gli ultimi fra gli ultimi, vivono facendo i pastori di capre.
in Grecia la trojka ha deciso di punire il popolo greco, e quella famiglia di pastori va a fondo.
non ci sono troppe spiegazioni e un finale agghiacciante per un film di disperazione.
i soldi sono spariti e nessuno compra più le bestie, che ignare pascolano nelle campagne del paese.
più documentario che film di finzione, non lascia indifferenti.
cercatelo, in mezzo a tanti film inutili e /o inoffensivi, Sto lyko non si dimentica, sicuro.
buona (pastorale) visione - Ismaele
…tornando al film l'unica cosa che posso dire è di esser rimasto come ipnotizzato.
Il primo gregge ripreso per 5 minuti buoni, con
quei versi che, sentiteli, sembravano i lamenti della loggia di Eyes Wide Shut.
Quelle colline così spoglie, quegli interni così spogli, quei dialoghi sul
nulla. Lente carrellate a passo d'asino, una donna che calcia un riccio morto,
un'altra che non riesce a star ferma su una sedia ripresa per altri 5 minuti.
E intanto si parla sempre più di crisi, e
intanto quel'unico agnello che si doveva vendere non si vende più, e intanto
rimane solo pane raffermo da mangiare, e intanto ci si avvina verso la fine.
E anche uomini che sembravano aver lasciato,
durante gli anni, gli ultimi brandelli di umanità e pulsione lungo le strade
polverose di una vita senza strade laterali ad un certo punto hanno occhi che
sembrano bagnati.
E il film finisce così, e ti è sembrato già
bellissimo.
Poi c'è un'ultima inquadratura ferma che sembra
la solita natura morta dove scorreranno i pochi titoli di un povero film.
E poi senti il primo, e poi il secondo, e poi il
terzo, e poi il quarto e poi il quinto e poi il sesto e poi il settimo e poi
l'ottavo e poi il nono.
E urla di cani e pecore.
Il raggelante finale di un film magnifico.
Nato come documentario sul quotidiano di un remoto
villaggio greco, Sto lyko finisce
per scegliere di registrare l’accanirsi della crisi sugli ultimi: sui margini
rurali, su chi vive a stretto contatto con le materie prime, su chi abita agli
antipodi del simulacro finanziario e la cui economia è fondata, da sempre,
sulla mera sussistenza. Nessun romantico ritorno antimodernista allo stato di
natura, nessuna narrazione espiatrice. Chiari strumenti di fiction organizzano
quadri da documentarismo etnografico, scene in cui il gusto geometrico per la
composizione, l’agonia della durata e la cura del sound design pesano
concretamente sulla tragedia del reale. E la fanno pesare: s’innesca una
dialettica sconcertante tra la miseria crescente e incontrovertibile di questa
Grecia che s’estingue e le forme di un cinema arty impoverito, che sa di non
poter redimere il mondo e dunque lo sfrutta, estetizzandolo in questo
paradossale barocchismo della sottrazione e dell’immersione, riducendo il film
all’irrecuperabile progress di una natura morta, definendo questo mondo in un
finale allegorico d’effetto, che è l’evidente sineddoche di un’apocalisse.
Giulio
Sangiorgio
Sono sempre più affascinato dalle opere capaci di mettersi
dalla parte “sbagliata”, dall’incoscienza e dal coraggio di passare per
opportunisti o, peggio ancora, sciacalli. Per questo ho trovato piuttosto
interessante il documentario di finzione diretto Christina Koutsospyrou e Aaran
Hughes.
Il set è quello di un isolato villaggio fra i monti Nafpaktia nella Grecia
occidentale, i soggetti sono due famiglie di pastori in lotta per la
sopravvivenza in uno scenario desolato e in un epoca storica disgraziata per
tutto il Paese. Il film illustra la loro vita umile, il lavoro e le attese, gli
stenti e le difficoltà economiche al limite della sussistenza, la disperazione.
L’idea che muove gli autori è quella di raccontare un angolo marginale della
Grecia contemporanea con occhio documentaristico e su questo “romanzare” una
drammatizzazione della crisi economica che ha prostrato la nazione.
Koutsospyrou e Hughes trasformano in attori gli stessi soggetti “naturali”,
mettendo in scena una drammatica escalation d’insensata violenza capace di
giungere a un finale di rara inquietudine (non poi tanto distante, nel suo
cuore drammatico, al cinema del regista greco più interessante che oggi ci sia
in circolazione: Yorgos Lanthimos). Ovviamente tutto questo durante la visione non
è comprensibile: lo spettatore osserva un documentario all’interno del quale
solamente in alcuni frangenti la recitazione diviene evidente. La finzione è
esterna al film, in esso tutto è esposto con uno stile documentaristico
inducendo la convinzione di assistere a fatti reali. L’operazione è di indubbio
interesse e di sicura scabrosità perché moralmente al limite, e proprio in
questo risiede il fascino di Sto lyko (To the Wolf). •
Alessio Galbati
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