domenica 11 dicembre 2022

Saint Omer - Alice Diop

Laurence, novella Medea, siede in un aula di tribunale accusata della morte della figlia, avuta da un uomo senza qualità, che poteva essere suo padre, lasciate poi sole, madre e figlia.

la giudice e l'avvocato (donna) cercano di inquadrare la vicenda all'interno della miserevole vita di Laurence, caduta probabilmente nel buco nero di una profonda depressione senza via d'uscita.

“prima di giudicare una persona, bisogna camminare tre giorni nella sue scarpe", si legge in un libro, e tutte le donne del film sembrano saperlo.

appaiono nel film immagini di Hiroshima mom amour, di Maria (Medea) Callas, e alla fine si sente cantare la grandissima Nina Simone.

dall'inizio alla fine si soffre, ma non ci si pente un secondo del tempo speso per questo gran film, senza scorciatoie e senza sensazionalismi.

buona (imperdibile) visione - Ismaele


ps: mi ha ricordato un libro bello e terribile di Veronique Olmi, anche lei francese.






 

…Escluse poche sequenze iniziali e finali dedicate alla vita privata della scrittrice, Saint Omer è quasi costantemente asserragliato nell’aula di tribunale, di cui segue i rituali con stile oggettivo e minuzioso. Non ci sono colpi di scena o il calor bianco sensazionalistico cui ci hanno abituati i film giudiziari all’americana. Anche perché in questo caso la colpevolezza non è mai posta in discussione. Il tema, più sfuggente, è legato al perché di un gesto che resta inspiegabile.

Infatti la giudice (Valérie Dréville) non è tanto interessata alle prove, quanto alla ricostruzione del retroterra biografico, culturale ed emotivo di Laurence. La quale, al netto del suo atteggiamento enigmatico, rivela il profilo di una donna trattata da invisibile nel paese in cui ha scelto di vivere, con rapporti sociali quasi inesistenti e una relazione con un uomo imbelle e molto più vecchio di lei che non l’ha mai presentata alla sua famiglia e nemmeno ha assistito al parto. Anche la bambina, nata in casa e mai registrata all’anagrafe, è un perfetto fantasma, priva di una identità ufficialmente riconoscibile.

Saint Omer vuole essere una riflessione asciutta ed elusiva – seppure assertiva nello stile visivo ieratico e immobile – su temi che da un lato toccano corde profonde e radicali – la maternità nel suo intreccio di istinto, biologia e cultura –, dall’altro, fotografando la condizione delle società cosmpolite contemporanee, pongono questioni relative a processi di inclusione ed esclusione per i quali, in un’ottica di sapore intersezionale, sono dirimenti genere, etnia, classe sociale di appartenenza.

Durante il processo lasciano sbigottiti i riferimenti al sortilegio che Laurence dice di aver subito, che agli occhi del pubblico ministero maschio (Robert Cantarella) sono puerili espedienti per sollevarsi dalla responsabilità dell’agghiacciante omicidio. Mentre la docente, francese, con cui si sarebbe dovuta laureare, con fare vagamente discriminatorio esprime perplessità sul fatto che una donna senegalese possa scegliere come argomento della tesi una figura biograficamente così distante come il filosofo austriaco Wittgenstein.

La Diop affonda nel tema misterioso della maternità, riannodando il rapporto tra madre e figlia alla catena di relazioni che la precede, nel quale naturalmente prima di diventare madri si è sempre figlie di un’altra madre che condiziona il proprio modo di essere donna. Per questo in Saint Omer ci sono sia il personaggio della madre di Laurence, che assiste al processo e con cui anche Rama ha delle laconiche conversazioni, sia gli inserti di filmini di famiglia della scrittrice che indagano in immagini granulose la relazione di una ragazzina sensibile con una madre austera e taciturna…

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…Più o meno a metà di Saint Omer, infatti, emerge un elemento ansiogenoparanoico e irrazionale che la regista sa ben rappresentare visivamente attraverso una potente deflagrazione di sguardi e di musica sospirante, ritmica e ipnotica, che sembra scaturire proprio dal malocchio vudù africano. Queste crisi violente di panico e disorientamento portano Rama, la scrittrice, a legarsi mentalmente con la donna responsabile dell’infanticidio: c’è un filo minaccioso e tenebroso che le lega. Saint Omer è un film molto parlato ma ciò che conta di più sono in realtà gli sguardi. Essi sono in grado di evocare una memoria sovrapposta, di più donne, che condividono un’oscurità comune. Come in La figlia oscura, le situazioni cambiano, ma le similitudini restano. Sono specchi deformanti che rimandano però ad una stessa immagine distorta: quella di donne fantasma, che vorrebbero nascondersi, alle prese con la difficoltà di accettare di essere madri.

La non scontatezza della maternità è un tema scomodo, che coraggiosamente è stato trattato ultimamente da alcune pellicole: quella già citata, da Saint Omer, e, in questa stessa edizione del Festival, da Stonewalling, film acuto, verosimile e tagliente di Huang Ji Ryuji Otsuka, presentato alle Giornate degli Autori. Essere madri non è così innato come si potrebbe ingenuamente pensare: si tratta di un dono, ma anche di un fardello; di una connessione e commistione intima tra madre e figlio. Citando una delle parti più belle del film Saint Omer,  potremmo dire che si tratta di un “rapporto tra chimere”, tra creature in divenire che dalle loro madri prendono il latte e che condividono chimicamente anche la loro più segreta essenza. A loro, ai figli, però sta il libero arbitrio di saper riconoscere la propria autonoma, unica e irripetibile natura…

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…Al banco degli imputati, dietro gli scranni della corte, in mezzo al pubblico serpeggia un rigoroso rispetto della tragedia che Alice Diop restituisce in toto, senza sacrificare nemmeno l’estrazione a sorte della giuria chiamata a concorrere al verdetto. Per due lunghissime ore è necessario entrare in aula e trovare il proprio posto vicino a RamaAlice. Non si può distinguere quando la finzione diventi realtà o avvenga il contrario. La catarsi arriva soltanto per quelli che si sono seduti e rimasti fino alla fine.

La giustizia che rivendica Saint Omer con la sua estetica asciutta e minimale è quella dei corpi che non hanno voce nel marasma di un’agenda informativa che spesso li riduce a fatti e nominativi. Laurence Coly ridiventa donna senziente e espressiva, capace di andare oltre la patina sensazionalistica riavvicinando lo spettare ad una dimensione misteriosa, non esente da pericoli e dolore ma non per questo non meritevole di essere restituita nella sua interezza.

Saint Omer è un film profondamente complesso, che affida a un’estetica opaca il compito di svolgere con perizia un processo giuridico e interiore dagli esiti estremamente personali. C’è chi ci mette una vita o a chi non ne basta una intera per farlo, ma il risultato non può lasciare indifferenti.

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Saint Omer, el debut en la dirección de largometrajes de ficción de la directora parisina Alice Diop. Para ello se inspira en el caso real de una mujer de origen senegalés que fue acusada de haber matado a su hija al dejarla abandonada en una playa para que la marea se llevara. El objetivo de Diop no es tanto la defensa de la mujer acusada, sino la reivindicación de la mujer de color, de su dignidad, como mujer de carácter, instruida, elocuente y con unas características culturales específicas que en el juicio se llegan a poner en duda, alejada de miradas condescendientes o paternalistas que aún a día de hoy se dan en el cine. El objetivo no es denunciar la injusticia del juicio, sino del tratamiento que se les da a las mujeres negras en la sociedad actual.

Como contrapunto muestra a Rama, una novelista también de color que acude a la localidad en la que se celebra el juicio a documentarse para un relato en torno a una actualización del mito de Medea que tiene previsto escribir. Allí se sentirá como una extraña en un pequeño pueblo del norte de Francia donde las opciones políticas de extrema derecha.

Sin mayor soporte dramático, Saint Omer es una película poco amable para el espectador. Áspera y cruda. Diop no busca complicidades fáciles en su reivindicación, pero su contundencia es notoria, aunque se tome demasiado tiempo para hacerlo.

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…Las malas madres y el peso de Medea se arrastra generación tras generación. De madres a hijas, la sociedad teje un cordón umbilical que hace que las mujeres sintamos una gran responsabilidad a la hora de decidir si ser madres, o no serlos. Siendo juzgadas por las miradas de las personas que nos rodean hagamos lo que hagamos. Es complejo saber qué es ser una buena madre o cómo llegar a serlo, cuando el manual que impone ciertas normas está escrito por manos con sesgos patriarcales y colonialistas.

Tal y como decía la gran autora feminista y poscolonial bell hooks, no se pueden abordar las formas de cuidar del mismo modo para todo el mundo. Porque ciertas culturas tienen una concepción de la familia que es totalmente diferente de otras. Porque no todas las opresiones pueden abordarse con los mismos recursos.

Con la película de Alice Diop, Saint Omer, el público privilegiado que observa desde sus butacas tiene la oportunidad de mirar a través de los ojos de aquella Medea senegalesa que estaba sola, porque nadie lo quiso ver. De escuchar sus experiencias, y poder empatizar con aquella mujer que es juzgada no solo por sus actos, sino por su cultura, género y raza.

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