Due coppie di lavoratori
intellettuali vanno a vivere lontano dalla città, in grandi casolari isolati,
nei pressi dei boschi. Una ha lasciato la Francia per l’entroterra della
Galizia; l’altra ha preferito le Alpi francesi di Grenoble al caos di Londra.
In cerca di riparo dalla crisi della civiltà occidentale, i coniugi abbandonano
le metropoli, dalle quali dovrebbero essere storicamente attratti, spostandosi
negli ambienti rurali. Nel sentire comune, la città si suppone essere l’habitat
più adatto per scrittori o professori come loro e per tutti coloro che
intendono occupare la scena culturale del loro tempo. Per analogia, le
periferie e le terre vergini dei piccoli borghi europei appartengono per
diritto di nascita a chi le abita senza velleità. Le due coppie, colte e
ambiziose, hanno occupato spazi ai quali non appartengono, scelgono di
oltrepassare il confine del loro ambiente sociale, mal riponendo le loro
speranze nelle forze redentrici dei luoghi giudicati incontaminati.
Questo anomalo movimento migratorio è il presupposto
che accomuna As bestas (2022) di Rodrigo Sorogoyen e Anatomie
d’une chute (2023) diretto da Justine Triet. Due differenti sguardi
sulla relazione fra centro e periferia, privilegio e marginalità, da una
prospettiva che guarda verso il mondo esterno a partire dall’interno dei nuclei
famigliari. Scorci paradigmatici su verità mai definitive e sempre ambigue
danno forma a un orizzonte instabile, dove gli attori che si arrogano il
compito di lottare per il bene comune non coincidono quasi mai con le
soggettività più bisognose di diritti e protezione. Si può rintracciare il
medesimo tema fra le righe di uno dei tanti livelli di lettura di The
Teachers’ Lounge (2023), l’ultimo film di Ilker Çatak. Una babele di
lingue, di culture, di valori e di rivendicazioni si muove fra la realtà e le
sue innumerevoli rappresentazioni virtuali, senza mai intersecarsi del tutto,
andando per negazioni e disgregando ogni tentativo di collettivizzare singole
istanze, singole verità, in lotte comuni e ideologie condivise.
Le due coppie, colte e ambiziose, oltrepassano il
confine del loro ambiente sociale, mal riponendo le loro speranze nelle forze
redentrici dei luoghi giudicati incontaminati.
Sorogoyen prende le mosse da una recente vicenda di
cronaca nera per guardare alla bestialità dei rapporti di potere fra esseri
umani. Sia il titolo As bestas sia la sequenza che apre il
film rimandano a una tradizione tipica di alcuni villaggi spagnoli, durante la
quale si tagliano le criniere dei cavalli selvatici, come primo atto di
domesticazione. I protagonisti Antoine e Olga sono coloni francesi, esportatori
di senso civico e cultura ambientalista in un territorio praticamente deserto,
dove gli animi dei pochi nativi che lo abitano sono accesi solo dalla miseria
intellettuale e da una frustrante sete ti rivendicazione, priva di
consapevolezza. Antoine è un professore universitario appassionato di viaggi.
Durante una vacanza nelle montagne galiziane, sdraiato su un prato sotto il
cielo stellato, decide che quello è il paradiso e sceglie di vivere il resto
della sua vita proprio lì, in quella terra infernale per chi la abita da
generazioni. Sua moglie Olga adegua i suoi sogni a quelli del marito e lo
segue. I due coltivano la terra, ne vendono i frutti e restaurano vecchi ruderi
abbandonati, nel segno del contrasto allo spopolamento delle comunità rurali.
Xan e Lorenzo sono i loro vicini, due fratelli che spalano letame in una
stalla, dalla mattina alla sera. Xan è violento e prepotente; Lorenzo è una
persona con disabilità mentali ed è l’ombra del fratello. Dopo il lavoro, si
ritrovano insieme ai pochi altri abitanti del villaggio nell’unica locanda del
paese, a ubriacarsi prima di andare a dormire.
Con diverse sequenze ambientate anche in quella
locanda, frequentata solo da uomini, Sorogoyen introduce lo spettatore alle
tensioni fra gli allevatori e il professore. Nel villaggio spagnolo aleggia la
proposta economica di un’azienda interessata a costruire un parco eolico, in
cambio di un risarcimento economico agli abitanti del territorio. Per i
fratelli Xan e Lorenzo l’offerta sembra l’unica alternativa possibile al fetore
che ogni giorno li accompagna anche fuori dalla stalla dove lavorano. Antoine e
sua moglie Olga stanno dal lato opposto della barricata, non accettano la
proposta e con la loro diserzione scelgono anche per gli altri compaesani. I coniugi
credono di sapere cosa sia più giusto per quella terra e i suoi abitanti,
esattamente come Xan e Lorenzo. Le loro verità sono pronunciate in lingue
diverse, con registri linguistici diversi, non trovano mai un accordo o una
ragione da condividere. Antoine si mostra sprezzante verso i due fratelli
persino mentre tenta di difendersi, intento a insegnargli leggi e norme sociali
entro le quali è consentito confrontarsi o proteggersi. Xan e Lorenzo conoscono
altre regole e sfogano tutto il loro innato rancore su di lui: dalle
intimidazioni alle aggressioni, fino ai danni al raccolto dei terreni di
proprietà della coppia francese. Antoine si difende portando sempre con sé una
videocamera, come se l’imparzialità di un occhio meccanico fosse l’unica fonte di
prove inconfutabili, l’unica arma eticamente valida da utilizzare.
Le loro verità sono pronunciate in lingue diverse, con
registri linguistici diversi, non trovano mai un accordo o una ragione da
condividere.
Le loro divergenze si acuiscono fino a concretizzarsi
in violenze efferate, con il benestare omertoso delle autorità locali. La
giustizia non fa il suo corso come si deve, ma Olga non desiste
nell’indirizzare le indagini verso una pista da seguire. In quel villaggio
della Galizia si salva solamente la propensione di Olga alla cura, che preserva
risolutamente fino alla fine del film. La devozione per il progetto avviato con
il marito e l’amore per lui la portano a scontrarsi con sua figlia, rimasta in
Francia. Una delle sequenze più intense di As bestas pone il
tema della cura secondo due differenti prospettive generazionali: due femminili
in contrapposizione. La giovane è convinta di sapere cosa sia meglio per la
madre, la esorta a seguirla in città per vivere una nuova fase della sua vita
al suo fianco, come nonna di suo figlio. La giudica per le sue scelte e per
come non sia stata capace di autodeterminarsi. Olga non accetta di essere
attaccata, risponde di averle insegnato il rispetto delle scelte altrui e le
rimprovera di sentenziare a sproposito sul suo matrimonio. Il tipo di relazione
che ha legato Olga e Antoine – leale, stoico, infinito – parrebbe essere fuori
dalla portata della figlia: la sua verità sull’amore è un’altra.
In Anatomie d’une chute la coppia non
è fortificata da un amore romantico e cavalleresco, ma è lacerata da una lunga
crisi. Sandra è una scrittrice tedesca, Samuel un insegnante francese. Daniel è
il loro figlio ipovedente e tutti insieme vivono in uno chalet. Triet sceglie
di gettare lo spettatore dentro le dinamiche tossiche di un matrimonio in
crisi, sin dalle prime sequenze. Con lo scopo di intervistare Sandra sul suo
ultimo libro, una giornalista si trova nel grande salotto al piano terra del
caseggiato, tentando di sovrastare le note di “P.I.M.P.” di 50 Cent,
proveniente dal piano di sopra, dove si trova il marito. La scrittrice appare
quasi indifferente alla condizione ostile nella quale sta ospitando la
giornalista e si trova a rispondere alle sue domande con un tono sfidante,
provocatorio, fino a quando risulta impossibile restare indifferenti al
frastuono. L’intervista si interrompe e inizia il dramma entro una
cornice molto precisa, con al centro le triangolazioni affettive di una
famiglia e i suoi fragili componenti. Sandra sostiene di poter scrivere
ovunque, in qualsiasi contesto, a differenza del marito. Samuel è alla ricerca
dell’ispirazione che potrebbe farlo diventare, a tutti gli effetti, uno
scrittore, proprio come la moglie. La scelta di ritirarsi nelle montagne fra la
Francia e l’Italia deriva dal tentativo di alleviare i sintomi depressivi che
turbano il coniuge, aspirante romanziere. Eppure, nonostante l’isolamento, la
coppia non risolve né la crisi matrimoniale, né il blocco dello scrittore da
cui Samuel è affetto.
Anche in Anatomie d’une chute la
figura dell’intellettuale non trova un vero riparo fra i boschi di montagna
innevati.
Anche in Anatomie d’une chute la
figura dell’intellettuale non trova un vero riparo fra i boschi di montagna
innevati. Samuel precipita da una finestra e Sandra viene accusata di averlo
ucciso. I magistrati, gli avvocati, i giornalisti, gli opinionisti, gli altri
scrittori, l’opinione pubblica e gli haters affermano di sapere come si possa
arrivare alla verità sulla fine della loro storia d’amore, sul fatto che ha
ribaltato le sorti di Sandra e suo figlio Daniel. Se in As bestas sono
i montanari galiziani ad accanirsi su Antoine e Olga, in Anatomie d’une
chute Sandra è vittima del giustizialismo mediatico. Nelle TV e sui
social media la sentenza è stata emessa ben prima della fine del processo,
stabilendo scientificamente le dinamiche che hanno portato alla crisi del loro
matrimonio e alla morte di Samuel. Si prendono le misure per stabilire cosa sia
vero, cosa no e come fare a discernere l’uno dall’altro a discapito
dell’equibrio psicologico di Daniel, coinvolto come testimone nel processo per
omicidio e che vede la madre come imputata. Le procedure giudiziarie impongono
un rigido protocollo da ottemperare non tanto per tutelare il minore, quanto
l’oggettività delle sue deposizioni. L’allontanamento da Sandra e l’intervento
di un’assistente sociale non proteggono Daniel dalla meticolosità maniacale
della polizia scientifica, né dall’esposizione mediatica. La pornografia del
dolore lo coinvolge direttamente, senza riserve. Daniel è costretto a conoscere
i segreti dei suoi genitori e a rivivere il giorno in cui ha trovato il
cadavere di suo padre sulla neve, per tutta la lunga durata del processo, in
nome della verità.
Come accade sui social media, anche durante le udienze
è preso per vero solo ciò che si sceglie di mostrare: una porzione della realtà
e non la sua complessità, confondendo la parte per il tutto.
A partire dalla condotta adultera, l’accusa sostiene
che Sandra fosse insofferente nei riguardi del marito e della sua depressione.
I suoi libri sono presi in esame e confondono l’autrice con la protagonista, in
un unico personaggio. Brani dei romanzi scritti dall’imputata, messaggi vocali
aggressivi e la testimonianza di un bambino ipovedente si annoverano tra le
prove portate in tribunale. Per comprendere se si tratti di un suicidio o di un
assassinio, si indaga sull’origine della crisi matrimoniale fra i due coniugi
con la stessa pedanteria con la quale un manichino viene gettato ripetutamente
giù dalla finestra dalla quale è precipitato Samuel. Durante le udienze,
nonostante sia tedesca, Sandra è interrogata in lingua francese e fatica a
spiegare agli inquirenti che non esistono certezze assolute sul loro
matrimonio, ma solo fasi, momenti, dialoghi, punti di vista, come in tutte le
relazioni. Sezionare i sentimenti umani, come se potessero essere sottoposti ad
autopsia, conduce le indagini verso piste fuorvianti, dalle quali si ricava
solo una deduzione: l’ossessione per la verità oggettiva che appartiene alla
nostra epoca. Sin dall’intervista con la quale si apre il film, Sandra è
refrattaria a ogni domanda: manifesta sentimenti conflittuali, edulcorati dalla
strategia difensiva dei suoi avvocati. Il tribunale è il teatro nel quale
l’accusa, i testimoni e gli imputati sono indotti a recitare ruoli che non
coincidono con il loro personaggio reale. Come accade sui social media, anche
durante le udienze è preso per vero solo ciò che si sceglie di mostrare: una
porzione della realtà e non la sua complessità, confondendo la parte per il
tutto.
In una scena di The Teachers’ Lounge, la
scritta “La verità vince su tutto” campeggia sull’aula dove gli studenti
di una scuola di provincia in Germania si riuniscono per lavorare alla
redazione del giornale scolastico. La protagonista del film è Carla Nowak, una
giovane insegnante polacca, entrata da poco a far parte dell’istituto. Çatak la
presenta come un’ingenua idealista, ancora ignara di cosa possano essere capaci
i suoi studenti e i colleghi. Carla si ritrova a difendere un suo alunno di origini
turche, indagato dal corpo docente perché ritenuto l’autore di una serie di
furti avvenuti nelle mura scolastiche. Durante una sorta di interrogatorio, i
genitori dell’alunno imputato accusano la preside e gli insegnanti di adottare
misure tendenziose, corrotte da un razzismo introiettato e normato,
giustificato dalla necessità di lavorare per la sicurezza di tutti, per il bene
dell’intera scuola. Nowak non vuole essere associata alla condotta dei suoi
colleghi e tenta di smarcarsi dallo sguardo rimproverante dei genitori del suo
alunno, erroneamente indagato. L’insegnante aspira a essere un modello positivo
e intende smascherare il vero colpevole dei furti per eliminare ogni forma di
pregiudizio dai metodi educativi.
Nel tentativo di fare giustizia, Carla Nowak sembra
accesa da una vocazione, illuminata da una visione della morale che ha sete di
verità assolute. Dialoga scegliendo ogni parola con minuziosità per muoversi
sempre nel solco di una traccia, eticamente impeccabile, che lei stessa si
impone per rivestire il ruolo di educatrice. L’approccio didattico adottato per
i suoi studenti è improntato sul dialogo paritario, predilige l’orizzontalità
relazionale, apparentemente all’avanguardia. Carla crede di aver creato un buon
clima nella sua classe, ma i suoi alunni sembra che fingano solamente di
stimarla. La professoressa Nowak se ne accorge poco per volta, manifestando il
suo disagio in un crescendo che esplode in diverse scene cruciali, dalle quali
il film è cadenzato. In una di queste, ambientata nei bagni dell’istituto,
Carla svuota un cestino dei rifiuti, recupera il sacchetto di plastica e ci
respira dentro, cercando di rimediare a un attacco di panico, accovacciata per
terra. I suoi alunni sono razzisti, manipolatori e arrivisti proprio come i loro
insegnanti e i loro genitori. La stessa redazione del giornale scolastico
antepone il sensazionalismo alla verità sui furti o sulla cultura del
controllo, imposta dal corpo docente. Gli studenti non hanno riguardi nei
confronti dei loro pari, così come i genitori non hanno alcuna clemenza nei
confronti della docente protagonista.
Per Carla non esiste via d’uscita perché la
scuola assomiglia ad un panopticon, elegante e confortevole, dal quale si entra
e si esce solo per coercizione. L’istituzione scolastica è metafora di un
laboratorio che educa al sospetto, all’ipocrisia e all’egoismo.
Per Carla non esiste via d’uscita perché in The
Teachers’ Lounge la scuola assomiglia ad un panopticon, elegante e
confortevole, dal quale si entra e si esce solo per coercizione. Il mondo
esterno si intravede filtrato dalle finestre delle aule o durante gli
inseguimenti dei fuggitivi. Nel film di Çatak l’istituzione scolastica è
metafora di un laboratorio che educa al sospetto, all’ipocrisia e all’egoismo.
In un’altra scena cardine del film, la protagonista è ritratta in un primo
piano stretto sul viso arrossato dallo sforzo, mentre urla insieme all’intera
classe, in una sorta di rito incivile, l’unico capace di dare sfogo al disagio
esistenziale che opprime sia gli alunni, sia i docenti. Esattamente come
un microcosmo in scala della società contemporanea, nella comunità scolastica
sembra che non sia possibile fare affidamento sui propri simili, lasciando che
ogni forma di patto sociale si deteriori fino al collasso. Carla sembra
volersi immolare come una martire, ultima portavoce dei lumi della ragione e
dell’etica senza religione della civiltà occidentale. Si rivolge ai suoi
studenti coi gesti di un direttore d’orchestra, come se volesse indirizzare le
loro esistenze verso un equilibrio armonico, fino ad assistere al loro
ammutinamento, quando gli studenti non rispondono più ai suoi
comandi. Nessun dio, nessuna etica e nemmeno semplici regole
comportamentali tengono insieme la scuola e i suoi attori, ma solo il cinismo
di chi riesce a stare dentro le maglie della burocrazia.
Come in As bestas, anche in The
Teachers’ Lounge una videoregistrazione, l’imparzialità di un occhio
meccanico, è l’arma etica scagliata da Carla per fare giustizia nella scuola.
Sceglie di cercare le prove per dimostrare l’innocenza dei suoi studenti,
finendo per violare le leggi sulla privacy. Se adotta uno strumento per la
rilevazione di un fatto oggettivo, è perché Carla crede che la verità possa
essere dimostrabile. Nell’ambito di una lezione, la Nowak spiega ai ragazzi la
differenza tra un’affermazione e una dimostrazione, ma l’etica appartiene sempre
a una qualche forma di pregiudizio e non dipende da alcun algoritmo. Sebbene
nessuna verità morale assoluta possa essere effettivamente dimostrata, agli
studenti si insegna la formula della “tolleranza zero” per chi non rispetta le
regole dell’istituto. La privacy è sacra, ma la sorveglianza costante, per il
bene di tutti, risulta necessaria; il benessere dei ragazzi è prioritario,
quanto l’allontanamento forzato di chiunque manifesti del disagio. Çatak
parla della fine della civiltà europea e dell’ipocrisia dei valori occidentali
sopravvissuti, almeno formalmente, nelle forme ambigue delle norme e del
galateo, binari entro i quali muoversi, fingendo di non vedere ciò che accade
fuori dalle mura scolastiche, nel mondo al di fuori, tema al centro di The
Zone of Interest (2024) di Jonathan Glazer, dove la paura di perdere
il radicamento alla verità, al dominio etico su ciò che è giusto e ciò che è
sbagliato, trova il suo fondamento sul dolore delle soggettività ai
margini.
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