il film è bello, ma qualcosa è troppo, troppa sfortuna per Stephanie, troppo dramma, troppa sfiga per Ali (che fa sempre parti di forzuto, un po' tonto, ma buono).
e poi, se posso, non ne può più delle scritte, come anche in questo film, "ispirato a una storia vera", come se con questo il film valesse di più.
detto questo, è un film che merita - Ismaele
…Come
spesso, nella filmografia di Audiard, corpo e spirito fanno tutt'uno, si
ammaccano e si rimarginano insieme, senza bisogno di troppe parole: al
contrario, la comunicazione, specie quella femminile, passa attraverso un
linguaggio muto ma intimamente comprensivo (qui è Stef che "parla"
con l'animale ma anche il "dialogo" sessuale che si approfondisce
senza l'uso di parole).
La macchina da presa del regista non è certo invisibile e le tesi, dietro il suo modo di filmare, sono sempre molto evidenti. Questo film non fa eccezione e anzi spinge più che mai sui contrasti manichei tra bellezza e squallore, forza e debolezza, spirituali e letterali, fin quasi alla maniera. Ma raggiunge un risultato non scontato laddove, pur essendo in realtà un lavoro molto scritto, dove tutto, fin dal primo istante, è pensato per tornare a domandar vendetta, la direzione degli attori e la qualità dei dialoghi ci distraggono magistralmente, facendo sì che non ce ne accorgiamo quasi mai. La capacità del miglior cinema di Audiard di scartarsi da un percorso troppo rigido o incline alla retorica, questa volta non si manifesta né a livello di soggetto né di regia ma si ritrova più sottilmente nelle pieghe della messa in scena, nei gesti e nelle espressioni degli attori.
La macchina da presa del regista non è certo invisibile e le tesi, dietro il suo modo di filmare, sono sempre molto evidenti. Questo film non fa eccezione e anzi spinge più che mai sui contrasti manichei tra bellezza e squallore, forza e debolezza, spirituali e letterali, fin quasi alla maniera. Ma raggiunge un risultato non scontato laddove, pur essendo in realtà un lavoro molto scritto, dove tutto, fin dal primo istante, è pensato per tornare a domandar vendetta, la direzione degli attori e la qualità dei dialoghi ci distraggono magistralmente, facendo sì che non ce ne accorgiamo quasi mai. La capacità del miglior cinema di Audiard di scartarsi da un percorso troppo rigido o incline alla retorica, questa volta non si manifesta né a livello di soggetto né di regia ma si ritrova più sottilmente nelle pieghe della messa in scena, nei gesti e nelle espressioni degli attori.
…Marion Cotillard alle prese con un ruolo
complesso e pieno di sfaccettature mostra di non essere solo la nuova diva
europea amata da Hollywood ma soprattutto una grande attrice: riempie lo
schermo di luce, con uno sorriso fragile, appena accennato, nonostante
l'incidente la dimezzi fisicamente (ottimo il lavoro di computer
graphic) la sua presenza
non è meno forte rispetto al pur bravissimo Matthias Schoenaerts. Questi, col
suo magnetismo naturale, trasmette un'ingenua sensibilità nelle prime sequenze
accanto alla devastata Stéphanie, dimostrandosi premuroso e attento nel non
trattarla come una disabile irrecuperabile, cosa che la donna non vuole essere.
La scena in cui l'ex-addestratrice di orche riprova, dalla sedia a rotelle,
quei fatali movimenti sulle note di "Firework" di Katy Perry è
un correre dello sguardo verso gli arti (le braccia) che si allungano verso il
cielo, verso l'alto, gesti forti e sicuri in un corpo mutilo che deve ritrovare
l'equilibrio interiore. Equilibrio che alla fine maturerà anche il suo compagno
di viaggio nella vibrante scena del salvataggio del figlioletto dal lago
gelato, dove le ossa delle mani si spappollano sul freddo ghiaccio e il sangue
è l'unica traccia che macchia e scuote il candore della sua incoscienza...
…On ne décide pas de réaliser un chef
d’œuvre. A
force de vouloir tout contrôler, jusque les émotions du spectateur, Audiard
s’enferme dans une mise-en-scène trompeuse qui ne laisse aucune place au hasard
tout en prétendant le contraire. Il y a
quelque chose de malhonnête dans la démarche comme dans sa façon de mener le
projet, ou du moins, le réalisateur semble s’égarer sur les choix qui
s’imposaient à lui. Cette peur de sombrer dans le ridicule, tapie sous la
volonté farouche de travailler chaque compartiment du film, empêche celui-ci de
se libérer pour mieux toucher au sublime, le caresser, tout du moins. Au final, le film agace plus qu’il ne
séduit, et l’arrogance de ses ambitions l’étouffe de bout en bout.
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