lunedì 20 giugno 2022

Esterno Notte – Marco Bellocchio

Marco Bellocchio ritorna alla storia del sequestro di Aldo Moro dopo aver girato Buongiorno notte, nel 2003.

il giorno del sequestro di Moro, come pure il 2 agosto del 1980, sono giorni che non passano mai, che hanno bloccato la storia italiana, e siamo ancora lì.

Fabrizio Gifuni è Moro, non lo interpreta, è proprio lui, un lavoro da premio Oscar, come pure Margherita Buy, Noretta, la moglie di Aldo Moro. 

il film, in sei parti, racconta alcuni aspetti della storia, da punti di vista diversi.

gli attori sono tutti bravi, e l'ipotesi di Moro vivo, come nella fine del film precedente, è l'inizio di Esterno notte

non è un film a tesi, non è un film che dà risposte, è un film che fa domande, che rende inquieti, che mostra le facce.

la facce dei politici sono veramente quelle di bugiardi, falsi, imbarazzanti, attori sostituibili nelle mani di qualcun altro, i generali e i politici della P2, la Cia.

e fino alla fine resta la domanda, e se Moro fosse uscito vivo?

buona imperdibile visione (in autunno passerà in tv) - Ismaele


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La prima scena in esterno giorno di Esterno notte è in una via di Roma: manifestanti e polizia si stanno scontrando violentemente, l’aria è opaca per il fumo dei lacrimogeni, ma al centro dell’inquadratura si vede nitidamente il manifesto di un film in quei giorni nelle sale italiane: Anima persa di Dino Risi, dall’omonimo romanzo di Giovanni Arpino. Quando Bellocchio dissemina allusioni intertestuali nei suoi film non lo fa mai a caso. E anche questa volta è bene prendere molto sul serio questo indizio: Anima persa è un film di fantasmi e di fake news, e al tempo stesso è la storia di una reclusione. È lo stesso trinomio su cui si regge il film-serie che Marco Bellocchio ha dedicato – ancora una volta, dopo Buongiorno, notte del 2003 – al rapimento e all’assassinio di Aldo Moro: fantasmi, fake news e reclusioni…

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…Tre sono le sfide che il progetto di film e la sua sceneggiatura affidano al montaggio: costruire e ritmare la dialettica fra solitudini individuali e storia corale, innestare nel racconto finzionale le immagini di repertorio e giostrare in modo credibile l’irruzione degli inserti onirici nello sviluppo “realistico” del racconto…

Francesca Calvelli le risolve in maniera straordinaria tutte e tre. Ecco allora che in alcuni momenti sceglie inquadrature strette o strettissime sui volti, e insiste su primi e primissimi piani angusti e quasi soffocanti come i muri della cella di Moro, e non stacca e resta lì quasi a inchiodare il nostro sguardo su quei volti (come nel bellissimo piano sequenza sul viso della Buy che parla al telefono nel disperato tentativo di smuovere l’inerzia del potere) , mentre altre volte invece accelera il ritmo e stacca e spezza e alterna totali e primi piani (come nella scena in cui i brigatisti si allenano a sparare al mare dalla spiaggia), inquadrando prima il gruppo poi un volto solo, quasi a suggerire che anche se in quel momento sembrano un gruppo (una “brigata”…), al fondo poi sono tutti individui tragicamente soli.

Ci sono poi i momenti in cui l’onirico irrompe nel realistico: come nell’incubo dei cadaveri che galleggiano nell’acqua verdastra del fiume, o nel doppio finale prima immaginario e poi reale: e qui il montaggio di Calvelli è davvero perfetto nel rendere credibile ciò che non è mai accaduto e nel rendere incredibile ciò che purtroppo è accaduto davvero. Nel farci vedere che le cose potevano andare anche in modo diverso.

E poi c’è il lavoro raffinatissimo sull’archivio e sul repertorio: la Storia entra ed esce di campo grazie alla cronache trasmesse da apparecchi televisivi sempre accesi, come se Bellocchio volesse conferire alle immagini televisive dell’epoca il compito di mantenere l’ancoraggio con l’accaduto e chiedesse a pertanto a Calvelli di usare il volto di Bruno Vespa o di Emilio Fede, o la voce di Pertini ai funerali degli uomini della scorta, o le immagini degli uomini potere schierati in prima fila ai funerali di Stato senza il feretro di Moro, per impedire che la forza dell’immaginazione che ricostruisce ciò che nessuno ha potuto vedere perda il contatto con la irreversibilità della tragedia che realmente si è compiuta. Ecco allora, ad esempio, le immagini televisive della ricerca del cadavere di Moro nel lago ghiacciato della Duchessa, riproposte dal montaggio più e più volte, quasi un leitmotiv drammaturgico e visuale, che torna e ritorna, e che vediamo irrompere nel quotidiano di Eleonora Moro come in quello dei brigatisti, fake news di devastante potenza che proprio nel suo eterno ritorno nei successivi episodi della serie ci dice come le solitudini di tutti i personaggi si agglutinino intorno a qualcosa che non c’è, che non si trova, che non si vede, ma che sconvolge e stravolge la vita di tutti.
Non si può non vederlo, Esterno notte di Marco Bellocchio: non solo perché è uno dei capolavori assoluti del cinema italiano delle ultime stagioni ma anche perché ci dice e ci ricorda come il cinema e solo il cinema, nel suo essere – come in questo caso – finzione dichiarata che dialoga con la cronaca documentata – è in grado di farci accedere alla comprensione della Storia e – forse – a una possibile verità. Che non necessariamente coincide con quella che finora ci siamo raccontati.

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Le questioni di lana caprina le lascio volentieri agli altri. Poco m'interessa se Esterno Notte sia un prodotto per la televisione oppure per il cinema, una serie tv o un film a episodi (in realtà la risposta è semplice, per chi la vuol vedere: Bellocchio è un regista di cinema che ha girato una serie destinata alla tv, ma è evidente che il suo sguardo è e resta comunque cinematografico, non potrebbe essere altrimenti). Quello che conta è il contenuto, e quello che è certo è che Esterno Notte è la "cosa" più bella che mi sia capitato di vedere in questa stagione. Bellocchio, non mi stancherò mai di dirlo, sebbene vada ormai per gli 83 anni (li compirà in novembre) si conferma come l'autore più "giovane" e lucido del cinema italiano, capace di analizzare con incredibile dovizia di spunti la storia recente di questo paese.

Esterno Notte, lo sapete tutti, ricostruisce la tragica vicenda del sequestro e dell'omicidio di Aldo Moro. Lo fa alla maniera di Bellocchio, non aspettatevi quindi nè un documentario, nè un film d'inchiesta: il regista piacentino aveva già affrontato l'argomento già vent'anni fa con lo splendido Buongiorno, notte (Leone d'oro purtroppo mancato a Venezia) e questa serie pare riprenderne l'idea di partenza: come in Buongiorno, notte, infatti, vediamo anche qui un Moro che viene graziato dai suoi aguzzini, stanco ma vivo, che però invece di vagare libero per una Roma mattutina e deserta viene subito rinchiuso in ospedale e guardato a vista da quelli che, evidentemente, sono diventati i suoi nuovi "carcerieri", ovvero i vertici del suo partito, la Democrazia Cristiana, che per Bellocchio sono gli evidenti responsabili della quanto è avvenuto... una scelta di campo netta, fin dalla primissima sequenza, ed è già un notevole pugno nello stomaco per una certa idea di classe e di politica. Ma andiamo con ordine…

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Dalla terrorista pronta a immolarsi per la rivoluzione proletaria, ma turbata dall'orrore dell'omicidio e dall'ipocrisia dei propri seguaci, si passa a un altro mirabile ritratto femminile: l'Eleonora Moro di Margherita Buy, animata dalla frustrazione di dover spartire il marito con la ragion di Stato, ma capace di ammantarsi di una sobrietà severa e granitica nel momento in cui tutti gli altri vorrebbero vederla indossare i panni di moglie fragile e in preda alle lacrime. La risolutezza della signora Moro, che non rinuncia alla razionalità laddove al contrario il Ministro Cossiga sembra disposto a inseguire fantasmi e superstizioni, anticipa l'atto finale di questa tragedia italiana: l'unico episodio dal taglio corale, in cui l'ucronia di una sopravvivenza insperata, accompagnata da un durissimo j'accuse, si infrange sulle immagini della Renault rossa parcheggiata in via Caetani e sui filmati dell'omelia funebre pronunciata dal Pontefice in assenza di una salma. Storia e romanzo, realtà e invenzione confluiscono così nel magnum opus di un cineasta straordinario che, a ottantadue anni, continua a dar prova di un talento smisurato e di un'audacia davvero senza età.

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Fabrizio Gifuni fa il camaleonte e si muove in piena zona Volontè, il suo Aldo Moro ha le movenze giuste e una psicologia importante, ha già avuto a che fare con il personaggio in passato e si vede. Calibra una pacatezza assennata rotta sul finale da uno sfogo rabbioso ed emotivamente esigente…

Aldo Moro fa da scudo col suo corpo per il compromesso storico; un governo Dc con l’appoggio esterno del Pci è uno schiaffo a trent’anni di barricate ideologiche, non fa scopa con l’aritmetica bipolare della Guerra Fredda e la cosa ha un suo prezzo. Pagherà con la vita, c’è un mondo fuori del covo, il suo mondo, che finge fermezza e invece lo scarica senza troppi complimenti perché è meglio che tutto resti così com’è. Aldo Moro è un altro povero Cristo costretto a portare il peso di peccati che solo in parte gli appartengono. Muore, lui e i cinque della scorta, per le colpe di tutti. Esterno notte riempie il vuoto del film precedente facendo il controcampo. Racconta la distanza, una promessa di armonia e riconciliazione spezzata a metà. Tante lingue e nessun dizionario comune.

Alle spalle di un’assurda guerra civile, un oceano separa un padre dai suoi figli, un presidente dal suo partito. Distanza all’università, nelle Brigate Rosse, distanza in Vaticano, distanza tra un film e una serie che si cercano ma non si toccano perché raccontano di due realtà che non vogliono incontrarsi. Se c’è denuncia, non è mai arrabbiata. È più lucida e determinata. Marco Bellocchio non insegue il manifesto, è troppo impegnato a ricordare.

Esterno notte dosa rigore cronachistico e spettacolarizzazione della storia con un senso delle proporzioni che richiama alla mente il cinema politico di Francesco Rosi. Ha un sentimento della realtà onirico, fosco e malato, degno del miglior Petri. In realtà l’opera appartiene al suo regista ben al di là dei nobili riferimenti. Perché gioca sempre sul crinale tra realtà e rappresentazione, perché lega istintivamente psicologia e affresco storico. Una storia di famiglia, anche questa. Allargata nel senso più problematico del termine, insieme privata e pubblica, politica e terrorista, spirituale e materialista. Fotografata sopra e sotto, dentro e fuori, nell’attimo cruciale in cui niente cambia e insieme tutto cambia.

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Il monologo di Moro/Gifuni davanti al prete, unico soggetto esterno che entra in dialogo con il prigioniero, è struggente, ma non solo per il significato delle parole quanto per il senso che trovano nei movimenti impercettibili disegnati sul volto, il suono increspato del tono, la luce spenta degli occhi, il tatto delle sue mani. Lo sguardo della Faranda (Daniela Marra), i suoi primi piani, lo scomposto corpo dei suoi gesti colpiscono e non lasciano tregua attraverso un uso del colore univoco che scava e inquieta. Diversamente Nora Moro/Margherita Buy disegna lo spazio attraverso la ricerca di aria, di movimento, di ferma solitudine, di capacità di scelta positiva, come se ispirata davvero da un credo cristiano superiore che non consola, quanto potenzia la capacità di lettura amara del partito, della chiesa, del paese, con un’umanità che si riversa internamente verso la famiglia, il marito, i figli, la vedova di un uomo della scorta. Davanti ad una se stessa che addirittura si scusa al telefono con il brigatista che le sta dando la notizia definitiva di un esito atteso, quanto temuto, non può non interrogarsi su quella sua incapacità d’odio. I funerali privati solo intravisti, come è giusto che sia, sono però una scelta politica chiara, lampante, un gesto carico di forza e di opposizione (il controcampo dei funerali mostrati in Buongiorno, notte).

Molti i piani attraversati e tenuti insieme da Bellocchio, molti i particolari su cui soffermarsi, la profondità entra come con un laser a scandagliare ciò che è Stato. E come al solito il realismo sposa l’immaginazione e insieme creano il senso nella sua complessità. Non è un caso neanche il contrasto del ritmo della canzone del trailer Porque te vas di Jeanette (1974) a segnare il distacco dalla tragedia incombente, un po’ come avviene nelle parole del testo.

La fotografia, la musica, la scenografia, la sceneggiatura, i costumi, il montaggio concorrono tutti alla realizzazione, così come tutti gli altri protagonisti, compresa la città di Roma attraversata in maniera mirabile. Difficile racchiudere Esterno notte… in un solo finale, in una recensione.

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2 commenti:

  1. http://effimera.org/esterno-notte-di-marco-bellocchio-riflessioni-di-gianni-giovannelli/

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  2. https://www.adnkronos.com/esterno-notte-lex-br-persichetti-bellocchio-scrive-il-romanzo-del-potere-dc_6dzeAB1lzxAZVw80DH1jlm?refresh_ce

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