lunedì 20 novembre 2023

The old oak - Ken Loach

Ken Loach e Paul Laverty (il suo fraterno sceneggiatore) raccontano una storia che più attuale non si può, alcune famiglie di rifugiati siriani vengono accolti dagli inglesi in una povera cittadina ex mineraria.

ed esplodono le contraddizioni di una cittadina sgarrupata già per conto suo (mica li mandano a Chelsea o a Westminster, dice qualcuno nel pub), e, come dappertutto, i disgraziati se la prendono con i più disgraziati di loro, mica con chi causa le disgrazie, ormai la gente non capisce più chi sono i veri nemici.

in fondo a tutto questo pessimistico stato del mondo Ken Loach manda un messaggio di speranza, con TJ e Yara, in alternativa al suicidio.

non perdetevelo, i film di Ken Loach sono preziosi.

buona (old oak) visione - Ismaele


 

 

 

 

per una volta Loach e Laverty vanno oltre al mero dato socio-politico, c’è qualcosa di più primordiale, viscerale, antropologico. The Old Oak è appunto una parabola antropologica: ci sono, a partire da esperienze, generazioni e storie comuni, reazioni diversissime alla novità con cui gli abitanti si trovano a diversi confrontare. Se non fosse troppo banale si potrebbe dire ci sono, pur con qualche sfumatura, i buoni e i cattivi. E attorno a questa dialettica si innesta questo buon film, sul rapporto, mai venato di ambiguità fra TJ e Jari, una profuga siriana (Ebla Mari), appassionata di fotografia e sul loro comune e a tratti disperante tentativo di far dialogare le due comunità ruota il testo, con una sceneggiatura che come al solito scorre liscia, qua e là un po’ troppo didascalica, qua e là leggermente patetica, ma nell’insieme convincente, con qualche gradevole tratto d’ironia e con un utopico afflato finale.

Uscendo dal cinema ci chiedevamo: ma quando Ken Loach non ci sarà più, chi farà questo tipo di film?

da qui

 

Ken Loach, dal canto suo, conosce bene “i suoi polli”. E ce lo ha più e più volte dimostrato durante tutti gli anni di onorabile carriera. E infatti, in questo suo piccolo e prezioso The Old Oak tutto ciò viene fuori con tutto il pessimismo possibile, per una società in cui non v’è castigo per chi sbaglia, né consolazione per chi, al contrario, ogni giorno fa del proprio meglio per rendere il mondo in cui viviamo un posto migliore. Ken Loach sembra avere, qui, una visione ancor più cupa e disincantata degli eventi, e lavorando sempre più di sottrazione ci ha presentato quello che a detta di molti (e, a quanto pare, anche dello stesso regista potrebbe essere il suo ultimo lungometraggio.The Old Oak, Chrissie Robinson e Dave Turner in una scena del film di Ken Loach

Ci mancherà il suo cinema, se così dovesse essere? Indubbiamente. Ma, per dare (quello che dovrebbe essere) il suo addio definitivo al mondo del cinema, Loach non ha mancato di regalarci, anche in questo suo The Old Oak, preziose manifestazioni di bellezza; siano esse una piccola mostra fotografica scoperta quasi per caso, una serata aperta a tutti in cui vengono proiettate fotografie che ritraggono ogni singolo abitante della comunità, o anche inaspettate manifestazioni di solidarietà quando ogni speranza di felicità sembra ormai morta per sempre. E così, non mancano nemmeno momenti di forte commozione, durante la visione di The Old Oak. Ken Loach ha pensato davvero a tutto. Ci auguriamo solo che in futuro abbia ancora voglia di deliziarci gli occhi con il suo prezioso cinema.

da qui

 

Forse il mondo non è poi un posto così di merda dove vivere. Ci sono possibili punti d’incontro, dialoghi inaspettati. Ma anche le persone che si sono frequentate da anni che sono diventate diverse sotto i nostri occhi e ce ne siamo accorti solo all’improvviso. O anche i ragazzi con i cani aggressivi che non li controllano. Nel modo in cui è mostrata la morte del cagnolino c’è tutta l’intimità, il rispetto di un cineasta che sa come e cosa filmare. Lì c’è il punto di vista esatto e la necessaria distanza. Morale e umana prima di tutto. Non si vede il modo come è stato ucciso ma solo il suo urlo di dolore. C’è poi una spiaggia che è il punto-limite. È il luogo di fuga, di disperazione, ma dove avvengono anche improvvisi miracoli. A 86 anni, per Ken Loach, un altro mondo non è più possibile. Ogni iniziativa di solidarietà sembra destinata al fallimento. Per questo The Old Oak è un film durissimo, disperato, dove ogni tanto arriva una buona notizia (la famiglia di Yara viene a sapere che il padre scomparso è ancora vivo) ma dove l’umanità è anche cambiata ed è spietata come nel caso del video con il telefonino girato a scuola e rivisto dai clienti più razzisti del bar.

L’indignazione del cinema di Loach è tale che magare molte volte il suo cinema rischia di essere schematico nella contrapposizione tra il bene e il male. Però a questo punto si porta anche dietro tutta la vita e le storie delle persone. Le foto di Yara e soprattutto quelle appese sulle pareti dei minatori, con il famoso sciopero del 1984, raccontano molto dei protagonisti, del loro passato e della storia della cittadina mineraria. E il volto vissuto di Dave Turner nei panni di TJ può idealmente sovrapporsi con quello di Dave John di Io, Daniel Blake e Kris Hitchen di Sorry We Missed You. Con un primo piano su di loro Loach riesce già a raccontare parte della storia del film. In più, in un dialogo c’è tutto il senso autentico del suo cinema quando Yara sta per andare a visitare la cattedrale locale che “non appartiene alla chiesa ma agli operai che l’hanno costruita”. Sarà anche semplicistico ma questo è un film che arriva direttamente, che colpisce duro, che lascia spiragli ma forse non ha speranza. Lo straordinario finale, tra i più emozionanti di tutto il suo cinema, è forse un sogno. Di armonia, pace e bellezza, come quello di Don Giulio in La messa è finita quando si gira dopo la funzione e sorride sulle note di Ritornerai di Bruno Lauzi. Si, The Old Oak pensa che un altro mondo non è possibile. Ma Loach, in un film anche di spietati tradimenti, ci fa vedere come dovrebbe essere. Per questo il finale è un abbraccio verso tutti noi.

da qui

 

 

…Prodotto da StudioCanal, Sixteen Films, Why Not Productions, Les Films du Fleuve e BBC Film e con protagonisti pochi volti noti, come Dave Turner, Ebla Mari e Debbie Honeywood, The Old Oak rappresenterà la diciottesima e – verosimilmente – anche l’ultima volta a Cannes, ma non solo: sarà anche l’ultima volta su un set per il regista che, prossimo a raggiungere gli ottantasette anni, non ha alcun dubbio al riguardo: «Realisticamente? Sarebbe davvero difficile per me girare un nuovo lungometraggio. I miei film richiedono almeno un paio d’anni per essere realizzati e le capacità diminuiscono mese dopo mese. La memoria a breve termine va e viene e la vista è piuttosto difettosa ormai. Quindi, si, è piuttosto complicato…».

L’esperienza sul set di The Old Oak lo ha portato a confrontarsi con le esigenze fisiche delle lunghe giornate sul set. Certo, attenuate da quelle che lo stesso Loach non ha esitato a definire come il giusto mix di buon umore e energia emotiva, ma stavolta è stato più duro del solito: «Non sono proprio sicuro di poter tornare di nuovo in campo, è come se fossi un vecchio ronzino al Grand National. Te ne stai lì e pensi: “Buon Dio, non cadrò mica dopo il primo ostacolo, vero”?». Ricordiamo che Ken Loach è praticamente di casa a Cannes, risultando tre volte vincitore del Premio della Giuria (L’agenda nascostaPiovono pietreLa parte degli angeli) e due volte insignito della Palma d’oro (Il vento che accarezza l’erbaIo, Daniel Blake).

Se The Old Oak dovesse davvero essere il canto del cigno – come sembra – segnerebbe la fine di una carriera straordinaria, unica, che da Poor Cow a Sorry We Missed You passando per KesFamily LifeLadybird LadybirdMy Name is JoeBread and Roses e Il mio amico Eric, non ha mai smesso di raccontare con piglio critico e indagatorio delle ragioni della classe operaia, degli esclusi e dei più deboli, ma anche di solidarietà, integrazione, o più semplicemente, del fare sempre la cosa giusta.

da qui

 

El viejo roble se diferencia de las otras dos últimas películas de Loach en que las anteriores señalaban aquello que funciona mal dentro de la sociedad y el sistema inglés. Y aquí, más que denunciar a un culpable, se sublima algo positivo. El conflicto está esta vez entre las propias gentes del pueblo, no en el Estado ni en una empresa. Por ello, Loach no demoniza ni a los personajes más negativos, aunque difícilmente podremos simpatizar con ellos. Los individuos nunca han sido los enemigos en el cine de Loach, y el director inglés lo deja tan claro como siempre.

El viejo roble es una oda a la convivencia entre culturas y a la integración. Retrata con acierto la intolerancia y las otras barreras más comprensibles que los nativos tienen con los recién llegados. Aunque cae aquí y allá en el moralismo puro y duro, su enfoque esperanzador justifica los medios. No pasará a la posteridad como su mejor obra, pero es un legado coherente e idóneo para Ken Loach. Si es que esta es realmente su última película, que con los artistas nunca se sabe.

da qui

 

La idea de Loach es, como viene siendo habitual en su cine, convertir la cámara en un ente invisible que no interactúe prácticamente con la acción que está sucediendo, sino que la capture con el máximo nivel de veracidad que pueda alcanzar, para que sea la propia realidad la que se ponga en entredicho a sí misma dejando a la vista del espectador todas y cada una de las injusticias que se producen en una sociedad en la que el silencio y la desidia legitiman los incontables abusos que comete el poder. Como ya hizo Mungiu hace un año en RMN, Loach muestra cómo la precariedad abona el terreno para que puedan germinar en él tanto el racismo como la xenofobia, para que las personas que están pasando por una situación muy difícil paguen su frustración con los que están aún peor que ellas, para que la tolerancia se convierta en una palabra muda que todos pronuncian, pero que nadie aplica. El director acierta así a componer una obra en la que el capitalismo queda retratado como el sistema inhumano que es.

La película, pese a la dureza de sus imágenes, no resulta en ningún momento desoladora o pesimista, como sí sucedía con, por ejemplo, Yo, Daniel Blake; porque en su tramo final se viste con el colorido traje de la fábula para arrojar destellos de luz sobre la mirada de un espectador que no puede sino emocionarse ante el emotivo, visceral y esperanzador derroche de humanismo del que hace gala el director. Loach busca en todo momento apelar a esas personas que tienen una actitud pasiva ante los crímenes que se producen en un sistema estructuralmente viciado: las invita a pasar a la acción, a poner su granito de arena en la construcción de un futuro más justo, a volverse intolerante frente a las injusticias. El viejo roble se coloca en medio de la oscuridad que asola un tiempo esencialmente triste para iluminarlo; para señalar el camino a seguir; para ofrecer una chispa de ilusión a una sociedad que tiene motivos de sobra para ser pesimista; para cerrar la filmografía de un director que se ha plantado delante del poder para señalarlo, que ha arropado a los más débiles y les ha devuelto una voz que les habían arrebatado.

da qui

 

 

scrive Roberto Escobar (sul Sole24ore):

…arrivano migranti con parlate, visi e colori che suscitano sospetti, paure, più di una volta odio e violenza. Loach e Laverty lo raccontano e lo spiegano, e non mancano di comprenderlo. Il loro occhio non è manicheo, non è giudicante. Che cosa resta a chi teme di non avere più niente, se non la voglia di darne la colpa a chi stia ancora peggio?

Per TJ si tratta di accoglierli e aiutarli, questi “nuovi inglesi”, ritrovando la dignità del padre, il suo coraggio e la sua solidarietà. E insieme si tratta di tornare a dare dignità e coraggio ai suoi. Si tratta, insomma, di riuscire a convincere questi e quelli a “mangiare insieme”, tornando a riempire di vita il pub.

È certo sfiduciato, il vecchio TJ. E forse lo è l’ancora più vecchio Ken Loach. E però, come TJ, ha al suo fianco l’entusiasmo di Yara. Lo ha dentro di sé, integro. Dopo tutta una lunga vita, rivede e ritrova il suo mondo attraverso l’obiettivo della macchina da presa. E se lo immagina migliore, dolce e pieno di speranza.

 

 



 

 

2 commenti:

  1. Non l'ho ancora visto perchè dalle mie parti non è ancora arrivato, ma lo vedrò. Come sempre. Si ha un bel dire che Ken Loach fa sempre lo stesso film, ma chi fa questo tipo di cinema oltre a lui? Pochi, pochissimi. Per questo va rispettato e applaudito. E chi è stufo di vedere questi film, può benissimo dedicarsi ad altro...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Anche Guccini sembra che abbia fatto sempre la stessa canzone...
      Resta Mike Leigh, ma invecchia e i produttori non fanno a pugni per lui, magari Uberto Pasolini fa un cinema un po' alla Ken Loach.
      ieri la (piccola) sala dove l'ho visto (un'ottantina di posti) era piena, e nessuno ha chiesto indietro i soldi del biglietto :)

      Elimina