Jean-Marie Straub: il cinema tra mito e storia - Marco Grosoli
Chi si imbatte per la prima volta nei film
di Jean-Marie Straub (quasi sempre girati e montati insieme alla compagna
Danièle Huillet, morta nel 2006 e a tutti gli effetti coautrice), magari
ignorandone il contesto, rimane spesso un po’ interdetto da queste immagini
estremamente essenziali, orlate da rari ma chirurgici tagli di montaggio, dove
figure umane inquadrate con certosina cura compositiva (senza mai voler
assomigliare a quadri, ma sempre in tensione organica con lo spazio fuori
dall’inquadratura), volta soprattutto ad inserirle in modo visivamente coerente
nell’ambiente circostante, declamano con dizione studiatissima testi
scrittissimi. Non pochi, in queste immagini così rigorose, di cinematografico
vedono poco o nulla.
È vero il contrario. Pochi, come Straub,
hanno saputo onorare quella che è stata sovente identificata come la
caratteristica fondamentale del medium cinematografico: l’oggettività.
“Oggettività” non vuol dire “realismo”. Non vuol dire “riprodurre le apparenze
del reale”. “Oggettività” vuol dire “cancellare le tracce di soggettività
nell’oggetto”. Cosa che riesce particolarmente bene alla cinepresa, macchina
che dipinge in movimento grazie a un movimento illusorio creato da un
automatismo di proiezione (i famosi 24 fotogrammi fissi al secondo). Molte
delle cose migliori mai viste al cinema dipendono dall’aver saputo assecondare
la sua innata oggettività, in moltissimi modi diversi. Lo ha fatto a lungo, ad
esempio, il cinema classico americano (le cui punte Straub conosceva bene, John
Ford su tutti): tutt’altro che realista, la sua impersonalità veniva dall’aver
portato nel ventesimo secolo il narratore onnisciente dei grandi romanzieri
ottocenteschi.
Straub era nato nel 1933 a Metz, in
quell’Alsazia contesa tra Francia e Germania soprattutto nei decenni successivi
a quelli in cui romanticismo e idealismo filosofico di là dal Reno, e ciclici
slanci rivoluzionari di qua, avevano gettato le basi di una nuova, utopica idea
di comunità. È lì che guarda l’oggettività straubiana: quella che cancella,
nell’oggetto, quelle tracce di soggettività che non si lasciano prendere nella
coimplicazione con l’oggetto. La sua oggettività è il circuito
idealista soggetto-oggetto portato alle estreme conseguenze: in altre parole,
il materialismo marxista, per il quale il soggetto, da un lato è coimplicato
nell’oggetto attraverso il lavoro, e dall’altro (e questo è il punto
decisivo) non è da confondersi con l’individuo.
Il suo stesso cinema, in misura quasi
esclusiva e a cominciare da Il fidanzato, l’attrice e il
ruffiano (1968, film sulla coppia tra i più belli mai fatti),
non è il cinema di Straub: è il cinema di Straub-Huillet. E nella prima delle
sue non poche autobiografie mascherate, Cézanne (1990),
Straub racconterà il suo cinema attraverso il pittore francese, capace di
osservare per anni la stessa montagna per riuscire a vederla per davvero, per quella che è, senza le incrostazioni
soggettive che si accumulano nei nostri occhi e nel nostro cervello. In voce
over, come nel successivo Une visite au Louvre (2004),
vengono letti dialoghi tra Cézanne e Joachim Gasquet, vere e proprie
dichiarazioni di poetica: come lo stesso Straub, il pittore è romantico perché
unisce l’arte alla critica d’arte, non in quanto individuo di genio. Il
montaggio spazializza l’individuo Cézanne, rendendolo inseparabile da una rete
di riferimenti che include non solo i luoghi della sua arte, ma soprattutto
altri pionieri dell’oggettività, romanzesca (Flaubert) e cinematografica (Jean
Renoir che filma Madame Bovary).
Il soggetto si afferma non come individuo,
ma annullandosi nell’oggetto e come oggetto; solo dispiegando le potenzialità
autonome dell’oggetto, l’uomo può piegarle ai propri bisogni, scoprendo questi
in quelle. Visione marxiana che non arriva dall’idealismo filosofico senza
passare dall’amatissimo Hölderlin: nel suo La morte di Empedocle (portato
sullo schermo nel 1987), al filosofo presocratico che predica invano una
rivoluzione tanto politica quanto epistemologica (riconoscere uguaglianza
ontologica a tutto ciò che esiste) non resta, come tentativo estremo di fusione
con il divino coincidente con la natura, che gettarsi nell’Etna…
In memoriam di Jean-Marie Straub (1933-2022): Un sua intervista (di Giovanni Spagnoletti)
È morto il
20 novembre 2022 a Rolle – la stessa località svizzera in cui era deceduto
anche l’amico Jean-Luc
Godard lo scorso 13 settembre) Jean-Marie Straub (1933
) che ha così raggiunto la sua compagna Danièle Huillet (1936)
deceduta nel 2006. Insieme sono stati la coppia più importante con cui è nato
il Cinema moderno negli anni Sessanta.
In attesa di
un ricordo più approfondito che seguirà nei prossimi giorni, ripubblico stralci
di una mia intervista riguardo a quello che considero il loro film più
importante – o almeno uno dei loro fondamentali e comunque il mio
preferito: Klassenverhältnisse (Rapporti di
classe, 1983). (G.Sp.)
Una
brevissima premessa per introdurre questa intervista a Jean-Marie
Straub e Daniéle Huillet, gli autori del film Klassenverhältnisse (Rapporti
di classe, 1983) tratto da Amerika (Der
Verschollene) di Franz Kafka. Da molte parti si
è ripetuto e si continua a ripetere che lo scrittore praghese è, a
differenza di altri, un autore infilmabile, in quanto tramite la
sua lingua ci avrebbe consegnato delle immagini molto precise che
azzererebbero (o almeno tenderebbero a farlo) la possibilità di
corrispondenti immagini visive.
Naturalmente tale “pregiudizio” non
ha impedito che le opere di Kafka
siano state, a più riprese, utilizzate dai media della riproducibilità
tecnica – senza voler parlare poi di tutto ciò che il “kafkismo” ha
prodotto in campo cine-televisivo perché allora il discorso si allargherebbe a
dismisura. […] In ogni caso per lo meno due esempi
smentiscono, nella pratica e nei risultati, la
teoria della presunta non filmabilità di Kafka: Le
Procès/The Trial (Il processo, 1962)
di Orson Welles e appunto Klassenverhältnisse.
[….]. Le Procès è soprattutto un “pre-testo”
perché – contro o al di là del romanzo di Kafka – si è
trasformato in un’opera compiutamente e baroccamente wellesiana,
che si iscrive in modo perfetto nel mondo del grande regista
americano – non è un caso che l’autore lo
consideri il film migliore della sua carriera.
Tutt’altro tipo di discorso cinematografico –
lontano dalle deformazioni dei grandangoli, le
inquadrature dal basso e la monumentalità degli spazi
di Welles – è quello che affrontano
invece Jean-Marie Straub e Danièle Huillet –
qualcuno ha definito il loro lavoro il “protocollo cinematografico di una
lettura”. Ma a questo punto è tempo di lasciare la parola
ai due autori.
Giovanni
Spagnoletti: Voi
avete dichiarato presentando al Festival di Pesaro Schwarze Sünde (Peccato
nero, 1989) che molte volte
all’origine dei Vostri film c’è un luogo, uno spazio più che il
testo stesso. Ciò è stato vero anche nel caso di Klassenverhältnisse che
avete realizzato, in gran parte, ad Amburgo?
Straub: No per nulla, nel
caso di Klassenverhältnisse non è stato
così. Devo fare una digressione. Quando sono scappato dalla
Francia per non essere costretto a sparare contro gli algerini – il
tribunale militare del mio paese mi aveva condannato ad un anno di
prigione e ci sono voluti più di dieci anni prima di essere amnistiato -, ero
segnalato alla frontiera e quindi non potevo rientrare in Francia. Allora
ho cominciato a vagabondare tra Amsterdam – dove c’era Gustav
Leonhardt con cui volevamo realizzare Chronik der Anna
Magdalena Bach (Cronaca di Anna Magdalena
Bach, 1967) – Dresda, Lipsia e la
Biblioteca di Berlino-est in cui sono raccolti la maggior parte dei
manoscritti di Bach, ma a un certo momento questo
mio vagabondaggio doveva finire. Inoltre non avevo più una lira – non
che avessi molti soldi prima, tanto che ero giunto a viaggiare
in treno di notte per non pagare l’albergo. Les voyages
forment la jeunesse ma a un certo punto ti distruggono la
vecchiaia e io cominciavo a diventare vecchietto. Allora ho deciso
di fermarmi e Danièle [Huillet] mi ha ritrovato. Così
finalmente ci siamo stabiliti a Monaco ma solo perché pensavamo che se si
tentava di fare dei film – in primo luogo Anna
Magdalena Bach che siamo riusciti a realizzare
solo dieci anni dopo, nel 1967 – bisognava stare a
Monaco. La città, però, a cui pensavo e mi ero affezionato, era
Amburgo. Questa sarebbe la risposta
rispetto al luogo: no quindi. Ma anche un paradosso:
quando vent’anni dopo sono tornato a fare dei film in Germania, abbiamo
girato Klassenverhältnisse ad Amburgo perché era
la prima città tedesca in cui pensavo che sarei diventato
sedentario.
In
precedenza hai filmato con molti altri autori della letteratura
tedesca, Böll o Brecht per esempio. Qual è l’itinerario
che vi ha portato a confrontarvi con Kafka?
Straub: Cesare Pavese,
ma sarebbe troppo complicato da spiegare. Direi anche Brecht ma non
l’uomo di teatro bensì il Brecht di un romanzo perché il film a cui fai
riferimento è il nostro Geschichtsunterricht (Lezioni
di storia, 1972) – trenta pagine tratte dal suo romanzo
incompiuto Die Geschäfte des Herrn Julius Caesar (Gli
affari del Signor Giulio Cesare) di circa
trecento pagine. Tutti i testi che poi diventano dei
nostri film, sono degli incontri e come tali sono sempre
casuali, dipendono dalla vita, dall’esperienza, dai
sentimenti, ecc. Non siamo noi che cerchiamo i testi sono loro che ci
prendono – non saprei dire di più.
Inoltre, un giorno, per caso, ho incontrato a Francoforte Peter
Handke – io stavo andando a mostrare Geschichtsunterricht all’editore
Suhrkamp perché l’avevo fatto senza avere i diritti. Handke
mi ha accompagnato, ha visto anche lui il film e dopo mi ha detto che era
meglio di Brecht. Mi ha fatto un complimento velenoso
sia per noi che per Brecht, dicendomi che il film era
“schmerzlich” (doloroso) mentre a suo avviso Brecht non lo è
mai. Ed io ho ci ho riflettuto un po’ sopra.
Inizialmente, l’idea che avevo, era di filmare solo
il primo capitolo, l’unico testo del romanzo che Kafka pubblicò
in vita: Der Heizer (Il fuochista).
Sarebbe stato un cortometraggio di 15-20 minuti ma poi quando
abbiamo cominciato a lavorare, siamo arrivati a tutto il romanzo…
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