i militari inglesi (e i mercenari inglesi) sono in prima linea nell'esportazione della democrazia.
Ken Loach e Paul Laverty raccontano la loro storia a partire da un fatto capitato in Iraq, l'omicidio a freddo di civili (come fanno gli israeliani, ca va sans dire).
a Liverpool si capisce cosa è successo dopo l'omicidio di un soldato inglese da parte di un altro soldato, e da lì parte una storia di vendetta, una forma primitiva di giustizia.
come tutti i film di Ken, non vederlo è un peccato.
buona (vendicativa) visione - Ismaele
ps: la Route Irish del titolo è quella dove è stato assassinato Nicola Calipari.
QUI il film completo, su Raiplay
"Potrebbe essere un thriller di denuncia, ma Loach usa il
cinema di genere a metà e un po' come uno specchietto per allodole. Il punto
non è cosa è successo a Bagdad, ma cosa accadrà a Liverpool. E l'import-export
dell'orrore che ci fa capire cosa accade ogni giorno, qua come là, nelle teste
di chi torna (se torna). Anche perché l'elettrico Fergus a sua volta
ex-contractor, userà contro gli ex-superiori per cui la guerra è solo un
business, gli stessi metodi usati in Iraq. Tortura compresa, in una scena
sobria e agghiacciante che mette lui (e noi) su una falsa pista, perché il
torturato dice qualsiasi cosa pur di finirla... Così, a differenza che in un
qualsiasi thriller teso e rassicurante, qui la verità emerge ma non trionfa.
Ogni scoperta conduce a un'altra, peggiore. Ogni passo avanti nell'indagine
spinge Fergus un po' più in basso. Dovevamo esportare democrazia, invece
abbiamo importato barbarie. La giustizia è un mito. Non ci sono più eroi,
nemmeno negativi. La guerra è dentro di noi. Peccato solo che Loach e il suo
fedele sceneggiatore Paul Laverty, malgrado la consueta sensibilità e
attenzione per comprimari e sottotrame (...), pur di non accordare un grammo di
fascino (e di profondità) ai cattivi della storia, finiscano per creare
personaggi un poco simbolici dimostrativi. Come un teorema." (Fabio
Ferzetti, 'Messaggero', 20 maggio 2010) "Be' allora ditecelo, gli autori
del pianeta, da Kiarostami a Kitano, da Tavernier a Oliver Stone, da Iñarritu a
Ridley Scott si sono messi d'accordo per non sfigurare, per non perdere la
media del sette e mezzo, neanche per eccellere. Bel festival, non puoi liquidarlo,
non puoi esaltarlo. E Ken Loach? Idem con patate. 'Route Irish' (in concorso),
denuncia della licenza di uccidere dei mercenari d'Iraq, è un thriller
scalettato per pilotare contraddizioni e responsabilità della guerra alla prova
della verità. Laggiù c'è una guerra parzialmente privatizzata. Sono 160mila gli
agenti ingaggiati, e 50mila armati fino ai denti. Guardie di sicurezza, dicono,
di aziende e personalità, ma sono stati protetti da vergognose illegalità, dal
2003 al 2009, dall'articolo 17, scaduto solo formalmente. La strada irlandese
del titolo, verso l'aeroporto di Bagdad, è la più pericolosa. (...) Studiato
dal fedele sceneggiatore Paul Laverty come pugno nello stomaco, si allinea a
'Nella valle di Elah', ma è privo della forza metaforica del film di
Haggis." (Silvio Danese, 'Nazione-Carlino-Giorno', 20 maggio 2010)
"Ken Loach, il concorrente last minute d'eccellenza, è esploso in uno dei
suoi lavori più rabbiosi degli ultimi anni. 'Route Irish', la maledetta via
dove Calipari fu ucciso e la Sgrena ferita, è il titolo del suo nuovo
cine-attacco alla guerra, ovvero il 'luogo sbagliato al momento sbagliato' in
cui Frankie, un contractor di Liverpool assoldato nel conflitto, salta per
aria. Mercenari, gente pagata anche (soprattutto?) dai cartelli appaltatori
della ricostruzione, soldati 'off' senza scrupoli se non quelli dell'ordinanza
17 (dopo il secondo sparo di avvertimenti, puoi trucidare chi ti pare) e che
quando muore non merita la Union Jack sulla bara. (...) Del testo del fidato
Laverty si imprimono i 'fucking' (almeno uno ogni tre parole) e della regia
frettolosa di Loach la condanna senza appelli alle guerre e ai loro
mercanti." (Anna Maria Pasetti, 'Il Riformista', 21 maggio 2010) "Per
una volta l'infedele traduzione italiana del titolo rischia di rivelarsi un
aiuto per lo spettatore. Trasformare il titolo originale 'Route Irish' (nome
convenzionale dato alla strada che collega Baghdad con il suo aeroporto, a
detta dei militari una delle più pericolose in assoluto perché indifendibile
dagli attentati) come ha fatto il distributore italiano in 'L'altra verità', è
un modo per indirizzare lo spettatore verso il cuore del film. (...) Il nodo
del film di Ken Loach è tutto negli ambigui comportamenti di chi recluta i
contractor e nel 'monstrum legale' dell''Ordine 17', una disposizione imposta
al Parlamento iracheno dalle autorità provvisorie d'occupazione che garantiva
l'immunità dalle leggi locali a questi 'soldati privati'. Al regista inglese e
al suo sceneggiatore Paul Laverty (...) interessa svelare questo stato di cose,
i soprusi e i delitti che si compivano quotidianamente per difendere degli
interessi che non avevano niente a che fare né con la pace né con la stabilità
internazionale. È forse la parte più interessante del film quella in cui Fergus
passa dai sospetti alle certezze, coinvolgendo nella sua ricerca anche un
musicista/traduttore iracheno e soprattutto Rachel, la vedova che prima vedeva
nel protagonista una specie di sovreccitato attaccabrighe e che poi capisce che
forse solo da lui può arrivare un''altra verità'. Quello che invece riesce meno
a Loach è mettere insieme due logiche in qualche modo antitetiche: da una parte
quella del film d'azione e di detection, costretta a tenere sempre alta la
tensione per coinvolgere lo spettatore nella ricerca della soluzione;
dall'altra la necessità di spiegare e far capire i meccanismi politici (e
militari) che sono alla base del lavoro dei contractor. La prima logica ha
bisogno di colpi di scena, di tensioni forti, di scene ad effetto; la seconda
avrebbe bisogno di più calma, una maggior lentezza narrativa, una più
approfondita disamina dei fatti. Loach sceglie decisamente la prima e cade
nell'errore di spettacolarizzare ogni cosa, anche quelle che non ne avrebbero
bisogno." (Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 19 aprile 2011)
"Presentato in concorso a Cannes un anno fa, il film di Loach ne ha
spiazzato soprattutto gli estimatori, stupiti che il regista e lo sceneggiatore
dei suoi film migliori, Paul Laverty, si siano spostati sul terreno scivoloso
del 'revenge movie', il film di vendetta tradizionalmente più congeniale a
Stallone, Schwarzenegger e relativi epigoni che non a un autore di sinistra
conclamato. La messa in scena della violenza, in effetti, non fa sconti allo
spettatore; inclusa la tecnica di tortura legalizzata che i mercenari
infliggevano alla popolazione irachena. Portando all'esasperazione la tensione
del protagonista (lo interpreta con rabbia convincente Mark Womack, attore
televisivo), Loach e Laverty rivisitano le figure più codificate del thriller
paranoico; anche il personaggio di Rachel (Andrea Lowe, al debutto nel cinema),
la donna al bivio tra due uomini e che un tempo li ha separati, appartiene a un
repertorio ben noto. E' come se regista e sceneggiatore (insolitamente disposto
ai dialoghi didascalici) si preoccupassero di essere il più chiari possibile
nella loro denuncia, scegliendo perciò di adottare le convenzioni del cinema
popolare. A differenza del quale, però, non esiste qui la catarsi che eroicizza
il vendicatore come nei thriller reazionari di Hollywood. 'L'altra verità',
anzi, è traversato da un pessimismo integrale, ai limiti del nichilismo.
Perfino la macchina da presa del grande direttore della fotografia Chris Menges
è arrabbiata, e lo è a freddo; nervosa e destabilizzata, gira intorno a se
stessa come cercasse di controllare il terreno e di proteggersi le spalle. Un
Loach diverso? Non così tanto: se in "Terra e libertà" il regista
rivisitava la guerra di Spagna con aperture al romanticismo, 'Il vento che accarezza
l'erba' (Palma d'oro a Cannes ne12006) raccontava già il conflitto armato in
Irlanda con estrema violenza e ben poche speranze nell'umanità." (Roberto
Nepoti, 'La Repubblica', 19 aprile 2011) "Magari significa qualcosa che
nessuno dei film sulla guerra in Iraq e dintorni sia andato bene al botteghino,
anche quando c'erano dietro star di prima grandezza. (...) 'L'altra verità' è
la storia dell'indagine privata, sempre più serrata e ossessiva, che Fergus,
sentendosi in colpa per la morte del sodale, istruisce alla sua maniera
paramilitare, quasi trasferendo nella Liverpool che fu dei Beatles la logica
stringente della guerra a Bagdad. Bisogna infatti sapere che, al culmine
dell'occupazione, quasi 160 mila 'contractor', dei quali 50 mila armati fino ai
denti, trovarono lavoro in Iraq. (...) Tranquilli: non c'è Rambo di mezzo,
anche se qualche critico, da Cannes 2010, rimproverò Loach di aver applicato il
teorema con notevole schematismo, dividendo i personaggi tra buoni e cattivi,
girando un film più sensibile alle regole del thriller d'azione che alle
patologie disfunzionali prodotte dal disturbo post-traumatico da stress. Non è
così. In un film americano l'eroe raddrizzatorti alla fine rientrerebbe
tranquillamente nei ranghi dopo aver fatto giustizia, in 'L'altra verità'
l'agire furente di Fergus è avvelenato da errori, torture e coazioni a
ripetere. «Meglio abbatterlo un cane rabbioso, prima che uccida qualcun altro»:
è la consapevolezza alla quale approda il guerriero ormai persosi nelle tenebre
di una vendetta personale, contraddittoria, figlia della stessa abiezione che
si voleva combattere." (Michele Anselmi, 'Il Riformista', 19 aprile 2011)
"Attenzione a non trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato, per
di più sulla strada più pericolosa del mondo. (...) Pur senza appartenere al
Loach più ispirato, 'L'altra verità' ha un respiro di racconto forte e sincero,
lanciato nelle convulsioni della denuncia strutturata sull'estreme conseguenze
di un comportamento da rivalsa senza perdono. A tortura si risponde con la
tortura magari usando l'acqua secondo l'ipocrita presunzione-alibi del 'niente
sangue niente peccato', a un assassinio si replica con un omicidio. Le rampogne
di rambismo rivolte a Loach sono fuori luogo perché la sua macchina da presa dettaglia
proprio le emozioni di 'rambi' spaesati che reagiscono soltanto secondo quanto
hanno imparato in addestramento e in battaglia. E' davvero un Ken Loach
implacabile, probabilmente indotto dalla foga a osare oltre misura, ma non si
gli può certamente rimproverare di non aver allestito un thriller teso e
convincente, così come non ci si può accorgere soltanto con "L'altra
verità" che le sue sequenze possiedono il metronomo, lo stile e l'impulso
dello schematismo manicheo. Anche se in realtà Bene e Male sono categorie
escluse a priori dentro la perlustrazione della più controversa guerra
contemporanea che Loach prende di petto nella sua totale repulsione verso
l'impunità del potere." (Natalino Bruzzone, 'Il Secolo XIX', 19 aprile
2011) "La guerra è sempre più un affare privato. E l'orrore non può che
peggiorare. Ken Loach sente l'urgenza di condannare l'inferno nell'inferno,
esplodendo di rabbia in un film frettoloso, frenetico, imperfetto. Su
sceneggiatura del solidale Paul Laverty, si concentra sul conflitto
'mercenario' in Iraq e confeziona 'Route Irish' (diventa da noi il polivalente
'L'altra verità') a rievocare il maledetto tragitto Baghdad - aeroporto dove
troppi - incluso Calipari - perdono ancora la vita. (...) Loach affila il
coltello, e se stavolta non affonda in un cinema esemplare, riesce comunque a
colpire la mal politica estera di Sua Maestà ed alleati. Anche noi." (Anna
Maria Pasetti, 'Il Fatto Quotidiano', 21 aprile 2011) "La violenza come
malattia infettiva, l'Iraq come stato della mente. Ken Loach abbandona per il
momento i proletari inglesi per concentrarsi su un microcosmo che rimanda a
inquietanti scenari internazionali. Ma non lo fa, purtroppo, con la compattezza
e il rigore ai quali ci ha abituati." (Alessandra De Luca, 'Avvenire', 22 aprile
2011) "Una storia, piuttosto intricata, di illegalità e doppi giochi tra
Liverpool e Bagdad. (...) Per tenere desta l'attenzione una scena di tortura di
intollerabile sadismo e un insistente, inutile turpiloquio." (Massimo
Betarelli, 'Il Giornale', 22 aprile 2011).
…Gracias a la independencia de Loach para con el
mainstream de nuestros días, en buena medida un enclave bobalicón y convalidante
de las injusticias aquí denunciadas a través de la producción de películas
fascistoides, huecas y/ o lobotomizadoras, La Verdad a Cualquier
Precio sin duda termina siendo un oasis de la militancia
cinematográfica en pos de una sociedad mucho más igualitaria y justa que la
presente, empezando por reconocer la violencia ejercida por los estados
actuales contra sus ciudadanos de menores recursos y -en el caso del Primer
Mundo- contra sus homólogos de países empobrecidos y asediados tanto por las oligarquías
autóctonas como por sus “compinches” de siempre de las empresas
transnacionales. El convite va más allá de simplemente enfatizar la brutalidad
de la guerra porque logra poner de relieve a cada uno de los agentes que
intervienen en este reparto del botín cual pandilla de maleantes de un western
norteamericano, por supuesto sin dejar pasar el papel fundamental que asimismo
tienen los yanquis en esta serie de barbaridades (tortura constante de
prisioneros, asesinatos por doquier, operaciones solapadas en cualquier región,
bombardeos cruentos, impunidad internacional, etc.). A partir de una exquisita
actuación de todo el elenco y una fotografía cruda y necesaria, Loach vuelve a
entregar un trabajo que se ubica a años luz en materia de una conciencia política
acorde con la lucha de clases y en favor de los desposeídos, sin maquillar las
atrocidades cometidas por los estados y el capital y condenándolas en pos de
que se llegue a una unidad social que permita dar de baja a esta ristra de
ególatras dementes, homicidas y mezquinos que nos siguen gobernando…
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