sabato 25 novembre 2023

IL RITORNO DI KEVIN SPACEY - Silvia Ingusci

 

Le sporadiche volte in cui, negli ultimi anni, Kevin Spacey è apparso in pubblico sono sempre state, per me, un’occasione per chiedermi a quanto siamo disposti a rinunciare in termini culturali e artistici per mettere a tacere, se pure momentaneamente, il senso di colpa nei confronti delle vittime della violenza di genere.

Kevin Spacey è uno dei migliori interpreti della sua generazione e dal 2017, da quando cioè l’attore Antony Rapp lo accusò per primo di aver subito molestie sessuali a quattordici anni (Spacey all’epoca ne aveva ventisei), non partecipa più a nessuna produzione – anzi, è stato letteralmente licenziato in tronco da quelle che aveva in corso non appena emersero le accuse. Quando provò a difendersi, dopo essersi scusato pubblicamente con Rapp per il proprio comportamento di allora, lo fece con una dignità rara, interpretando – per l’ultima volta, finora – il suo iconico personaggio di Frank Underwood: respinge le accuse che lo coinvolgono e chiede agli spettatori di «non correre alle conclusioni senza prove o formulare un giudizio senza fatti» e, con piglio spiccatamente underwoodiano, sfonda la quarta parete per dire a tutti che non intende pagare per azioni che non ha commesso.

Sembrava quasi pensare che la sua bravura gli avrebbe consentito di attraversare indenne le acque dello scandalo, come se il suo riconoscimento artistico avrebbe potuto salvarlo dalla pruderie scatenatasi a Hollywood nel periodo in cui tutti i produttori si affannavano ad allontanare da sé qualsiasi sospetto di comportamenti affini a quelli del re detronizzato Harvey Weinstein. Come poi hanno dimostrato sei anni di gogna mediatica e disoccupazione, il suo talento non è bastato.

Adesso però che gli avvocati di Rapp non sono riusciti a dimostrare che il loro assistito fosse stato effettivamente molestato da Spacey e che l’attore due volte premio Oscar è stato definitivamente dichiarato innocente sia in Inghilterra che negli Usa, il MeToo deve improrogabilmente fare i conti con i propri demoni. Kevin Spacey è stato la vittima più illustre e ora, secondo i giudici, anche la più innocente di un movimento che, dalle legittime sponde da cui era salpato, è spesso rimasto invischiato in acque torbide, dimostrandosi più spesso puramente dimostrativo che realmente utile. È sembrato, in alcuni casi, che lo sforzo per il raggiungimento della parità di genere consistesse nello smascheramento periodico e “a campione” di qualsiasi maschio bianco che avesse in qualche misura rivolto le proprie attenzioni a qualcuno, additandolo come molestatore e stupratore, distruggendogli la vita ben prima che potesse farlo, legalmente, un tribunale.

Questo piglio iper-borghese, scandalizzato e moralistico tipico della cultura anglosassone, a cui gli americani sono affezionati dai tempi delle “lettere scarlatte” a quelli del maccartismo, lungi dall’essere risolutivo dal grave fenomeno delle molestie sessuali subite da donne e uomini nel mondo dello spettacolo, è anzi dannoso per il movimento stesso, perché lo incanala in una serie di logiche censorie che gli tolgono credibilità, umanità e valore.

Inoltre, come accade spesso anche in questa remota provincia dell’impero americano che è l’Italia, quando una figura in vista della nuova militanza di sinistra (leggi: influencer) prende la parola per i diritti civili, finisce spesso per polarizzare il dibattito: radicalizza la sua fanbase e allo stesso tempo crea un fronte contrario di “impopolari” liquidati come indesiderabili retrogradi. In altre parole, il popolo delle vittime, sostenuto molto più nelle parole e nelle Instagram Stories che nei fatti, e quello dei carnefici, indignati custodi dei principi cis-eurocentrici e fieramente pronti a battersi fino alla morte per difendere quel che resta dell’Occidente. Il ruolo di vittima è quindi contesissimo da questi due opposti schieramenti: da un lato le minoranze che rivendicano giustamente il loro diritto a emanciparsi dalle logiche patriarcali, dall’altro i conservatori “senza peli sulla lingua” che si dipingono come vittime del politicamente corretto anche quando ritengono che insultare gratuitamente persone o categorie sia espressione di massima emancipazione intellettuale. In questa paradossale “cultura del piagnisteo”, per dirla con le parole di Robert Hughes, la vera vittima è l’Arte.

Quando quest’anno Kevin Spacey ha ricevuto il premio Stella della Mole, alcune associazioni femministe hanno criticato la scelta della giuria perché a loro avviso inopportuna rispetto alla situazione giuridica del premiato, lasciando che a destra si intestassero battaglie che dovrebbero essere prive di colore politico, come quella, appunto, per il riconoscimento dei meriti artistici di un individuo.

È stato detto che Spacey, nella posizione di attore affermato, ha esercitato una sorta di violenza psicologica e “di ruolo” nei confronti di un collega agli esordi della propria carriera. È senz’altro possibile, ma qui si entra nel campo delle supposizioni, della parola di Rapp contro quella di Spacey e, soprattutto, ci si inoltra nelle pericolose paludi della censura: demonizzare il desiderio, censurare automaticamente come violenti i normali, civili, insopprimibili flussi ormonali è un’operazione che abbiamo iniziato a condannare pubblicamente almeno negli anni ’60.

La domanda cruciale è come sia possibile giudicare la carriera di un grande attore con una specie di termometro della moralità, sovrapponendo pericolosamente l’arte all’etica, poiché la prima, se non è propaganda, ha un suo statuto autonomo che risponde primariamente all’estetica.

Perché a sinistra ci sentiamo in diritto di giudicare una persona più dal punto di vista morale che sul piano politico o artistico? E se giudicassimo moralmente Picasso perché era un misogino o Marco Tullio Cicerone perché possedeva degli schiavi, dovremmo allora dimenticare le loro opere? Dovremmo forse smettere di leggere Lolita di Nabokov – di fatto la storia di un pedofilo – e cancellarlo dalle antologie, bruciarlo nelle piazze? Non lo facciamo, per fortuna, perché riconosciamo che l’arte non ha tra le sue prerogative quella di essere nobilitante, educativa o patriottica. È pericoloso avallare senza spirito critico questa “cultura della vittima”, la tendenza a definire una categoria sociale (sì, finanche una minoranza penalizzata) solo in funzione dei suoi traumi. Si finisce con l’essere inghiottiti in una spirale di rabbia infantile. E con la rabbia viene meno l’intelligenza, e con l’intelligenza la libertà.

da qui

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