusione ed esclusione per i quali,
in un’ottica di sapore intersezionale, sono dirimenti genere, etnia, classe
sociale di appartenenza.
Durante il processo lasciano sbigottiti i
riferimenti al sortilegio che Laurence dice di aver subito, che agli occhi del
pubblico ministero maschio (Robert Cantarella) sono puerili espedienti per
sollevarsi dalla responsabilità dell’agghiacciante omicidio. Mentre la docente,
francese, con cui si sarebbe dovuta laureare, con fare vagamente
discriminatorio esprime perplessità sul fatto che una donna senegalese possa
scegliere come argomento della tesi una figura biograficamente così distante
come il filosofo austriaco Wittgenstein.
La Diop affonda nel tema
misterioso della maternità,
riannodando il rapporto tra madre e figlia alla catena di relazioni che la
precede, nel quale naturalmente prima di diventare madri si è sempre figlie di
un’altra madre che condiziona il proprio modo di essere donna. Per questo
in Saint Omer ci sono sia il personaggio della madre
di Laurence, che assiste al processo e con cui anche Rama ha delle laconiche
conversazioni, sia gli inserti di filmini di famiglia della scrittrice che
indagano in immagini granulose la relazione di una ragazzina sensibile con una
madre austera e taciturna…
…Più o meno a metà di Saint Omer, infatti,
emerge un elemento ansiogeno, paranoico e irrazionale che
la regista sa ben rappresentare visivamente attraverso una potente
deflagrazione di sguardi e di musica sospirante, ritmica e
ipnotica, che sembra scaturire proprio dal malocchio vudù africano. Queste
crisi violente di panico e disorientamento portano Rama, la scrittrice, a
legarsi mentalmente con la donna responsabile dell’infanticidio: c’è un filo
minaccioso e tenebroso che le lega. Saint Omer è un
film molto parlato ma ciò che conta di più sono in realtà gli
sguardi. Essi sono in grado di evocare una memoria sovrapposta, di più
donne, che condividono un’oscurità comune. Come in La figlia
oscura, le situazioni cambiano, ma le similitudini restano. Sono
specchi deformanti che rimandano però ad una stessa immagine distorta:
quella di donne fantasma, che vorrebbero nascondersi, alle prese con la
difficoltà di accettare di essere madri.
La non scontatezza della maternità è un tema
scomodo, che coraggiosamente è stato trattato ultimamente da alcune
pellicole: quella già citata, da Saint Omer, e, in questa stessa
edizione del Festival, da Stonewalling, film acuto,
verosimile e tagliente di Huang Ji e Ryuji Otsuka,
presentato alle Giornate degli Autori. Essere madri non è così
innato come si potrebbe ingenuamente pensare: si tratta di un dono, ma anche di
un fardello; di una connessione e commistione intima tra madre e figlio.
Citando una delle parti più belle del film Saint Omer,
potremmo dire che si tratta di un “rapporto tra chimere”, tra
creature in divenire che dalle loro madri prendono il latte e che condividono
chimicamente anche la loro più segreta essenza. A loro,
ai figli, però sta il libero arbitrio di saper riconoscere la propria autonoma,
unica e irripetibile natura…
…Al banco degli
imputati, dietro gli scranni della corte, in mezzo al pubblico serpeggia un
rigoroso rispetto della tragedia che Alice Diop restituisce
in toto, senza sacrificare nemmeno l’estrazione a sorte della giuria chiamata a
concorrere al verdetto. Per due lunghissime ore è necessario entrare in aula e
trovare il proprio posto vicino a Rama–Alice.
Non si può distinguere quando la finzione diventi realtà o avvenga il
contrario. La catarsi arriva soltanto per quelli che si sono seduti e rimasti
fino alla fine.
La giustizia che
rivendica Saint Omer con la sua estetica asciutta e
minimale è quella dei corpi che non hanno voce nel marasma di un’agenda
informativa che spesso li riduce a fatti e nominativi. Laurence
Coly ridiventa donna senziente e espressiva, capace di andare
oltre la patina sensazionalistica riavvicinando lo spettare ad una dimensione
misteriosa, non esente da pericoli e dolore ma non per questo non meritevole di
essere restituita nella sua interezza.
Saint
Omer è un film profondamente complesso, che affida a
un’estetica opaca il compito di svolgere con perizia un processo giuridico e
interiore dagli esiti estremamente personali. C’è chi ci mette una vita o a chi
non ne basta una intera per farlo, ma il risultato non può lasciare
indifferenti.
Saint Omer, el debut en la dirección de largometrajes de ficción
de la directora parisina Alice Diop. Para ello se inspira en el
caso real de una mujer de origen senegalés que fue acusada de haber matado a su
hija al dejarla abandonada en una playa para que la marea se llevara. El
objetivo de Diop no es tanto la defensa de la mujer acusada,
sino la reivindicación de la mujer de color, de su dignidad, como mujer de
carácter, instruida, elocuente y con unas características culturales
específicas que en el juicio se llegan a poner en duda, alejada de miradas
condescendientes o paternalistas que aún a día de hoy se dan en el cine. El
objetivo no es denunciar la injusticia del juicio, sino del tratamiento que se
les da a las mujeres negras en la sociedad actual.
Como contrapunto muestra a Rama, una novelista también
de color que acude a la localidad en la que se celebra el juicio a documentarse
para un relato en torno a una actualización del mito de Medea que tiene
previsto escribir. Allí se sentirá como una extraña en un pequeño pueblo del
norte de Francia donde las opciones políticas de extrema derecha.
Sin mayor soporte dramático, Saint Omer es
una película poco amable para el espectador. Áspera y cruda. Diop no
busca complicidades fáciles en su reivindicación, pero su contundencia es
notoria, aunque se tome demasiado tiempo para hacerlo.
…Las malas madres y el peso de Medea se
arrastra generación tras generación. De madres a hijas, la sociedad teje un
cordón umbilical que hace que las mujeres sintamos una gran responsabilidad a
la hora de decidir si ser madres, o no serlos. Siendo juzgadas por las miradas de las personas que nos rodean hagamos lo
que hagamos. Es complejo saber qué es ser una buena madre o
cómo llegar a serlo, cuando el manual que impone ciertas normas está escrito
por manos con sesgos patriarcales y colonialistas.
Tal y como decía la gran autora feminista
y poscolonial bell hooks, no se
pueden abordar las formas de cuidar del mismo modo para todo el mundo. Porque
ciertas culturas tienen una concepción de la familia que es totalmente
diferente de otras. Porque no todas las opresiones pueden
abordarse con los mismos recursos.
Con la película de Alice Diop, Saint Omer, el público privilegiado que observa desde
sus butacas tiene la oportunidad de mirar a través de los ojos de aquella Medea
senegalesa que estaba sola, porque nadie lo quiso ver. De escuchar sus
experiencias, y poder empatizar con aquella mujer que es juzgada no
solo por sus actos, sino por su cultura, género y raza.
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