lunedì 12 dicembre 2022

La camera azzurra - Mathieu Amalric

Mathieu Amalric fa il regista e il protagonista di questo film tratto da un romanzo di Georges Simenon.

una moglie, una figlia, un'amante, omicidi difficili da ricostruire, diabolici e maledetti.

l'amante Andrée sembra guidare il gioco, e nella sua lucida pazzia è contenta che con il suo amante Tony (Mathieu Amalric) resteranno "insieme", in galera per anni e anni.

gli interrogatori sono la spina dorsale del film e i ricordi-flashback non sono la verità, se non qualche volta, e quindi inaffidabili.

un film destabilizzante anche per chi guarda.

buona visione - Ismaele

 

 

Due amanti, un marito e una moglie traditi, una piccola cittadina della provincia francese. Due morti, due arresti, migliaia di parole, per cercare di catturare la verità che è una, e che Amalric frantuma in tanti pezzi, per poi spargerli mescolati sul tavolo del suo film.

La stessa cosa La camera azzurra la fa con i corpi dei suoi protagonisti, con le loro parole, con le inquadrature del film. E mentre noi, lentamente, costruiamo con tutto questo una trama, le sue svolte, i suoi avvenimenti, il Julien interpretato dallo stesso regista sembra andare sempre più alla deriva, spaesato di fronte alle macerie di cui è corresponsabile, incapace di ricomporre il quadro di cui è protagonista, che lo vede carnefice quando forse è vittima, confuso e attonito sotto il peso del lutto e della colpa.

Così facendo, viene spinto talmente oltre dagli eventi da essere incapace di reazioni quando finalmente intuisce quale sia la tessera mancante alla risoluzione del suo puzzle; incapace di riprendere il controllo della sua vita e degli eventi che, forse, sbattuto dal vento delle passioni, non ha mai realmente avuto. Al contrario, Mathieu Amalric gestisce al meglio la sua materia filmica, preciso e consapevole. Si appassiona ai dettagli e ai frammenti, che ritiene (non a torto) più significanti delle visioni d'insieme, lavora con occhio appassionato ma sempre pudico e mai morboso.
E, dopo Tournée, si conferma regista capace e attento, affascinato da storie e personaggi che si lasciano dominare dal flusso dell'esistenza, dalle sue forze e dalle sue molteplici possibilità.

da qui

 

La camera azzurra lascia presto intendere di essere un puntiglioso affresco (Amalric, regista letterato, ama inquadrare in maniera descrittiva, come cercando un’inquadratura che sia anche parola) della frantumazione della realtà del maschio protagonista a causa della pressione di una novità annunciata da un corpo femminile: la storia, tratta dall’omonimo libro di Simenon, è quella di Tony, della sua amante Andrée (interpretata da Stéphanie Cléau), delle sorti della loro relazione e del tracollo psicologico dell’uomo di fronte all’incedere giudiziario interessato a fare chiarezza sulla morte del marito di lei. Questa frantumazione Amalric la porta in scena interpretandola in prima persona, frammentando il proprio sguardo d’autore, dislocandosi davanti e dietro la macchina da presa per rinunciare a qualsiasi forma di imparzialità, disorientare la propria identità e disperdere l’autorità dei propri connotati a favore di un’apertura di principio ai connotati altrui, e così intercettare un punto di traduzione della prospettiva che pare impossibile; il volto del suo personaggio, un groviglio di ansie piccolo borghesi mal elaborate, si comprime e si disfa con grande acume interpretativo sotto la claustrofobia che un 4:3 finalmente motivato imprime e rafforza a ogni svolta narrativa, in una struttura temporale costruita proprio per strappare via la dimora fissa alle fattezze, spiantarle e lasciarle nel dubbio di dove ricollocarsi.

Allo sguardo perso di Tony risponde il corpo sfuggente dell’amante Andrée, interprete del femminino di cui sopra: è proprio la comparsa sulla scena di questa estraneità a dissestare i sillogismi borghesi e a destituire tutte le logiche che il protagonista pensava vigenti: non soltanto quelle di una realtà di classe asfittica (che Amalric cattura nella scelta scenografica di una villa ultra moderna, asettica e infelice nei suoi bianchi perfetti circondati dal nulla), preoccupata di una morale legalista (che infatti si esplica con assoluta assenza di dubbio in forma giudiziaria) che tenga presente il costume e sappia indicare il colpevole, ma anche quelle, ben più stringenti e invisibili, per quanto oppressive, della realtà tout court. Entrando come un nuovo punto di origine nella storia delle cose, il corpo di donna non soltanto demoralizza il realismo descrittivo di Amalric, ma lascia precipitare la realtà per come la si frequenta in un qualcosa o un nulla mai davvero compreso, che non si lascia derubricare a somma di fatti evidenti - una catena di eventi da giallo, un morto, o forse più di uno, due amanti, un uomo, una donna – e non certo a qualcosa che si vuole a tutti i costi trasparente. Cercando un punto da cui spostare il proprio sguardo dall’osservazione alla comprensione del femminino Amalric sembra riconoscere così che, almeno nell’immagine, la trasparenza non si dà dove si crede o sembra sia garantita, ma invece dove dialetticamente sembra negata, nell’opaca dissimulazione che sottende quieta dietro l’angolo di ogni parola e ogni smorfia: la letteralità dell’immagine, della catena di eventi, della realtà dei fatti, va contradetta da un andamento contropelo, che smonti e rimonti la famigliarità dello sguardo sulle cose. Così il momento di cinema è sempre un momento di crisi dello sguardo.

da qui

 

Attrazione fatale secondo Simenon in un film che bada all’essenziale, in linea con lo stile efficace e concreto dello splendido originale letterario, senza perdersi dunque in orpelli inutili e fuorvianti. Certo mancano davvero guizzi di regia e un po’ di suspence in più avrebbe dato maggior mordente ad un film a cui tuttavia interessa di più restare legato alla realtà di tutti i giorni e a tanta cronaca nera che da sempre fa da sfondo alla tranquilla vita di provincia, piuttosto che farsi invischiare nelle solite trappole del giallo più ordinario ed improbabile.

da qui

 


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