lunedì 1 ottobre 2012

Reality – Matteo Garrone

quando un regista fa "Gomorra", dopo diversi film memorabili, tutti lo aspettano al varco.
Garrone fa un film dopo quattro anni ed ecco "Reality", per me davvero bello.
dentro c'è l'Italia, di questi lunghi anni, c'è Pinocchio, c'è il carattere degli italiani, direbbe Leopardi.
nel mio piccolo dico che è un film da vedere, e meditare - Ismaele





…Lo sfarzo a metà tra Luigi XVI e Disneyland, che contraddistingue la scena matrimoniale con cui si apre il film, dà il via al continuo scambio che fiction e realtà esibiranno, sovrapponendosi l’una all’altra, mischiandosi selvaggiamente, combattendo in un crescendo di situazioni al limite del grottesco. Il protagonista, Luciano, ha l’espressione stupita e profondamente sincera e ingenua di Aniello Arena, ergastolano da tempo impegnato in teatro. Un’autentica rivelazione. La maschera dell’uomo normale alla ricerca di una dimensione che lo faccia sentire vivo e reale, pian pianino cede all’ossessione e al dogma del reality per poi culminare con il tentativo esorcizzante della religione. Nulla anche l’intercessione votiva, forse è più consolatorio il ‘non mollare’, professato da Enzo, uno che il Grande Fratello l’ha vinto e adesso, alle feste, piomba giù dall’alto proprio come farebbe una divinità.
Un’opera riuscita, Reality. Tocchi di felliniano surrealismo, omaggi alla commedia all’italiana dei grandi maestri e al neorealismo. Ma specialmente, la firma di Matteo Garrone.

Sin dalla scena di apertura del film comprendiamo che il terreno sul quale ci muoveremo è quello dell’incantesimo, del sogno favoloso, delle aspirazioni condotte all’eccesso. Un eccesso che non diventa mai grottesco. Eccesso, esasperazione che sono possibili solo in un territorio come quello napoletano, dove ogni manifestazione umana è un fatto teatrale (si pensi al modo di parlare e di esprimersi della gente, alla città stessa per la sua innata scenograficità) e radicalmente barocco. Dunque, Napoli come lo scenario perfetto per una storia sull’apparenza, sulla rappresentazione di se stessi davanti ad un pubblico. Perché ciò a cui aspira Luciano è un palcoscenico, un piedistallo, una pedana dalla quale guardare la platea degli astanti, degli adoratori. Lui, abituato a dirigere dall’alto il traffico di clienti che affollano la sua pescheria, lui che è punto di riferimento, quasi un ufficio di collocamento per la gente che vuole arrotondare entrando nel giro dei suoi affari.  Come si fa a sprecare un talento come il suo? La sua famiglia, il ragazzo del bar, i commercianti suoi vicini inneggiano a Luciano. Le parole della gente hanno l’effetto di una formula magica sulla mente idealista e sognatrice del pescivendolo che si lancia nella rincorsa al successo. “Never give up“. E’ questo il leitmotiv che lo conduce sempre più lontano dalla realtà e che gli fa credere di essere spiato da inviati segreti della televisione che vogliono vederlo nella sua vita vera e giudicare così la sua idoneità per entrare nella Casa. Queste spie restano sempre sfocate, indefinite, fantasmi immateriali prodotti dalla mente del protagonista. Davanti alla tv l’intera famiglia di Luciano assiste alla prima puntata del Grande Fratello e Garrone sceglie di tenerli fuori fuoco: Luciano è ormai troppo distante dalla realtà che lo richiama verso le proprie responsabilità di padre e di marito…

Reality è magnifico finché la dimensione fiabesca rimane sotto traccia, velata da uno sguardo impietoso sui miti culturali della provincia italiana. Il matrimonio iniziale, la vita di quartiere in una piazza napoletana miracolosamente ricostruita dallo scenografo Paolo Bonfini: da oscar), l’arrivo per il provino in una città che omaggia Fellini e contemporaneamente ne infanga la memoria, sono pezzi memorabili. Ne emerge il ritratto di un’Italia post pasoliniana in cui la tv ha sostituito la fede e la speranza – e ha deformato, tanto per esaurire le virtù teologali – il concetto stesso di carità; un paese cafone dentro, nei comportamenti e nelle psicologie. Quando Luciano si piega nel suo solipsismo, c’è il rischio che l’affresco antropologico sii riduca al ritratto d un’isolata patologia. Bel film, ma con un finale diverso poteva essere bellissimo.

“Pur non suscitando la stessa passione di Gomorra, il nuovo film di Garrone "'con la sua storia di un uomo che scivola nella pazzia per colpa della tv dei reality, coinvolgera' chiunque abbia mai studiato la cultura pop contemporanea o abbia mai guardato l'E Network.

"Metà dramma e metà commedia, fatica a trovare un tono tra personaggi stereotipati e una trama comoda, con accenni a Fellini e al neorealismo italiano che lasciano il gusto di una grande pizza riscaldata".

stando a quel che ho visto resto dell’idea che sia un film mal riuscito – perché di insostenibile pesantezza ideologica – sulla televisione e sul suo impatto sul popolo (sì, ritiriamo fuori questa parola, perdio). Oltretutto non c’è una vera narrazione,Reality illustra piattamente il suo enunciato di partenza e non riesca mai a sorprenderci, il ritmo è così allentato che si rischia di abbioccarsi e di scappare dalla sala. Certo, resta la mano registica di Matteo Garrone. Qua l’applauso ci vuole. Garrone conferma di avere uno stile forte e riconoscibile, sospeso tra realismo e deformazione grottesca e visionarietà, e qui fellineggia senza freni, mostrando di essere in certi momenti all’altezza del maestro

Verrebbe dunque da dire che non può esistere, per definizione, un film brutto di Garrone; questo perchè il suo sguardo - reso esplicito dal suo imporsi sui canoni della messa in scena - è sempre interessante, per natura, e perchè questa lavorazione lascia sempre emergere una personalità e un occhio così forti sugli eventi, da dominarli.
Eppure 
Reality è una delusione. L'idea di un uomo che inseguendo un sogno (di liberazione dai problemi economici) s'innamora dell'idea di piacere a qualcuno e del successo, prima ancora di riceverlo, ma solo per aver partecipato ad un casting, fa sì che la reality del titolo non sia solo l'indicazione di un genere televisivo: è anche quella realtà che il protagonista ad un certo punto perde di vista. Stimoli interessanti, buoni per quella valanga di articoli demagogici contro i reality show che arriveranno con l'uscita italiana, ma nulla più…

L’impressione, infatti, è che il film resti un po’ troppo sospeso e incapace di fare presa sul pubblico. È vero che tutto, nel plot, è stato progettato per conferire l’atmosfera di una fiaba: dalle bellissime musiche di Alexandre Desplat (che in questi stessi giorni a Cannes è stato celebrato col documentario Lezione di musica) ai colori, dalla festa di apertura con costumi carnevaleschi a Enzo in discoteca, che svolazza sopra la folla attaccato un cavo, come la fatina dei giorni nostri. Una celebrità il cui colpo di bacchetta potrebbe cambiare la vita agli anchilosati sudditi che lo acclamano a gran voce. Nonostante questa scelta di registro fiabesco, il film non può permettersi di restare così vago. In generale osa poco, gli artigli non entrano in profondità nel velenoso tessuto dell’apparenza, cosicché oltre a strappare qualche risata e un’amara riflessione sui costumi odierni, nulla di più crea negli spettatori, incapace della potenza esplosiva di “Gomorra”, incapace di coniugare una marcatura più virtuosistica, quasi alla Sorrentino, con un retaggio neorealista nella fotografia, che non di rado stona nel presentare l’incuria di alcuni esterni in confronto con la notevole attenzione per il lavoro sugli interni.

Matteo Garrone ha una visione chiara e strutturata della regia cinematografica. Trattando di un vaneggiamento nel contesto chiassoso, solidale, paradossale di Napoli, e del distacco nel sogno di una cosa, cerca una posizione giusta e attraente, diciamo una personale “realtà aumentata”, una prospettiva comunque diversa dal grottesco, dal pastiche o dalla satira. Anche per i detrattori, in questo senso, Reality diventa una commedia aperta a fruttuose scomposizioni e ricomposizioni tra gli specchi del “ventennio”, lasciando traspirare l’olezzo del virus. Non è un gioco. È un valore. L’aspirazione al Grande Fratello, quel bunker di eletti che ti cambia la vita se non sai che vita vuoi, tocca il pescivendolo Luciano in occasione d’un provino. Saracinesca e banco al quartiere Barra e un traffico di robot di cucina, vive l’attesa di una convocazione con spostamenti progressivi dal desiderio al delirio al desiderio delirante, fino a sentirsi “assente non giustificato” dal programma, scatenando una nevrosi di controllo che è comica, tragica e simbolica (la vendita della pescheria, il grillo che lo fissa in casa, la donazione ai poveri)…

4 commenti:

  1. Un film da vedere, dunque.
    Spero di trovare qualcuno che mi accompagni al cinema, che dire!!

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  2. un film da restare spesso a bocca aperta, e peggio per chi si perde questo film

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  3. Bello...appena visto, presto ne scriverò anche io!

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  4. un gran film, col tempo acquisterà più considerazione

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