piccolo trattato cinematografico applicato sull'arte dell'omicidio.
omicidio puro e semplice, senza difficoltà e senza un motivo, così, per amore dell'arte dell'omicidio.
un giovane e allucinato Benoît Poelvoorde viene seguito dalla cinepresa, e si festeggia la morte, poi si va al bar a bere, in allegria, anche quando, per sbaglio, viene ammazzato un membro della troupe.
la troupe non solo documenta gli omicidi, a volte (o sempre) è complice.
visto due volte di seguito, merita davvero, questo gioiellino belga.
buona (assassina) visione - Ismaele
QUI si può vedere il film completo, in italiano
"Il Cameraman e l'Assassino è un
film atipico. Girato in un anacronistico bianco e nero da tre (aspiranti)
registi, è stato forse il primo mockumentary nel senso attuale del termine ad
arrivare al grande pubblico.
Perché film atipico, allora? Perché Il Cameraman
e l'Assassino sembra rifiutare, fondamentalmente, l'idea alla base del
mockumentary, ovvero quella di "cinema verità". In quest'opera manca
fondamentalmente l'idea di riflettere il reale: è esagerata, esasperata,
grottesca, iperbolica.
Una troupe di tre ragazzi sta realizzando un
documentario che racconti la vita di un killer. Il killer in questione si
chiama Ben che tra una bevuta e l'altra, una poesia e un pranzo in famiglia,
una visita a casa di amici e un incontro di boxe, uccide uomini e donne, vecchi
e bambini per poi rubare il loro denaro.
La troupe, che filma tutte le gesta dell'uomo,
si ritroverà a divenire complice dello stesso.
Ben, l'assassino, è un serial killer che vive ammazzando
e rubando i soldi delle sue vittime. Rubare però non è essenzialmente il motivo
per cui uccide: essere un assassino fa parte della sua natura, non più uomo ma
soggetto, che ha motivo di esistere proprio perché viene ripreso.
Narcisista, folle e logorroico, Ben si rivela un
fiume in piena di fronte la camera. Un essere spietato e persino affascinante
ma triste nel suo essere "ai margini", un outsider che non vede l'ora
di primeggiare e che trova nella troupe cinematografica un modo per farlo.
Ben non sembra provare veri sentimenti, uccidere
lo rende vivo ed è il proprio modo per auto-affermarsi, lo capiamo soprattutto
quando uccide volontariamente un suo amico sparandogli e poi continua a
mangiare un pezzo di torta come niente fosse, rendendo palpabile il terrore che
provoca nei suoi "seguaci" ma che si mischia con l'ammirazione degli
stessi.
La troupe lo segue. inizialmente lo fa con il
solo scopo di "raccontare" ma, lentamente, viene risucchiata dal
vortice di violenza che l'assassino rappresenta. Se inizialmente il suo scopo è
mostrare la realtà di un serial killer in maniera distaccata, in un secondo
momento diventa parte attiva delle attività di Ben, godendone in maniera
scellerata, arrivando ad aiutarlo prima con il suo silenzio e poi divenendo
parte attiva delle scelleratezze psicotiche dell'uomo. Se Ben è una forza
malvagia ma a tratti primordiale i membri della troupe sono l'umanità che da
quella malvagità si fa attrarre e possedere divenendone riflesso.
In uno dei momenti più belli e interessanti
della pellicola, Ben e la sua troupe si incontra/scontra con una troupe
televisiva.
La differenza tra i due gruppi non viene subito
colta dal killer che li definisce "colleghi". Al che Remy, il
regista, spiega la sostanziale differenza tra i due: "noi facciamo
CINEMA". Ecco, è in quella scena o meglio in questa frase che il senso di
un film come Il Cameraman e l'Assassino viene a galla. Il rifiuto del cinema
verità in un finto documentario, la consapevolezza di essere finzione, cinema,
un mezzo che la realtà la rielabora, così diverso dal mass media televisivo che
ha invece la pretesa di riproporla tale e quale. In una frase sola uno dei
capostipiti del mockumentary contemporaneo rifiuta l'idea stessa alla base del
mockumentary contemporaneo negandone l'essenza.
La succitata scena è però anche l'occasione per
rifiutare l'idea di una TV che pretende di raccontare la verità, un atto
denigratorio verso un mass media che spaccia una realtà contraffatta per
verità, senza sporcarsi, osservando di nascosto, dal buco della serratura. Un
confronto impari tra cinema (povero di mezzi) e televisione (ricca e
seducente), con il cinema che uccide il concetto di "spettacolo"
televisivo."
… “Il cameraman e l’assassino” gioca a carte scoperte, Ben sarà anche uno che parla di cinema e di architettura, quindi non
nasconde aspirazioni di cultura alta, ma poi è mosso dai più bassi istinti, quelli che ne fanno puro materiale da cinema perché andiamo, se fosse stato un colto professore impegnato a parlarci di cultura dalla poltrona di casa sua, come pubblico avremmo deciso di seguirlo? Si sa che il male ha un fascino maggiore, infatti Ben sembra saperlo, alla festa di Natale si veste da prete, si ubriaca e parte a sbraitare che è lui il cinema, non lo stanno cacciando
dalla
festa e lui che se ne va, e con lui, se ne va anche il cinema stesso, perché è
luiquello che mette in moto tutti gli eventi.
Che a ben guardare, sarebbe anche la verità, ma è il fatto che qualcuno continui a riprendere a rendere le sue azioni cinema, quindi quel certo grado di distacco iniziale con il passare dei minuti scompare. L’apice arriva quando i membri della troupe diventano complici di Ben, nella terribile scena dello stupro, me la ricordavo tremenda ma mi sono ritrovato ad annodarmi sulla poltrona del cinema Massimo, brrrr!
A quel punto vale tutto, perché la
distanza tra l’assassino,
chi lo riprende e noi spettatori che assistiamo (in parte complici) è stata azzerata, utilizzando un registro grottesco, sempre meno carico di umorismo nero con il passare dei minuti, “C’est arrivé près de chez vous” non finge mai di essere realtà. The Blair witch project era stato venduto al grande
pubblico come un vero nastro recuperato, found footage appunto,
il film di Rémy Belvaux ad una prima occhiata potrebbe passare per un falso documentario,
quando invece è tutta finzione, che ci chiede di riflettere sul nostro rapporto con la violenza sullo schermo, ma anche su come la realtà viene raccontata.
Proprio come Ben il film è pazzo, selvaggio, violento, volutamente cinico e disgustoso, ma siamo noi spettatori che decidiamo di diventare suoi compliciguardandolo…
…Ciò a
cui mira Ben non sono i delitti diretti alle persone più
facoltose, bensì volti alle più povere. Attaccare la gente comune per
Ben significa non essere catturato dalla polizia, non essere ripreso dai media
e di conseguenza non essere visibile dall’audience televisivo.
L’obiettivo dei reporter, invece, è
raggiungere lo scandalo, il clamore. Essi giocano con
l’orgoglio dell’assassino, spingendolo ad aggredire una famiglia di un
ricco sobborgo della città: il servizio sulla famiglia borghese sterminata nel
soggiorno della loro casa riversa più psicosi nella gente comune che uccidere
un senzatetto.
ll fine dei giornalisti è dunque filmare
ciò che accade davanti ai loro occhi, mettendo in scena il lavoro di Ben
chiedendogli di commettere un crimine ben preciso.
Dove risiede la moralità dei sicari e
dove quella dei giornalisti?
La barbarie in TV
Il fine dei media è pertanto trasmettere
storie squallide, perché sanno che lo spettatore non può fare a meno di
guardare. Provocano la violenza banalizzandola.
Se Quentin Tarantino, per
esempio, a proposito di questo argomento, ribatte da un lato sulla brutalità
nei suoi film che “la violenza nel cinema non è poi così
problematica, è un codice inteso come tale dallo spettatore che sa benissimo
che il mondo in cui si svolge il film è un mondo di finzione“,
dall’altro critica i media per la violenza delle loro
immagini, poiché sono ben radicati nella realtà.
Quando si guardano i telegiornali,
infatti, si sa che le immagini provengono dal mondo
reale e che la veemenza descritta è reale
e non messa in scena, ciò che è più colpevole agli occhi del regista americano.
Inoltre, guardando ‘Il cameraman e
l’assassino’ salta alla mente “Munich” di Steven
Spielberg, in cui il regista americano ripercorre la vera presa in ostaggio
degli atleti israeliani alle Olimpiadi del 1972 da parte di
terroristi palestinesi.
La cattura dei prigionieri si trasforma
poi in una strage quando i giornalisti, volendo seguire in
diretta l’intervento della polizia per fare audience, rendono un servizio ai
sequestratori che, con l’aiuto di una televisione accesa, riescono a monitorare
l’andamento delle squadre di intervento in tempo reale.
A forza di voler essere spettacolari,
i giornalisti a volte dimenticano le loro responsabilità verso la gente comune
e la deontologia che detta le regole del mestiere.
Ben, la forza del film
Possiamo così considerare che la forza de
‘Il cameraman e l’assassino’ risiede proprio in Ben, il protagonista.
Un uomo dalle molte qualità come il suo profilo culturale e la passione per
l’arte sopracitata, accompagnata da un atteggiamento arrogante e
intollerante.
Azzardiamo. Potremmo dire che in ogni
persona risiede un “Ben”: non siamo tutti assassini o razzisti, ma in
ognuno di noi si nasconde un lato negativo e spiacevole, testimone
dell’eterno dualismo bene-male.
Insomma, se siete curiosi e
non avete visto questo piccolo capolavoro, ‘Il cameraman e
l’assassino’ è da aggiungere velocemente alla vostra lista di pellicole da
scoprire.
Non è un film per tutti: come già
abbiamo accennato è un’opera molto forte, ma se amate il cinema di
genere che adopera un linguaggio audace, è una pellicola che
ricorderete a lungo!
“Questo non è un film sulla violenza. È
un film sull’arte di fare cinema. E il protagonista non è un assassino. È uno a
cui piace parlare davanti alla telecamera.” Con questa efficace sintesi, Rémy
Belvaux, in un’intervista, commentava, insieme ai suoi amici André Bonzel e
Benoît Poelvoorde, l’opera che avevano appena finito di girare: una pellicola
autofinanziata, a bassissimo costo, realizzata da tre studenti di cinema come
una provocatoria sperimentazione sul campo di quanto avevano imparato in un
corso sul documentario. È così, un po’ per scherzo, che il politicamente scorretto diventa una cinica storia
in cui si uccide per divertimento, per distrazione, per abitudine, per
fare scena, per vincere la noia. Un serial killer e
la troupe cinematografica che lo segue in diretta
diventano complici di una serie di omicidi crudeli ed assurdi, vissuti come
bravate, che all’inizio fanno sensazione, ma poi col tempo creano assuefazione,
diventando poco più che una fastidiosa routine. Alla fine,
a tenere vivo lo spettacolo, ormai scontato e ripetitivo, sono soltanto i fiumi
di parole che il protagonista riversa sulle immagini, raccontando di sé, delle
proprie gesta, delle proprie emozioni, anticipando l’eloquenza trash dei reality e
dei talk show. D’altronde, nella moderna società dei mass media, ciò che meno conta sono i fatti: l’occhio
dello spettatore vuole sì vedere, ma non importa cosa, e ciò che accade è, di
per sé, un dato anonimo, perché la verità è una questione di interpretazione,
il bene il risultato di un abbellimento retorico, il male la conseguenza della
denigrazione, la gioia il prodotto di una battuta che gira il tutto in burla.
Questo film rappresenta magistralmente il clamoroso paradosso su cui si fondano
le odierne politiche della comunicazione, che prescrivono di mostrare
tutto, e tutto camuffare, sovrapponendo all’orrido ghigno del mostro il
grottesco belletto di un clown che sorride.
Il film, premiato dalla critica al festival di
Cannes, suscitò, però, molte polemiche per la sua crudezza; fu sottoposto ai
tagli della censura e la sua distribuzione venne ostacolata. A metterlo in
ombra contribuì anche la contemporanea uscita di altre due opere altrettanto
“forti”, quali Le iene di Quentin Tarantino
e Benny’s Video di Michael Haneke. Oggi nessuno
parla più de “Il cameraman e
l’assassino”, che corrisponde perfettamente al cliché del film “maledetto”: è stato il primo e
unico film di Rémy Belvaux, che abbandonò il cinema subito dopo averlo
terminato, e morì suicida all’età di 39 anni.
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