Ken Loach e Paul Laverty (il suo fraterno sceneggiatore) raccontano una storia che più attuale non si può, alcune famiglie di rifugiati siriani vengono accolti dagli inglesi in una povera cittadina ex mineraria.
ed esplodono le contraddizioni di una cittadina sgarrupata già per conto suo (mica li mandano a Chelsea o a Westminster, dice qualcuno nel pub), e, come dappertutto, i disgraziati se la prendono con i più disgraziati di loro, mica con chi causa le disgrazie, ormai la gente non capisce più chi sono i veri nemici.
in fondo a tutto questo pessimistico stato del mondo Ken Loach manda un messaggio di speranza, con TJ e Yara, in alternativa al suicidio.
non perdetevelo, i film di Ken Loach sono preziosi.
buona (old oak) visione - Ismaele
…per una volta Loach e Laverty vanno
oltre al mero dato socio-politico, c’è qualcosa di più primordiale, viscerale,
antropologico. The Old Oak è appunto
una parabola antropologica: ci sono, a partire da esperienze, generazioni e
storie comuni, reazioni diversissime alla novità con cui gli abitanti si
trovano a diversi confrontare. Se non fosse troppo banale si potrebbe dire ci
sono, pur con qualche sfumatura, i buoni e i cattivi. E attorno a questa
dialettica si innesta questo buon film, sul rapporto, mai venato di ambiguità
fra TJ e Jari, una profuga siriana (Ebla Mari), appassionata
di fotografia e sul loro comune e a tratti disperante tentativo di far
dialogare le due comunità ruota il testo, con una sceneggiatura che come al
solito scorre liscia, qua e là un po’ troppo didascalica, qua e là leggermente
patetica, ma nell’insieme convincente, con qualche gradevole tratto d’ironia e
con un utopico afflato finale.
Uscendo dal cinema
ci chiedevamo: ma quando Ken Loach non ci sarà più,
chi farà questo tipo di film?
…Ken Loach, dal canto suo, conosce bene “i suoi polli”. E ce lo ha
più e più volte dimostrato durante tutti gli anni di onorabile carriera. E
infatti, in questo suo piccolo e prezioso The Old Oak tutto
ciò viene fuori con tutto il pessimismo possibile, per una società in cui non
v’è castigo per chi sbaglia, né consolazione per chi, al contrario, ogni giorno
fa del proprio meglio per rendere il mondo in cui viviamo un posto migliore.
Ken Loach sembra avere, qui, una visione ancor più cupa e disincantata degli
eventi, e lavorando sempre più di sottrazione ci ha presentato quello che a
detta di molti (e, a quanto pare, anche dello stesso regista potrebbe essere il
suo ultimo lungometraggio.The Old Oak, Chrissie Robinson e Dave Turner
in una scena del film di Ken Loach
Ci mancherà il suo cinema, se così dovesse essere? Indubbiamente. Ma, per
dare (quello che dovrebbe essere) il suo addio definitivo al mondo del cinema,
Loach non ha mancato di regalarci, anche in questo suo The Old Oak,
preziose manifestazioni di bellezza; siano esse una piccola mostra fotografica
scoperta quasi per caso, una serata aperta a tutti in cui vengono proiettate
fotografie che ritraggono ogni singolo abitante della comunità, o anche
inaspettate manifestazioni di solidarietà quando ogni speranza di felicità
sembra ormai morta per sempre. E così, non mancano nemmeno momenti di forte
commozione, durante la visione di The Old Oak.
Ken Loach ha pensato davvero a tutto. Ci auguriamo solo che in futuro abbia
ancora voglia di deliziarci gli occhi con il suo prezioso cinema.
… Forse il mondo non è
poi un posto così di merda dove vivere. Ci sono possibili punti d’incontro,
dialoghi inaspettati. Ma anche le persone che si sono frequentate da anni che
sono diventate diverse sotto i nostri occhi e ce ne siamo accorti solo
all’improvviso. O anche i ragazzi con i cani aggressivi che non li controllano.
Nel modo in cui è mostrata la morte del cagnolino c’è tutta l’intimità, il
rispetto di un cineasta che sa come e cosa filmare. Lì c’è il punto di vista
esatto e la necessaria distanza. Morale e umana prima di tutto. Non si vede il
modo come è stato ucciso ma solo il suo urlo di dolore. C’è poi una spiaggia
che è il punto-limite. È il luogo di fuga, di disperazione, ma dove avvengono
anche improvvisi miracoli. A 86 anni, per Ken Loach, un altro mondo non è più
possibile. Ogni iniziativa di solidarietà sembra destinata al fallimento. Per
questo The Old Oak è un film durissimo, disperato, dove
ogni tanto arriva una buona notizia (la famiglia di Yara viene a sapere che il
padre scomparso è ancora vivo) ma dove l’umanità è anche cambiata ed è spietata
come nel caso del video con il telefonino girato a scuola e rivisto dai clienti
più razzisti del bar.
L’indignazione del
cinema di Loach è tale che magare molte volte il suo cinema rischia di essere
schematico nella contrapposizione tra il bene e il male. Però a questo punto si
porta anche dietro tutta la vita e le storie delle persone. Le foto di Yara e
soprattutto quelle appese sulle pareti dei minatori, con il famoso sciopero del
1984, raccontano molto dei protagonisti, del loro passato e della storia della
cittadina mineraria. E il volto vissuto di Dave Turner nei panni di TJ può
idealmente sovrapporsi con quello di Dave John di Io, Daniel Blake e Kris Hitchen di Sorry We Missed You. Con un primo piano su di loro
Loach riesce già a raccontare parte della storia del film. In più, in un
dialogo c’è tutto il senso autentico del suo cinema quando Yara sta per andare
a visitare la cattedrale locale che “non appartiene alla chiesa ma agli operai
che l’hanno costruita”. Sarà anche semplicistico ma questo è un film che arriva
direttamente, che colpisce duro, che lascia spiragli ma forse non ha speranza.
Lo straordinario finale, tra i più emozionanti di tutto il suo cinema, è forse
un sogno. Di armonia, pace e bellezza, come quello di Don Giulio in La messa è finita quando si gira
dopo la funzione e sorride sulle note di Ritornerai di
Bruno Lauzi. Si, The Old Oak pensa che un altro
mondo non è possibile. Ma Loach, in un film anche di spietati tradimenti, ci fa
vedere come dovrebbe essere. Per questo il finale è un abbraccio verso tutti
noi.
…Prodotto
da StudioCanal, Sixteen Films, Why Not Productions, Les Films du Fleuve e BBC
Film e con protagonisti pochi volti noti, come Dave Turner, Ebla Mari e Debbie
Honeywood, The Old Oak rappresenterà
la diciottesima e – verosimilmente – anche l’ultima volta a Cannes, ma non
solo: sarà anche l’ultima volta su un set per il regista che, prossimo a
raggiungere gli ottantasette anni, non ha alcun dubbio al riguardo: «Realisticamente? Sarebbe davvero difficile per me girare un nuovo
lungometraggio. I miei film richiedono almeno un paio d’anni per essere
realizzati e le capacità diminuiscono mese dopo mese. La memoria a breve
termine va e viene e la vista è piuttosto difettosa ormai. Quindi, si, è
piuttosto complicato…».
L’esperienza sul set di The Old Oak lo ha portato a confrontarsi con le
esigenze fisiche delle lunghe giornate sul set. Certo, attenuate da quelle che
lo stesso Loach non ha esitato a definire come il giusto mix di buon umore e energia
emotiva, ma stavolta è stato più duro del solito: «Non sono proprio sicuro di
poter tornare di nuovo in campo, è come se fossi un vecchio ronzino al Grand
National. Te ne stai lì e pensi: “Buon Dio, non cadrò mica dopo il primo
ostacolo, vero”?». Ricordiamo che Ken Loach è praticamente di casa a
Cannes, risultando tre volte vincitore del Premio della Giuria (L’agenda nascosta, Piovono pietre, La parte degli angeli) e due volte insignito della
Palma d’oro (Il vento che accarezza l’erba, Io, Daniel Blake).
Se The Old Oak dovesse
davvero essere il canto del cigno – come sembra – segnerebbe la fine di una
carriera straordinaria, unica, che da Poor Cow a Sorry We Missed You passando per Kes, Family Life, Ladybird Ladybird, My Name is Joe, Bread and Roses e Il mio amico Eric, non ha mai smesso di raccontare
con piglio critico e indagatorio delle ragioni della classe operaia, degli
esclusi e dei più deboli, ma anche di solidarietà, integrazione, o più
semplicemente, del fare sempre la cosa giusta.
…El viejo roble se diferencia de las otras dos últimas películas
de Loach en que las anteriores señalaban aquello que funciona
mal dentro de la sociedad y el sistema inglés. Y aquí, más que
denunciar a un culpable, se sublima algo positivo. El conflicto está
esta vez entre las propias gentes del pueblo, no en el Estado ni en una
empresa. Por ello, Loach no demoniza ni a los personajes más
negativos, aunque difícilmente podremos simpatizar con ellos. Los individuos
nunca han sido los enemigos en el cine de Loach, y el director
inglés lo deja tan claro como siempre.
El viejo roble es una oda a la
convivencia entre culturas y a la integración. Retrata con
acierto la intolerancia y las otras barreras más comprensibles que los nativos
tienen con los recién llegados. Aunque cae aquí y allá en el moralismo puro y
duro, su enfoque esperanzador justifica los medios. No pasará a la
posteridad como su mejor obra, pero es un legado coherente e idóneo para Ken
Loach. Si es que esta es realmente su última película, que con los
artistas nunca se sabe.
…La idea de Loach es, como viene
siendo habitual en su cine, convertir la cámara en un ente invisible que no
interactúe prácticamente con la acción que está sucediendo, sino que la capture
con el máximo nivel de veracidad que pueda alcanzar, para que sea la propia
realidad la que se ponga en entredicho a sí misma dejando a la vista del
espectador todas y cada una de las injusticias que se producen en una sociedad
en la que el silencio y la desidia legitiman los incontables abusos que comete
el poder. Como ya hizo Mungiu hace un año en RMN, Loach muestra cómo la precariedad abona el
terreno para que puedan germinar en él tanto el racismo como la xenofobia, para
que las personas que están pasando por una situación muy difícil paguen su
frustración con los que están aún peor que ellas, para que la tolerancia se
convierta en una palabra muda que todos pronuncian, pero que nadie aplica. El
director acierta así a componer una obra en la que el capitalismo queda
retratado como el sistema inhumano que es.
La película, pese a la dureza de sus imágenes, no resulta en ningún
momento desoladora o pesimista, como sí sucedía con, por ejemplo, Yo, Daniel Blake; porque en su tramo final se viste
con el colorido traje de la fábula para arrojar destellos de luz sobre la
mirada de un espectador que no puede sino emocionarse ante el emotivo, visceral
y esperanzador derroche de humanismo del que hace gala el director. Loach busca
en todo momento apelar a esas personas que tienen una actitud pasiva ante los
crímenes que se producen en un sistema estructuralmente viciado: las invita a
pasar a la acción, a poner su granito de arena en la construcción de un futuro
más justo, a volverse intolerante frente a las injusticias. El viejo roble se coloca en medio de la oscuridad
que asola un tiempo esencialmente triste para iluminarlo; para señalar el
camino a seguir; para ofrecer una chispa de ilusión a una sociedad que tiene
motivos de sobra para ser pesimista; para cerrar la filmografía de un director
que se ha plantado delante del poder para señalarlo, que ha arropado a los más
débiles y les ha devuelto una voz que les habían arrebatado.
scrive Roberto Escobar
(sul Sole24ore):
…arrivano migranti con parlate, visi e colori che suscitano sospetti,
paure, più di una volta odio e violenza. Loach e Laverty lo raccontano e lo
spiegano, e non mancano di comprenderlo. Il loro occhio non è manicheo, non è
giudicante. Che cosa resta a chi teme di non avere più niente, se non la voglia
di darne la colpa a chi stia ancora peggio?
Per TJ si tratta di accoglierli e aiutarli, questi “nuovi inglesi”, ritrovando la dignità del padre, il suo coraggio e la sua solidarietà. E insieme si tratta di tornare a dare dignità e coraggio ai suoi. Si tratta, insomma, di riuscire a convincere questi e quelli a “mangiare insieme”, tornando a riempire di vita il pub.
È certo sfiduciato, il vecchio TJ. E forse lo è l’ancora più vecchio Ken Loach. E però, come TJ, ha al suo fianco l’entusiasmo di Yara. Lo ha dentro di sé, integro. Dopo tutta una lunga vita, rivede e ritrova il suo mondo attraverso l’obiettivo della macchina da presa. E se lo immagina migliore, dolce e pieno di speranza.
Non l'ho ancora visto perchè dalle mie parti non è ancora arrivato, ma lo vedrò. Come sempre. Si ha un bel dire che Ken Loach fa sempre lo stesso film, ma chi fa questo tipo di cinema oltre a lui? Pochi, pochissimi. Per questo va rispettato e applaudito. E chi è stufo di vedere questi film, può benissimo dedicarsi ad altro...
RispondiEliminaAnche Guccini sembra che abbia fatto sempre la stessa canzone...
EliminaResta Mike Leigh, ma invecchia e i produttori non fanno a pugni per lui, magari Uberto Pasolini fa un cinema un po' alla Ken Loach.
ieri la (piccola) sala dove l'ho visto (un'ottantina di posti) era piena, e nessuno ha chiesto indietro i soldi del biglietto :)