in tempi di fascisti al governo, di italiani brava gente, Il leone del deserto non sarà un film che passerà alla tv, né in prima serata né di notte.
il motivo è semplice, in un filmone, con attori di serie A, Mustafa Akkad racconta la storia della Resistenza libica, guidata da Omar al-Mukhtar, contro l'occupazione italiana, che portava non civiltà, ma morte.
è così di attualità questo film che a un certo punto il boia Graziani, prima di impiccare Omar al-Mukhtar, gli spiega che la Libia era italiana, Giulio Cesare lo dimostrava.
niente di diverso da quello che in Israele troppi pensano, tremila anni fa la Palestina è stata data agli israeliani, e non c'è posto per gli altri.
si può capire perchè Il leone del deserto non è mai passato nelle sale cinematografiche, e neanche in tv.
la verità fa male, anche al cinema.
buona (ritardata e immancabile) visione - Ismaele
QUI il film completo, in italiano
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Un gran bel film contro: il colonialismo innanzitutto;
poi la guerra, in generale; infine il fascismo. Grande anche perché molto
lungo: ma le 2 ore e 53 minuti non risultano quasi mai pesanti.
La sceneggiatura è splendida, e mostra tutti i torti e
i crimini di chi si basa sul diritto del più forte. È un caso rarissimo di film
sulla resistenza antifascista in cui coloro che lottano per la liberazione non
sono italiani. Quindi in Italia lo si può vedere non con gli occhi della guerra
civile: il fascismo è dipinto per quello che ha fatto nella politica estera, un
tragico e ingiustificabile episodio di lotta contro diritti umani e giustizia,
al fine di far prevalere solo la violenza, per rubare. Il film ha anche il
merito di circoscrivere questa critica non solo al fascismo e all’Italia, ma in
generale a qualunque guerra d’aggressione, a qualunque imperialismo, di ogni
epoca, nonostante tutte le maschere e le falsità e la retorica.
La resistenza è qui celebrata in tutto il suo valore:
difendere se stessi dalla schiavitù, dalla violenza e dalle ruberie altrui è
necessario. Anthony Quinn giganteggia nella parte di questo leader, Omar
Mukhtar, che è una leggenda tuttora in Libia: semplice, profondo, buono, ma
indomabile, mai disposto a svendere la dignità e la libertà sua e del suo
popolo. Per niente un sanguinario, ma uno che non vuole farsi umiliare e
asservire: come è giusto che sia. Buono non può essere sinonimo di servo: colui
che è buono si ribella all’ingiustizia subita, e nella misura giusta, senza
eccessi; se la subisce, usa la bontà come pretesto per la propria viltà, come
purtroppo il cristianesimo ha abituato.
Molto interessante è il sottofondo religioso sincero e
sentitissimo, prioritario. Mostra come l’Islam imponga la propria liberazione:
questo nesso tra religione e indipendentismo è stato ed è tuttora la base dei
nazionalismi dei paesi islamici. Ciò innerva la lotta contro gli aggressori,
che dall’800 ad oggi sistematicamente sono (ai loro occhi siamo tutti noi, e
abbastanza a buon diritto, pur fatte le dovute distinzioni) gli occidentali.
Questi hanno più torto degli islamici: hanno iniziato per primi la violenza,
per rubare, e la esercitano con mezzi molto più efficaci, e quindi terribili.
Una superiorità orrenda, in mano agli occidentali, che il film mostra
benissimo: è l’unica ragione del successo, nonostante tutte le bugie di oggi
(progresso culturale, liberalismo, crescita della borghesia, diffusione della
democrazia a beneficio dei colpiti …), e quelle di ieri: la necessità di
civilizzare i primitivi, o la grandezza della storia romana di cui finalmente
il fascismo avrebbe raccolto l’eredità come era destino ed evento
indispensabile…
Spettacolari sono le scene belliche. Ottima la colonna
sonora e la ricostruzione filologica del deserto dell’epoca, ben valorizzato
dalla fotografia. Tutto il cast recita bene, tranne Rod Steiger, poco credibile
nei panni di un Mussolini che non maschera la sua grande ansia.
Un film profondo, anche nel sottolineare le
conseguenze psicologiche delle scelte fatte dai vari protagonisti. È
vergognoso, ma non stupisce, che questa pellicola sia sempre stata oscurata in
Italia: le cause sono il solito e falso buonismo all’italiana, che non deve
mostrarci feroci, e il militarismo neofascista, che spesso è stato addirittura
al governo.
Un film epico degno di tal nome, che fa un’epica sui
temi reali e importanti della modernità.
L’uccisione di Omar al-Mukhtar - WuMing
È l’11 settembre 1931 quando Omar al-Mukhtar, comandante della guerriglia anticoloniale in Cirenaica, viene ferito a un braccio, disarcionato e fatto prigioniero durante uno scontro nei pressi di Slonta. Lo portano a Bengasi in catene.
Omar
al-Mukhtar ha più di settant’anni e combatte contro l’Italia fin dalla prima
invasione della Libia, quella del 1911. La sua abilità strategica, la
conoscenza del territorio e l’appoggio della comunità hanno consentito alle
bande armate beduine – i duar – di
infliggere gravi perdite alle truppe d’occupazione e ridicolizzarle con
tattiche mordi-e-fuggi. Ma la deportazione di quasi tutta la popolazione civile
della Cirenaica, la chiusura del confine libico-egiziano con una muraglia di
filo spinato e i bombardamenti con l’iprite hanno ormai piegato la resistenza.
Il
processo si tiene il 15 settembre nel Palazzo littorio di Bengasi, è una farsa
e dura appena tre ore, perché il verdetto è già deciso.
Omar viene impiccato il giorno dopo. Raccontiamo quel momento con le parole
dello storico Angelo Del Boca:
«Sono
le 9 del mattino del 16 settembre 1931. Intorno alla forca eretta nel piazzale
del campo di concentramento di Soluch, in Cirenaica, sono assiepati oltre 20
mila libici, fatti affluire da Bengasi, da Benina e dai lager della Sirtica.
Sono qui per imparare che la giustizia fascista è severa, spietata,
inesorabile. Sono qui per assistere all’impiccagione di Omar al-Mukhtar, un
capo leggendario che, per dieci anni, ha dato del filo da torcere agli eserciti
di quattro governatori italiani.
Quando
il vecchio Omar, avvolto in un baracano bianco, viene fatto salire sul
patibolo, il silenzio nel campo si fa totale. Ostacolato dalle catene e
tormentato dalla ferita al braccio ricevuta nell’ultimo combattimento, il
vicario della Senussia muove a stento i passi, tanto che debbono aiutarlo a
salire i gradini del palco. Mentre gli sistemano il cappio intorno al collo,
guarda per l’ultima volta la folla silenziosa, che trattiene a fatica il dolore
e la rabbia. Poi, con un calcio allo sgabello, gli spezzano il collo.
Con
Omar al Mukhtar finisce anche la ribellione libica, cominciata vent’anni prima.
Ma non finisce la leggenda di Omar.»
Nel
1979 il regista siriano-americano Moustapha Akkad gira il kolossal Lion of the Desert, ove si narrano vita, cattura e
morte di Omar al-Mukhtar e, attraverso di lui, l’orrenda saga della
«riconquista» libica. Una coproduzione internazionale, con un cast di tutto
rispetto: l’anziano Anthony Quinn presta
i solchi del proprio viso alla dolente e ferma dignità di Omar; Oliver Reed maramaldeggia nel ruolo di
Graziani; Rod Steiger dà corpo e smorfie a Benito
Mussolini.
Il
film non è un capolavoro, ma non è peggio della maggior parte dei film in
costume hollywoodiani, e ha il merito di far conoscere in Occidente la figura
dell’insegnante-guerrigliero, capo della resistenza popolare all’invasione
fascista.
Tuttavia,
agli spettatori italiani viene negato il diritto di vedere coi loro occhi e
giudicare con la propria testa. Non è ammissibile che nei cinematografi
d’Italia si mostrino gli «italiani brava gente» rappresentati come di solito si
rappresentano le SS. Non è tollerabile che gli italiani vedano le loro forze
armate intente a compiere un genocidio! Come osa quel regista arabo, quel
volgare calunniatore?
Rispondendo
all’interrogazione parlamentare di un deputato missino indignato per le
sequenze che gli sono state descritte, il sottosegretario agli Esteri Raffaele Costa manda un chiaro messaggio ai
produttori: il film non otterrà mai il visto ministeriale per la distribuzione
in Italia. Non v’azzardate nemmeno a chiederlo.
Nel
frattempo, dato che il film è proiettato negli altri paesi, si alzano comunque
grida di sdegno. L’Associazione Nazionale Alpini, ad esempio, protesta per le
sequenze dove soldati con la penna nera decimano la popolazione del Gebel
Achdar.
Di
conseguenza, Lion of the Desert diventa un film di culto
clandestino. Nel marzo 1987, per protesta contro l’impossibilità di vederlo in
Italia, attivisti del Coordinamento per la pace proiettano il film in una
piazza di Trento. La Digos interviene a sequestrare la videocassetta e la
magistratura incrimina quattro persone – Marta Anderle, Franco Esposito, Renato Paris e Paolo Terzan – per «rappresentazione
cinematografica abusiva». Nel febbraio 1988 gli imputati sono condannati a
pagare un’ammenda di centomila lire a testa.
Nel
corso degli anni, il veto politico su Lion of the Desert è
in parte caduto. Il film è stato doppiato in italiano e trasmesso su un canale
nazionale privato. Oggi si trova facilmente su Internet, ma rimane un titolo
scomodo, urticante, del quale non si parla volentieri. Omar al-Mukhtar fa
ancora paura…
Quando Il
colonnello Gheddafi è atterrato a Roma i giorni scorso aveva in bella mostra
sulla divisa una fotografia dell’eroe nazionale libico Omar al Muktar. E
proprio alla sua storia e agli orrori di cui sono resi colpevoli i militari
italiani in Libia tra il 1929 e il 1931 è dedicato il film di Moustapha Akkad
“Il leone del deserto”, girato dal produttore esecutivo della saga horror di
“Halloween” nel lontano 1981.
Finanziato dal
raiss Muammar Gheddafi in persona e costato ben 35 milioni di dollari è stato
uno degli ultimi film censurati in Italia per ragioni politiche e non
religiose. Tutto questo perché a detta di Giulio Andreotti danneggiava l’onore
dell’esercito italiano. Contro l’opera fu persino intentato un processo di
vilipendio delle Forze Armate. Morale della favola, nessuna distribuzione nelle
sale, dopo un buon successo a Cannes nel 1982 e soltanto una serie di
proiezioni quasi clandestine, di cui una a Rimini Cinema del 1988.
Addirittura solo
un anno prima era intervenuta persino la Digos quando la pellicola era in
programma a Trento ad un meeting pacifista. Da allora, il film era sparito ed
era scaricabile solo su internet. Questa la difficile storia del “Leone del
deserto”, che si potrebbe definire il racconto di una pagina oscura della
storia italiana e del ventennio fascista. Di cui si parla nel libro del 2005 di
Eric Salerno “Il genocidio in Libia visto da Eric Salerno”.
Il film si apre
con le note di “Giovinezza” che fanno da colonna sonora a momenti poco
vittoriosi dei nostri. Un Mussolini di maniera interpretato da Rod Steiger, già
Duce per Lizzani, chiama a rapporto il sanguinario generale Graziani per
sconfiggere i ribelli libici guidati da Omar al Muktar, anziano professore di
religione. La guerra dei partigiani arabi e berberi contro i loro occupanti
dura da ben vent’anni. Tra mille difficoltà, l’impresa andrà a buon fine, ma
pochi beduini male armati e coraggiosi daranno del filo da torcere ad un
esercito numeroso e dotato di carri armati e armi moderne. Sarà un vero e
proprio genocidio, in cui moriranno tra stenti e malattie almeno centomila
persone, comprese donne e bambini chiusi in terribili campi di concentramento
nel deserto. Queste scene ricordano molto da vicino quelle del film sul
genocidio armeno “La masseria delle allodole” dei fratelli Taviani.
La tragedia
della guerra s’incrocia per tutta la durata dell’opera con le vicende dei
protagonisti, di una giovane vedova e del suo piccolo Alì e della coraggiosa
Mabrouka interpretata da Irene Papas. Il capo dei ribelli è un uomo saggio e
mite ma al tempo stesso eroico, un perfetto Anthony Quinn, che salva la vita ai
prigionieri e che muore con dignità dopo un processo farsa. Non tutti i
militari italiani sono crudeli, ce ne sono alcuni che resistono all’orrore in
cui sono caduti. La ricostruzione storica è piuttosto fedele a parte un paio di
scene volute da Gheddafi per screditare il re Idris capo dei Senussi, in
seguito cacciato dallo stesso dittatore dopo il suo avvento.
In buona
sostanza “Il leone del deserto” è un film sicuramente di parte e attraversato
dalla retorica, ma gli va dato il merito di aver riportato alla luce crimini di
guerra che per troppi anni erano rimasti nascosti. E sembra quasi che per noi
la Libia sia stato quasi una sorta di Vietnam. Basta sostituire la giungla e il
delta del Mekong con il deserto e le montagne libiche. Per ironia del destino,
il regista siriano Mustafà Akkad è morto con la figlia nel 2005 durante un
attentato di Al Qaeda in Giordania ad un matrimonio in
cui era ospite.
I tanti crimini compiuti dagli italiani durante l'occupazione
coloniale della Libia raccontati con taglio epico e spettacolare in un film che
pone al centro l'eroe nazionale libico che guidò la resistenza contro le nostre
truppe. Censurato qui da noi, è un film forte e importante e al tempo stesso
un'avventura mozzafiato interpretata da ottimi attori, primo tra tutti Anthony
Quinn.
Film bellico dei primi anni '80 ma che ha il respiro epico dei
kolossal dei decenni precedenti, per la durata fiume (quasi tre ore), il gran
dispiego di mezzi, la spettacolarità delle scene di battaglia, e naturalmente
per il cast: Quinn è magnifico nei panni di Omar Mukhtar, Reed un convincente
Graziani, notevoli anche Steiger (per la seconda volta nei panni di Mussolini),
la Papas e soprattutto Vallone. Inevitabile una certa propaganda in favore
della Libia (tra i finanziatori figurava Gheddafi), ma sempre meno scandalosa
di una censura italiana che voleva vietare la storia.
Domande: a) chi inventò i bombardamenti aerei?
b) chi inventò l'utilizzo dei campi di concentramento? c) in quale paese
occidentale la censura vieta ancora questo film? Risposte: a) e b), gli
italiani; c) in Italia.***
Lungo due ore e mezzo (forse un pochino troppo),
finanziato in parte dal colonnello Gheddafi, Il leone del deserto è un buon
film. Uno spettacolo in ogni caso da vedere, anche per sfatare, una volta per
tutte, il mito sgonfio degli "italiani brava gente". Se gli italiani
non furono mai molto umani con gli arabi conquistati, la situazione, probabilmente,
degenerò durante il periodo fascista: il generale Graziani e i suoi scherani
non si risparmiarono nessuna atrocità, pur di mettere a tacere, inutilmente, la
resistenza dei nazionalisti libici. È incredibile e intollerabile che a
ventisei anni di distanza dalla sua uscita questo film sia ancora invedibile
nel nostro paese, ed infatti la versione che circola è fin troppo artigianale
nella (pur meritoria) realizzazione dei sottotitoli. Eppure, una gran parte del
cast è italiano, a cominciare dai sempre bravi Raf Vallone (uno dei pochi
soldati italiani a non fare la figura del quaquaraquà) e Gastone Moschin (un
odioso capo della Milizia). Con qualche eccesso di retorica, ma con una
ricostruzione d'epoca che, anche grazie agli ingenti capitali american-gheddafiani,
appare accuratissima, il regista siriano Akkad (ucciso nel 2005 da un attentato
terroristico in Giordania) realizza un film che funziona sia per rigore morale
che per tenuta spettacolare: vi sono addirittura delle scene quasi splatter, quando
i cingolati italiani passano sui corpi dei ribelli libici. Ottima la prova -
forse una delle migliori della sua carriera - di Anthony Quinn (1915-2001).
Buona anche quella di Oliver Reed (1937-1999), anche se non risulta la scelta
più indovinata in qualità di interprete del generale Graziani. Rod Steiger
(1925-2002), per la cronaca, dopo Mussolini: Ultimo atto (1974), interpreta
Mussolini per la seconda volta. (15 ottobre 2007).
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