domenica 5 giugno 2022

Bersagli (Targets) – Peter Bogdanovich

opera prima di Peter Bogdanovich, in pochi giorni, cinema sul cinema, e Boris Karloff che interpreta se stesso, e il regista che interpreta il regista. 

due film che vanno per conto loro fino a che s'incontrano, un grande attore che si ritira e un giovane senza qualità che perde la bussola, e con un mucchio di morti di un serial killer tutto fatto in casa, un ragazzo che ha fatto la guerra e vive la sua vita svuotato, libero, come tutti, laggiù, di comprare armi, armi e armi, che poi, sorpresa, spareranno.

piccolo grande capolavoro di un futuro grande del cinema.

buona (sempre attuale) visione - Ismaele

 

 

 

 

L’intento dell’“operazione metacinema” – quasi fosse esso stesso il titolo di un film – è appalesato già nei primissimi minuti di Bersagli, o addirittura dal primo fotogramma di girato: un corvo in volo che gracchia disperato, come un esemplare fuggito dagli opening credits di Gli uccelli (Alfred Hitchcock, 1963). Poi, gotiche atmosfere di cartapesta, un castello sul mare, le onde in tempesta che s’infrangono sugli scogli, una losca figura in interno, un giovane Jack Nicholson che salva una ragazza in pericolo, la violenza del mare, mentre contemporaneamente scorrono i nomi delle maestranze che hanno preso parte alle pellicole (che sono due: Bersagli e quella in essa contenuta, La vergine di cera). Un film in un film, uno si conclude e s’innesta sull’iniziare dell’altro in un passaggio che è anche nello spazio: termina il montaggio di prova e ci si ritrova con l’attore protagonista e la produzione dentro una saletta privata…

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Bersagli è un film profondamente cinefilo (una marca distintiva della filmografia di Bogdanovich), a cominciare dal personaggio interpretato da Boris Karloff e dall’omaggio che Bogdanovich fa a Roger Corman, un regista con cui il Nostro strinse un sodalizio artistico negli anni Sessanta, e che qua ha il ruolo di produttore esecutivo. Il film si apre e si chiude infatti con immagini di repertorio tratte da La vergine di cera (The Terror), un horror gotico diretto nel 1963 da Corman, dove è protagonista appunto Boris Karloff, un attore di cui il Byron Orlok del film è un alter ego abbastanza palese, a cominciare dal nome (anzi, nell’immaginario della vicenda potrebbe essere addirittura lo stesso Karloff sotto pseudonimo). Corman è un altro esponente del cinema indipendente americano, in grado di realizzare film horror (ma non solo) a basso costo – celebri sono ad esempio le sue raffinate trasposizioni dai racconti di Edgar Allan Poe – ma che, forse proprio per il genere affrontato, non ha avuto importanti riconoscimenti dalla critica come Bogdanovich. Il quale però ne riconosce l’importanza, tanto da costruire buona parte di Bersagli attorno alla figura di Boris Karloff, una leggenda del cinema horror americano e internazionale, che qui – proprio come il Byron Orlok della vicenda – è ormai sul viale del tramonto. La gigantesca presenza di Karloff è un atto d’amore cinefilo e meta-cinematografico (e lo stesso cognome Orlok può essere una citazione dal Nosferatu di Murnau), ma non solo: Bogdanovich cita infatti, per mezzo delle parole del protagonista, mostri sacri del grande schermo quali Greta Garbo e i Fratelli Marx, oppure ci fa vedere una sequenza tratta da Codice penale di Howard Hawks (dove Karloff/Orlok è ancora protagonista), per poi ambientare il lungo finale in un drive-in, la sala cinematografica all’aperto che tanta importanza ha avuto e continua ad avere nella cultura americana. Dunque, anche in Bersagli, come sarà ne L’ultimo spettacolo (dove la sala cinematografica destinata alla chiusura proietta Il fiume rosso di Howard Hawks), il cinema – inteso proprio come luogo fisico – assurge a importanza primaria e nostalgica, con un insistito carattere meta-cinematografico. Le citazioni e gli omaggi non sono fini a loro stessi, ma fungono da espressione di un evidente amore verso la Settima Arte, e la vicenda di Byron Orlok non è per niente banale, perché rivela un’immagine al vetriolo del cinema americano: il quale, se da una parte viene venerato con nostalgia, dall’altra viene però anche ritratto nei suoi aspetti più impietosi e crepuscolari, per esempio nei contrasti fra attori, produttori e registi. Bogdanovich si inserisce un po’ in quel filone ben frequentato da un regista rivoluzionario come Robert Aldrich, che in film quali Il grande coltello e Quando muore una stella mette in scena gli aspetti più meschini del mondo apparentemente dorato di Hollywood, così come fece anche Billy Wilder con Viale del tramonto. Orlok si definisce ormai un “dinosauro”, una creatura in via d’estinzione, un attore che ha avuto anni di gloria e che ora è consapevole del proprio declino, in opposizione ai produttori che vorrebbero continuare a sfruttare all’infinito il suo successo per produrre nuovi film, e che accetta solo per sfinimento di presenziare alla proiezione del suo film al drive-in. Karloff – che conserva il suo grande carisma e in certe scene recita volutamente sé stesso, vedasi l’inquietante racconto sul mercante e la Morte – è protagonista di continui e talvolta ironici battibecchi con i suoi produttori, con la segretaria e con il giovane regista (interpretato dallo stesso Bogdanovich), che lo spinge invano a fargli leggere il suo nuovo copione, in una serie di scene che rivelano la futura attitudine di Bogdanovich per la commedia. È una messa in scena sempre ambivalente, sospesa fra il dichiarato amore per il cinema e la presa di consapevolezza che l’epoca classica si sta ormai concludendo, così come la sala de L’ultimo spettacolo sta per chiudere i battenti: di questo bisogna rendersene conto, per aprire una nuova epoca dove i “dinosauri” come Orlok non trovano purtroppo (ma inevitabilmente) più spazio...

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Bogdanovich's method, then, is going to be simple: He wants an ironic contrast between the kind, rather weary horror actor, and the real horror of a kid who becomes a sniper. The problem is that most of Karloff's scenes aren't really necessary; I suspect a movie limited to the sniper's story would have been more direct and effective.

Still, it's fascinating to watch Karloff. Like Spencer Tracy in "Guess Who's Coming to Dinner," he brings an extra dimension to his character: The role bears some resemblance to real life. When he talks about his career, watches a "real" Karloff movie and talks about an old Howard Hawks film on TV, we seem to be eavesdropping.

The parallel story, involving the sniper, is handled with more control. The kid is possibly modeled after Texas sniper Charles Whitman, and seems to come from a similar background. Bogdanovich suggests the details: The youth is married, but has absolutely no communication with his wife. They still live with his parents…

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La genesi dell’opera d’esordio di Peter Bogdanovich appare incredibile, come incredibile è il sorprendente risultato finale, lo stesso regista racconta con evidente ironia la nascita di un film che in forma embrionale appariva come una specie di puzzle, dietro al progetto la mente geniale del grande Roger Corman, il regista/produttore/autore e scopritore di talenti (oltre a Bogdanovich, lanciò anche Scorsese, Coppola, Demme e Dante) era capace di costruire un film montando pezzi tagliati da varie pellicole...e in parte fu proprio questo che avvenne con Targets.

 

Boris Karloff mi deve un paio di giorni di lavoro, vorrei che girassi 20 minuti con lui in due giorni, io ho girato interi film in due giorni, poi voglio che prendi altri attori e giri per un paio di settimane per avere un altra ora, poi usi venti minuti di materiale con Karloff tratti da un film intitolato “La vergine di cera”.

Quindi...giri 20 minuti con Karloff, 20 minuti da La vergine di cera, aggiungi altri 40 minuti con attori diversi e ottieni un nuovo film di Karloff da 80 minuti...ci stai?”

(Bogdanovich racconta così la proposta di Roger Corman)

 

Il giovane Bogdanovich non poteva rifiutare, occasioni del genere capitano una sola volta nella vita e quindi accettò quella che sulla carta sembrava un’impresa quasi impossibile, ovvero costruire una storia che avesse un senso logico e magari fosse anche accattivante, utilizzando per pochi giorni il mito di Karloff, spezzoni di un vecchio film, più altro girato da aggiungere a piacimento.

La base del soggetto fu qualcosa di estremamente semplice ma allo stesso tempo illuminante, un racconto meta-cinematografico che sfruttando la caratura di un mito come Karloff lanciava una riflessione profonda sul cinema horror e sulla sua rappresentazione, un impietoso confronto tra i superati orrori vittoriani e la fredda cronaca nera (in questa caso la vicenda del cecchino Charles Whitman, autore della strage di Austin nel ‘66).

Fondamentale fu il contributo nella stesura della sceneggiatura di Samuel Fuller, il regista amico di Bogdanovich riscrisse parte della storia riuscendo ad amalgamare la teoria di Corman in un insieme compatto e clamorosamente brillante….

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Feroce satira su di un paese dove la libera circolazione delle armi, produce mostri, lo illustro’in un film simile Larry Peerce, nel meraviglioso Panico allo stadio sullo stesso tema.film scarno, privo di colonna sonora, con una grande fotografia di Laszlo Kovacs, scenografia e costumi di Polly Platt, diretto e montato da Peter Bogdanovich, un thriller veramente notevole, per essere un’opera prima 1 ora e 22 minuti che si seguono tutti di un fiato, tutte le scene sono importanti, nell’economia del film. Film disturbato e disturbante, con le due storie che si incrociano: la follia del cecchino e dall’altra la voglia di ritiro dalle scene del vecchio e stanco divo, che morì l’anno dopo purtroppo, film essenziale di pochi mezzi, che colpisce nel segno, film ancora buono, nonostante gli anni passati, come Duel non invecchia, anzi migliora, distribuiti entrambi da Paramount…

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Difficilmente si assiste ad una speculazione metacinematografica condotta con tanta lungimirante maestria. Boris Karloff interpreta esattamente se stesso: un vecchio annoiato e stanco, che non ne può più di vestire i panni di mostri fuori dal tempo, che oramai non fanno più paura a nessuno. Scorrono nelle sequenze iniziali i titoli di coda della sua ultima fatica horror, quasi a evidenziare la fine del genere: l'horror è morto, bisogna inventarsi qualcosa d'altro. Bogdanovich anticipa qui, con visionaria limpidezza, diversi tòpoi dell'horror che verrà: parla di horror senza fare horror. Si svincola dai rapporti di causalità: l'assenza di meccanicismo produce scompiglio, stordimento, confusione. La follia omicida di Bobby non ha motivazioni, è postulata: la sua calma olimpica e la sua metodicità sono raggelanti. L'insensatezza delle sue azioni terrorizza, perché non ne percepiamo il limite, non comprendiamo fin dove si spingerà. La distorsione della routine quotidiana genera una sensazione di prossimità emotiva: è un male che può annidarsi in ciascuno di noi, non è lontano ed immaginario. E' una concezione della paura più adulta, più matura: il gotico ottocentesco e le sue forme mostruose, soprannaturali, spettrali, hanno mostrato la corda, il pubblico ora desidera vedere scorrere il sangue. Nondimeno, il vetusto e obsolescente horror è ancora capace di un sussulto di dignità: Karloff, con portamento severo, guarda in faccia e affronta de visu il nuovo volto che ha assunto la paura e l'ha condannato al pensionamento. Vi vede un miserabile giovincello rannicchiato e tremante: superamento non implica evoluzione, il contegno di Karloff resta inarrivabile ed eterno.

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