un film politico e operaio (con il ricordo di Elio Petri e Gian Maria Volonté negli occhi dello spettatore), dedicato allo scrittore Alessandro Leogrande, moerto a soli 40 anni (il film si ispira a un suo libro).
Caterino (Michele Riondino) è un uomo qualunquista e senza qualità, che si adatta a fare la spia per il padrone, o il suo direttore del personale (impersonato da Elio Germano).
il film è ambientato nell'Ilva di Taranto, nella quale il mobbing e il confinamento dei mobbizzati in una palazzina all'interno dell'area industriale era sviluppato in quantità industriale.
Caterino, credendo di arrivare al paradiso del non far niente, viene mandato lì con l'incarico di spia, di colleghi mandati lì a morire di noia, umiliati e offesi, in attesa delle loro dimissioni o pazzia.
la fabbrica è gestita con la paura, e la palazzina Laf è la ciliegina sulla torta dell'orrore dell'istituzione totale (Michel Foucault insegna).
opera prima di Michele Riondino, con una sceneggiatura implacabile, con attori convincenti e anche più.
non perdetevelo, merita molto.
buona (inquietante) visione - Ismaele
…La sceneggiatura, dello stesso Riondino saggiamente affiancato dall'esperienza di Maurizio Braucci, non fa sconti a nessuno e crea dinamiche relazionali allo stesso tempo credibili e lunari. E a fare la differenza nel raccontare questa storia è la volontà di non farne semplicemente un "film a tema" ma un lavoro artistico che trova la sua originalità in una serie di scelte molto precise di regia, di montaggio (del bravissimo Julien Panzarasa) e di commento sonoro minaccioso e incombente (le musiche originali sono di Teho Teardo, la canzone finale è di Diodato, che ha origini tarantine).
Dalla scena in cui Caterino emerge con un occhio nero alle visioni (o
anticipazioni temporali) che precedono e preconizzano le conseguenze delle
azioni in scena, Palazzina Laf costruisce in modo asciutto
ed essenziale, ma mai minimalista o documentario, la parabola di un Giuda
inconsapevole che è a suo modo anche un povero Cristo. E finalmente torna a
mettere il diritto dei cittadini al lavoro - e a condizioni che lo rendano possibile
- all'interno del nostro cinema che, dagli anni Settanta in poi, ha in gran
parte evitato di parlarne.
…A raccontare questa storia di operai e padroni, di
rivendicazioni e soprusi, di dignità e umiliazioni, è Michele Riondino che con
Palazzina Laf firma la sua opera prima da regista. Interprete principale
(Caterino) accanto a Elio Germano (Basile), e autore della sceneggiatura
insieme a Maurizio Braucci, l'attore pugliese si è documentato attraverso
interviste a ex lavoratori e leggendo le carte processuali che hanno portato ad
alcune condanne e risarcimenti per le persone coinvolte in uno dei tanti
episodi che dimostrano cosa significhi lavorare in Italia.
UN FILM che racconta in modo diretto l'assenza
di una rete fuori dalla fabbrica. Che pone, senza andare mai sopra le righe, la
questione del lavoro dentro una società che dimentica la vita degli altri, di chi
in fabbrica muore per mancanza di sicurezza o è punito per essersi opposto, per
aver cercato una via migliore per tutti.
La Palazzina Laf del titolo è un edificio
fatiscente, invisibile, controllato da guardie asservite, dove operai e tecnici
sono reclusi fino a quando non si piegheranno alla volontà dei padroni. Chi non
accetta la cosiddetta ristrutturazione, la riconversione, è condannato
all'esilio, al confino dentro l'ILVA, nella Palazzina Laf, appunto. Nei
corridoi e nelle stanze solo donne e uomini da ridurre a corpi senza
intelletto, ridotti a giocare con una palla di carta.
SOLO Caterino non si rende conto della
situazione. Pensa che quel luogo sia un paradiso dove è stata abolita la
fatica. Sarà solo questione di tempo. Anche lui, farà le sue esperienze, si
avvicinerà all'orrore di esistenze condannate al silenzio e all'inazione. E
così dopo Paola Cortellesi, anche Riondino sceglie la via della regia per
incitare a osservare criticamente un presente radicato in un orribile passato.
…Vedendo il film lo spettatore è costantemente posto di
fronte alla questione che riguarda le potenzialità evolutive di Caterino La Manna,
così si chiama il personaggio interpretato da Riondino:
arriverà insomma Caterino a rendersi conto dell’universo disumano e distopico
in cui è precipitato, saprà sfruttare l’occasione di crescita morale e civica
che in fondo gli è stata data oppure resterà quell’imbecille che è sempre
stato? Non rivelerò quale sua stata la scelta del regista. Ciò che tuttavia va
detto è che questo è l’unico autentico potenziale drammaturgico del film (ché
per il resto gli altri personaggi sono rappresentati in modo decisamente
univoco: le vittime e i carnefici, i buoni e i cattivi) e che su questo,
appunto unico, snodo drammaturgico il film si sofferma un po’ troppo,
ingenerando qua e là una certa noia alla quale poco aggiunge la vicenda privata
di Caterino, la sua relazione con la fidanzata e tutto il resto. In altre
parole la scelta di non girare un documentario ma un film di finzione non è, a
mio avviso, supportata da una sceneggiatura adeguatamente solida.
Peccato, perché, invece sul piano della regia piuttosto varia, della
recitazione, della fotografia (molto anni ’90, colori
giallo-marroncini-grigiastri), dei costumi, della scenografia (molto è stato
girato a Piombino), della musica (Teho Teardo) il film
funziona, tutto sommato, piuttosto bene.
…Il modo in cui Riondino gioca col tono
di Palazzina LAF, tenendo sempre in equilibrio la commedia e il dramma, il
grottesco e il surreale, l’astrazione e la denuncia, è il punto di forza
principale del film, e la ragione per cui ciò che gli sta evidentemente a
cuore, ovvero il risvolto sociale e politico, riesce a funzionare così bene,
senza risultare mai pesante o stucchevole per lo spettatore.
Ancora un volta, il segreto sta nella cura per
il dettaglio, che ovviamente non si esaurisce solo nel nome di Caterino
Lamanna.
La cura del dettaglio, in Palazzina
LAF, la si vede nella scelta dei volti e degli attori, tanto per
cominciare: anche per quelli che magari vediamo solo due volte, come nel caso
di Paolo Pierobon, ma ovviamente anche in quelli che
stanno spesso sullo schermo, da Michele Sinisi a Gianni
D’Addario, da Vanessa Scalera a Marina
Limosani.
Ma la si vede in un vecchio impianto stereo che
mangia le cassette, nel trucco e nel parrucco, nelle cose che vengono dette
solo con gli sguardi, nei fiori piantati dentro vecchie scatole di latta.
La si vede nel modo in cui Riondino,
dimostrando anche un buon occhio per le inquadrature, racconta, da
vicino e da lontano, la fabbrica e una città, le loro mille contraddizioni e
l’eredità tossica con cui devono convivere, attraverso le immagini.
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