domenica 12 novembre 2023

Lubo - Giorgio Diritti

ispirato a un romanzo di Mario Cavatore, Il seminatore, Lubo è la storia di uno zingaro jenisch svizzero, artista di strada, e della sua famiglia.

quando lo costringono a fare il militare gli portano via i figli e la moglie ne muore.

Lubo fugge e cerca i suoi figli, oltre a una personale vendetta, che è l'oggetto del libro.

Franz Rogowski è sempre bravissimo, e convincente, come tutte le attrici e gli attori.

il film dura tre ore, ma neanche un minuto è in più, Giorgio Diritti fa film bellissimi o straordinari, niente di meno.

la storia è una delle tante di quegli anni a danno della popolazione jenisch, sterilizzazione delle donne e furto dei bambini, motore di questo genocidio, durato fino al 1974, è la fondazione Pro Juventute, ennesimo esempio della banalità del male.

il film non è piaciuto troppo ai critici laureati, ognuno ha i suoi gusti, ma è di sicuro un film da non perdere, non te ne pentirai.

buona (jenisch) visione - Ismaele


ps 1: un bel film italiano sugli Jenisch, di Valentina Pedicini, si può vedere QUI, e qui la recensione

ps 2: un grandissimo Franz Rogowski, in un film non apparso in Italia, è qui

ps 3: un ritratto di Mariella Mehr, poetessa jenisch, qui


 

 

La narrazione si concentra sulla storia vera della Pro Juventute, la fondazione svizzera creata per sostenere esigenze e diritti dei bambini svizzeri, dal 1926 al 1973 ha portato avanti il programma Kinder der Landstrasse. Si trattava di un programma volto ad allontanare forzosamente i figli degli Jenisch (gruppo a cui appartiene Lubo) dalle loro famiglie, con lo scopo di dargli una “educazione migliore”.

Importante è, quindi, all’interno del film il discorso sui genitori inadatti e sull’importanza dell’educazione, che va a collegarsi anche a uno sul non lasciare riprodurre i genitori Jenisch, ma di sterilizzarli, in quanto, appunto, inadatti secondo la Pro Juventute. Il programma Kinder der Landstrasse è stato realizzato nell’ambito dell’eugenetica e i figli degli Jenisch sono stati presi come cavie per sperimentare a livello psichiatrico questa teoria, vicina all’ideologia nazista.

Questo è, quindi, la questione che fa da sfondo a tutto il film. Lubo, nella ricerca dei propri figli, scopre che il suo non è un caso isolato e continuerà le indagini, nonostante il passare degli anni e le vicende successive che si sono intersecate nella sua vita.

Lubo è un film semplice, ma non scontato, che con le sue quasi tre ore di lunghezza riesce a mostrare la vita di un uomo e la sua sofferenza, ma senza mai farlo pesare.

da qui

 

Diritti decide di affrontare questa materia scottante avvicinandola dalla parte opposta. Non viviamo le sofferenze imposte a bambini e bambine ma seguiamo la lucida odissea di un padre che si vede strappare l'intero mondo degli affetti da quella stessa istituzione, lo Stato, che gli chiede di prestare la sua opera in divisa a difesa dei confini. È in questa aberrante contraddizione (che nell'Italia fascista, dopo la proclamazione delle leggi in difesa della razza, vissero gli ebrei che avevano servito la patria nella prima guerra mondiale) che l'uomo vivace e creativo, che percorreva strade e piazze con il suo carro trainato da cavalli, si trasforma. La sua nemesi individuale viene condotta con estremo rigore e Franz Rogowski dà corpo, voce e inflessioni a un personaggio che la camera scruta seguendone e assecondandone l'azione.

Se lo Stato vuole estinguere il suo popolo impedendone la riproduzione Lubo agirà in direzione esattamente contraria e sottilmente acuta. A un certo punto, una volta divenuto ricco mercante di preziosi, lo vediamo aggiungere un'annotazione su un taccuino. La memoria corre a tutt'altri tempi e a ben diversa temperie culturale: al catalogo del Don Giovanni di Mozart. I melomani sicuramente ricordano: "In Italia seicentocinquanta, in Alemagna duecento e trentuna; cento in Francia, in Turchia novantuna: ma in Ispagna son già mille e tre". Erano le conquiste del protagonista narrate dal servitore Leporello. Qui l'elenco è decisamente più ridotto e si concentra su una sola nazione. Perché l'obiettivo di Lubo è chiaro: se lo Stato vuole impedire al suo popolo di riprodursi lui ingraviderà quante più donne possibile mettendo al mondo quelli che dai suoi persecutori saranno considerati dei bastardi.

Diritti ci racconta un seduttore suo malgrado che, al contempo, non smette mai la ricerca dei propri figli anche se gli anni scorrono. Su tre di queste relazioni si sofferma e, in particolare, su quella di una cameriera d'albergo di origine italiana in cui Lubo vede qualcosa di più di un corpo che possa tenere viva la sua vendetta.

Con una durata che diviene necessaria per mostrare la progressione di un progetto finalizzato a ristabilire almeno un simulacro di giustizia, Diritti, con questo film, ci invita a stare in guardia in questi tempi difficili. Lo fa con una coproduzione che vede coinvolte Italia e Svizzera ricordandoci che non solo nelle dittature le aberrazioni possono insinuarsi nel tessuto sociale fino a divenire parte integrante della legislazione statale, ma anche in democrazie solide (quella elvetica lo era e lo è) il loro seme può attecchire e svilupparsi con estrema pericolosità. In molti Paesi campagne che si ammantano di un manipolato concetto di difesa della patria non sono purtroppo solo un ricordo del passato.

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Lubo nel complesso convince. E lo fa soprattutto grazie (anche) alla presenza del suo magnetico protagonista, che dalla Germania è diventato ormai una star internazionale e che già aveva fatto una sua prima incursione nel cinema italiano nel 2021 in Freaks Out di Gabriele Mainetti. Il suo Lubo è un personaggio non privo di macchia, in grado persino di uccidere, pur di ricongiungersi con la sua amata famiglia; ma anche – e soprattutto – un’artista sensibile e sognatore, che anche nella tragedia riesce a trovare una propria serenità rifugiandosi, grazie alla musica, nei suoi ricordi più belli. La scena in cui suona la fisarmonica senza emettere alcun suono all’interno di un freddo carcere parla semplicemente da sé.

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…A questo punto della storia, però, le strade di Diritti (insieme al suo sceneggiatore Fredo Valla) e quelle del testo originale di Cavatore cominciano un poco a divergere. Infatti, a leggere la trama del romanzo Il Seminatore, Lubo “diventa un Don Giovanni involontario e involontariamente politico. Il suo piano è inseminare il maggior numero possibile di donne svizzere, per rispondere alla politica eugenetica con un gesto uguale e contrario, d’immensa portata simbolica: se la Svizzera gli ha tolto due figli con sangue zingaro, ne avrà in cambio duecento con sangue misto”. Questo aspetto diciamo di forte vendetta sessuale nel film è certamente presente ma non con la stessa forza simbolica, ci sembra, con cui è stato espresso dallo scrittore piemontese. Il protagonista sfrutta a suo favore l’indubbio fascino che possiede nei confronti delle donne – e qui Rogowski con i suoi baffetti e il labro leporino costruisce una figura e un’interpretazione notevole, gigioneggiando alla grande – ma lo canalizza soprattutto nell’intento difficile di riuscire a trovare le tracce dei figli perduti che la la Pro Juventute ben nascondeva.
Articolato in tre diversi momenti storici – che costituiscono i capitoli della vicenda – appunto, come si è detto, il 1939 e poi il primo dopoguerra nel 1951, con la conclusione della storia nel 1959, Lubo è un film nobile e complesso. Personalmente ci sarebbe piaciuto di più se questo tranche-de-vie su una figura di cui conosciamo gioie e dolori, successi e umiliazioni, l’amore con una donna italiana e la galera, fosse stato più sintetico. E ciò pur consapevoli che lo stile di Giorgio Diritti parte da una meticolosità cinematografica che abbiamo sempre apprezzato non ultimo, ad esempio, in Volevo nascondermi, una sorta di Biopic sul pittore Antonio Ligabue, presentato con successo al Festival di Berlino del 2020 e purtroppo andato deserto nelle sale per lo scoppio della pandemia.

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…Il dramma viene disegnato nel viso di Franz Rogowski, volto apparentemente impermeabile e voce senza acuti per non tradire la propria emozione come nella due scene in cui viene fermato alla dogana. Non ci sono i flashback di Volevo nascondermi ma anche Lubo, come Ligabue, porta sulla sua faccia le cicatrici della Storia. Con questo nuovo film il cinema di Diritti sembra a un bivio, tra la sua natura artigianale e invece una dimensione autoriale con echi decadenti viscontiani nel modo di filmare gli hotel e gli ambienti lussuosi di Lubo/Reiter nella sua nuova vita. Se nello spettacolo iniziale e nelle scene al fronte, con la fatica fisica nella camminata nel bosco, c’è il rapporto con i luoghi e la terra del cinema del regista, Lubo invece mostra una natura estranea al cinema di Diritti nel momento in cui approccia le forme del poliziesco/thriller, dove le scene di seduzione appaiono fredde così come si avverte poco la tensione che qualcosa potrebbe improvvisamente cambiare nella vita del protagonista. Non si sente l’intensità della tragedia di L’uomo che verrà e anche la vicenda mostrata appare continuamente diluita nell’arco della durata di tre ore e solo raramente riesce a coinvolgere. Si sente il peso di una recitazione studiata, costruita, forse a cominciare dallo stesso Rogowski, probabilmente volutamente straniata, ma che ottiene solo l’effetto di spegnere ulteriormente un film che ha ma non trasmette la sua indignazione nei confronti della storia né quella di alcuni personaggi. Restano solo alcune pagine belle (formalmente) di un cinema che trova qualche sprazzo di complicità (il figlio che fa i capelli alla madre) e un lavoro di ricostruzione accurato in un arco temporale che abbraccia 20 anni (dal 1939 al 1959), ma dove i paesaggi e le città (Bellinzona, Verbania) rischiano l’effetto cartolina.

da qui 

 

1 commento:

  1. "Lubo", vittima della storia - Leonardo Persia

    https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-lubo_vittima_della_storia/46096_51731/

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