ispirato a un romanzo di Mario Cavatore, Il seminatore, Lubo è la storia di uno zingaro jenisch svizzero, artista di strada, e della sua famiglia.
quando lo costringono a fare il militare gli portano via i figli e la moglie ne muore.
Lubo fugge e cerca i suoi figli, oltre a una personale vendetta, che è l'oggetto del libro.
Franz Rogowski è sempre bravissimo, e convincente, come tutte le attrici e gli attori.
il film dura tre ore, ma neanche un minuto è in più, Giorgio Diritti fa film bellissimi o straordinari, niente di meno.
la storia è una delle tante di quegli anni a danno della popolazione jenisch, sterilizzazione delle donne e furto dei bambini, motore di questo genocidio, durato fino al 1974, è la fondazione Pro Juventute, ennesimo esempio della banalità del male.
il film non è piaciuto troppo ai critici laureati, ognuno ha i suoi gusti, ma è di sicuro un film da non perdere, non te ne pentirai.
buona (jenisch) visione - Ismaele
ps 1: un bel film italiano sugli Jenisch, di Valentina Pedicini, si può vedere QUI, e qui la recensione
ps 2: un grandissimo Franz Rogowski, in un film non apparso in Italia, è qui
ps 3: un ritratto di Mariella Mehr, poetessa jenisch, qui
…La narrazione si concentra sulla storia vera
della Pro Juventute, la fondazione svizzera creata per sostenere
esigenze e diritti dei bambini svizzeri, dal 1926 al 1973 ha portato avanti il
programma Kinder der Landstrasse. Si trattava di un programma volto
ad allontanare forzosamente i figli degli Jenisch (gruppo a cui appartiene
Lubo) dalle loro famiglie, con lo scopo di dargli una “educazione migliore”.
Importante è, quindi, all’interno del film il discorso
sui genitori inadatti e sull’importanza dell’educazione, che va a
collegarsi anche a uno sul non lasciare riprodurre i genitori Jenisch, ma
di sterilizzarli, in quanto, appunto, inadatti secondo la Pro
Juventute. Il programma Kinder der Landstrasse è stato realizzato nell’ambito
dell’eugenetica e i figli degli Jenisch sono stati presi come cavie
per sperimentare a livello psichiatrico questa teoria, vicina all’ideologia
nazista.
Questo è, quindi, la questione che fa da sfondo a tutto il film. Lubo, nella ricerca dei propri figli, scopre che il suo non è un caso isolato e continuerà le indagini, nonostante il passare degli anni e le vicende successive che si sono intersecate nella sua vita.
Lubo è un film semplice, ma non scontato,
che con le sue quasi tre ore di lunghezza riesce a mostrare la vita di
un uomo e la sua sofferenza, ma senza mai farlo pesare.
…Diritti decide di affrontare questa
materia scottante avvicinandola dalla parte opposta. Non viviamo le sofferenze
imposte a bambini e bambine ma seguiamo la lucida odissea di un padre che si vede
strappare l'intero mondo degli affetti da quella stessa istituzione, lo Stato,
che gli chiede di prestare la sua opera in divisa a difesa dei confini. È in
questa aberrante contraddizione (che nell'Italia fascista, dopo la
proclamazione delle leggi in difesa della razza, vissero gli ebrei che avevano
servito la patria nella prima guerra mondiale) che l'uomo vivace e creativo,
che percorreva strade e piazze con il suo carro trainato da cavalli, si
trasforma. La sua nemesi individuale viene condotta con estremo rigore e Franz
Rogowski dà corpo, voce e inflessioni a un personaggio che la camera scruta
seguendone e assecondandone l'azione.
Se lo Stato vuole estinguere il suo
popolo impedendone la riproduzione Lubo agirà in direzione esattamente
contraria e sottilmente acuta. A un certo punto, una volta divenuto ricco
mercante di preziosi, lo vediamo aggiungere un'annotazione su un taccuino. La
memoria corre a tutt'altri tempi e a ben diversa temperie culturale: al
catalogo del Don Giovanni di Mozart. I melomani sicuramente ricordano: "In
Italia seicentocinquanta, in Alemagna duecento e trentuna; cento in Francia, in
Turchia novantuna: ma in Ispagna son già mille e tre". Erano le conquiste
del protagonista narrate dal servitore Leporello. Qui l'elenco è decisamente
più ridotto e si concentra su una sola nazione. Perché l'obiettivo di Lubo è
chiaro: se lo Stato vuole impedire al suo popolo di riprodursi lui ingraviderà
quante più donne possibile mettendo al mondo quelli che dai suoi persecutori
saranno considerati dei bastardi.
Diritti ci racconta un seduttore suo malgrado che, al contempo, non smette mai
la ricerca dei propri figli anche se gli anni scorrono. Su tre di queste
relazioni si sofferma e, in particolare, su quella di una cameriera d'albergo
di origine italiana in cui Lubo vede qualcosa di più di un corpo che possa
tenere viva la sua vendetta.
Con una durata che diviene necessaria per mostrare la progressione di un
progetto finalizzato a ristabilire almeno un simulacro di giustizia, Diritti,
con questo film, ci invita a stare in guardia in questi tempi difficili. Lo fa
con una coproduzione che vede coinvolte Italia e Svizzera ricordandoci che non
solo nelle dittature le aberrazioni possono insinuarsi nel tessuto sociale fino
a divenire parte integrante della legislazione statale, ma anche in democrazie
solide (quella elvetica lo era e lo è) il loro seme può attecchire e
svilupparsi con estrema pericolosità. In molti Paesi campagne che si ammantano
di un manipolato concetto di difesa della patria non sono purtroppo solo un
ricordo del passato.
…Lubo nel complesso convince. E lo fa
soprattutto grazie (anche) alla presenza del suo magnetico protagonista, che dalla
Germania è diventato ormai una star internazionale e che già aveva fatto una
sua prima incursione nel cinema italiano nel 2021 in Freaks Out di Gabriele Mainetti. Il suo Lubo
è un personaggio non privo di macchia, in grado persino di uccidere, pur di
ricongiungersi con la sua amata famiglia; ma anche – e soprattutto – un’artista
sensibile e sognatore, che anche nella tragedia riesce a trovare una propria
serenità rifugiandosi, grazie alla musica, nei suoi ricordi più belli. La scena
in cui suona la fisarmonica senza emettere alcun suono all’interno di un freddo
carcere parla semplicemente da sé.
…A questo punto della storia, però, le strade di Diritti (insieme
al suo sceneggiatore Fredo Valla) e quelle del testo
originale di Cavatore cominciano un poco a
divergere. Infatti, a leggere la trama del romanzo Il Seminatore,
Lubo “diventa un Don Giovanni involontario e involontariamente politico. Il suo
piano è inseminare il maggior numero possibile di donne svizzere, per
rispondere alla politica eugenetica con un gesto uguale e contrario, d’immensa
portata simbolica: se la Svizzera gli ha tolto due figli con sangue zingaro, ne
avrà in cambio duecento con sangue misto”. Questo aspetto diciamo di forte
vendetta sessuale nel film è certamente presente ma non con la stessa forza
simbolica, ci sembra, con cui è stato espresso dallo scrittore piemontese. Il
protagonista sfrutta a suo favore l’indubbio fascino che possiede nei confronti
delle donne – e qui Rogowski con i suoi baffetti e
il labro leporino costruisce una figura e un’interpretazione notevole,
gigioneggiando alla grande – ma lo canalizza soprattutto nell’intento difficile
di riuscire a trovare le tracce dei figli perduti che la la Pro Juventute ben
nascondeva.
Articolato in tre diversi momenti storici – che
costituiscono i capitoli della vicenda – appunto, come si è detto, il 1939 e
poi il primo dopoguerra nel 1951, con la conclusione della storia nel
1959, Lubo è un film nobile e
complesso. Personalmente ci sarebbe piaciuto di più se questo tranche-de-vie su
una figura di cui conosciamo gioie e dolori, successi e umiliazioni, l’amore
con una donna italiana e la galera, fosse stato più sintetico. E ciò pur
consapevoli che lo stile di Giorgio Diritti parte da
una meticolosità cinematografica che abbiamo sempre apprezzato non ultimo, ad
esempio, in Volevo nascondermi, una sorta di Biopic sul pittore Antonio
Ligabue, presentato con successo al Festival di Berlino del 2020 e
purtroppo andato deserto nelle sale per lo scoppio della pandemia.
…Il dramma viene disegnato nel viso di Franz
Rogowski, volto apparentemente impermeabile e voce senza acuti per non tradire
la propria emozione come nella due scene in cui viene fermato alla dogana. Non
ci sono i flashback di Volevo
nascondermi ma
anche Lubo, come Ligabue, porta sulla sua faccia le cicatrici della Storia. Con
questo nuovo film il cinema di Diritti sembra a un bivio, tra la sua natura
artigianale e invece una dimensione autoriale con echi decadenti viscontiani
nel modo di filmare gli hotel e gli ambienti lussuosi di Lubo/Reiter nella sua
nuova vita. Se nello spettacolo iniziale e nelle scene al fronte, con la fatica
fisica nella camminata nel bosco, c’è il rapporto con i luoghi e la terra del
cinema del regista, Lubo invece
mostra una natura estranea al cinema di Diritti nel momento in cui approccia le
forme del poliziesco/thriller, dove le scene di seduzione appaiono fredde così
come si avverte poco la tensione che qualcosa potrebbe improvvisamente cambiare
nella vita del protagonista. Non si sente l’intensità della tragedia di L’uomo
che verrà e
anche la vicenda mostrata appare continuamente diluita nell’arco della durata
di tre ore e solo raramente riesce a coinvolgere. Si sente il peso di una
recitazione studiata, costruita, forse a cominciare dallo stesso Rogowski,
probabilmente volutamente straniata, ma che ottiene solo l’effetto di spegnere
ulteriormente un film che ha ma non trasmette la sua indignazione nei confronti
della storia né quella di alcuni personaggi. Restano solo alcune pagine belle
(formalmente) di un cinema che trova qualche sprazzo di complicità (il figlio
che fa i capelli alla madre) e un lavoro di ricostruzione accurato in un arco
temporale che abbraccia 20 anni (dal 1939 al 1959), ma dove i paesaggi e le
città (Bellinzona, Verbania) rischiano l’effetto cartolina.
"Lubo", vittima della storia - Leonardo Persia
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