Le sporadiche volte in cui, negli ultimi anni, Kevin Spacey è apparso in pubblico sono sempre state, per me, un’occasione per chiedermi a quanto siamo disposti a rinunciare in termini culturali e artistici per mettere a tacere, se pure momentaneamente, il senso di colpa nei confronti delle vittime della violenza di genere.
Kevin Spacey
è uno dei migliori interpreti della sua generazione e dal 2017, da quando cioè
l’attore Antony Rapp lo accusò per primo di
aver subito molestie sessuali a quattordici anni (Spacey all’epoca ne aveva
ventisei), non partecipa più a nessuna produzione – anzi, è stato letteralmente
licenziato in tronco da quelle che aveva in corso non appena emersero le
accuse. Quando provò a difendersi, dopo essersi scusato pubblicamente con Rapp
per il proprio comportamento di allora, lo fece con una dignità rara,
interpretando – per l’ultima volta, finora – il suo iconico personaggio di Frank Underwood: respinge le accuse che lo
coinvolgono e chiede agli spettatori di «non correre alle conclusioni senza
prove o formulare un giudizio senza fatti» e, con piglio spiccatamente
underwoodiano, sfonda la quarta parete per dire a tutti che non intende pagare
per azioni che non ha commesso.
Sembrava
quasi pensare che la sua bravura gli avrebbe consentito di attraversare indenne
le acque dello scandalo, come se il suo riconoscimento artistico avrebbe potuto
salvarlo dalla pruderie scatenatasi a Hollywood nel periodo in
cui tutti i produttori si affannavano ad allontanare da sé qualsiasi sospetto
di comportamenti affini a quelli del re detronizzato Harvey Weinstein. Come poi
hanno dimostrato sei anni di gogna mediatica e disoccupazione, il suo talento
non è bastato.
Adesso però
che gli avvocati di Rapp non sono riusciti a dimostrare che il loro assistito
fosse stato effettivamente molestato da Spacey e che l’attore due volte premio
Oscar è stato definitivamente dichiarato innocente sia in Inghilterra che negli Usa, il MeToo deve
improrogabilmente fare i conti con i propri demoni. Kevin Spacey è stato la
vittima più illustre e ora, secondo i giudici, anche la più innocente di un
movimento che, dalle legittime sponde da cui era salpato, è spesso rimasto
invischiato in acque torbide, dimostrandosi più spesso puramente dimostrativo
che realmente utile. È sembrato, in alcuni casi, che lo sforzo per il
raggiungimento della parità di genere consistesse nello smascheramento
periodico e “a campione” di qualsiasi maschio bianco che avesse in qualche
misura rivolto le proprie attenzioni a qualcuno, additandolo come molestatore e
stupratore, distruggendogli la vita ben prima che potesse farlo, legalmente, un
tribunale.
Questo
piglio iper-borghese, scandalizzato e moralistico tipico della cultura
anglosassone, a cui gli americani sono affezionati dai tempi delle “lettere
scarlatte” a quelli del maccartismo, lungi dall’essere risolutivo dal grave
fenomeno delle molestie sessuali subite da donne e uomini nel mondo dello
spettacolo, è anzi dannoso per il movimento stesso, perché lo incanala in una
serie di logiche censorie che gli tolgono credibilità, umanità e valore.
Inoltre,
come accade spesso anche in questa remota provincia dell’impero americano che è
l’Italia, quando una figura in vista della nuova militanza di sinistra
(leggi: influencer) prende la parola per i diritti civili, finisce
spesso per polarizzare il dibattito: radicalizza la sua fanbase e allo stesso
tempo crea un fronte contrario di “impopolari” liquidati come indesiderabili
retrogradi. In altre parole, il popolo delle vittime, sostenuto molto più nelle
parole e nelle Instagram Stories che nei fatti, e quello dei carnefici,
indignati custodi dei principi cis-eurocentrici e fieramente pronti a battersi
fino alla morte per difendere quel che resta dell’Occidente. Il ruolo di
vittima è quindi contesissimo da questi due opposti schieramenti: da un lato le
minoranze che rivendicano giustamente il loro diritto a emanciparsi dalle
logiche patriarcali, dall’altro i conservatori “senza peli sulla lingua” che si
dipingono come vittime del politicamente corretto anche quando ritengono che
insultare gratuitamente persone o categorie sia espressione di massima
emancipazione intellettuale. In questa paradossale “cultura del piagnisteo”,
per dirla con le parole di Robert Hughes, la vera vittima è l’Arte.
Quando quest’anno
Kevin Spacey ha ricevuto il premio Stella della Mole, alcune associazioni femministe hanno criticato la scelta della giuria perché a loro avviso inopportuna rispetto alla
situazione giuridica del premiato, lasciando che a destra si intestassero
battaglie che dovrebbero essere prive di colore politico, come quella, appunto,
per il riconoscimento dei meriti artistici di un individuo.
È stato
detto che Spacey, nella posizione di attore affermato, ha esercitato una sorta
di violenza psicologica e “di ruolo” nei confronti di un collega agli esordi
della propria carriera. È senz’altro possibile, ma qui si entra nel campo delle
supposizioni, della parola di Rapp contro quella di Spacey e, soprattutto, ci
si inoltra nelle pericolose paludi della censura: demonizzare il desiderio,
censurare automaticamente come violenti i normali, civili, insopprimibili
flussi ormonali è un’operazione che abbiamo iniziato a condannare pubblicamente
almeno negli anni ’60.
La domanda
cruciale è come sia possibile giudicare la carriera di un grande attore con una
specie di termometro della moralità, sovrapponendo pericolosamente l’arte
all’etica, poiché la prima, se non è propaganda, ha un suo statuto autonomo che
risponde primariamente all’estetica.
Perché a
sinistra ci sentiamo in diritto di giudicare una persona più dal punto di vista
morale che sul piano politico o artistico? E se giudicassimo moralmente Picasso
perché era un misogino o Marco Tullio Cicerone perché possedeva degli schiavi,
dovremmo allora dimenticare le loro opere? Dovremmo forse smettere di
leggere Lolita di Nabokov – di fatto la storia di un pedofilo
– e cancellarlo dalle antologie, bruciarlo nelle piazze? Non lo facciamo, per
fortuna, perché riconosciamo che l’arte non ha tra le sue prerogative quella di
essere nobilitante, educativa o patriottica. È pericoloso avallare senza
spirito critico questa “cultura della vittima”, la tendenza a definire una
categoria sociale (sì, finanche una minoranza penalizzata) solo in funzione dei
suoi traumi. Si finisce con l’essere inghiottiti in una spirale di rabbia
infantile. E con la rabbia viene meno l’intelligenza, e con l’intelligenza la
libertà.
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