"O
siamo capaci di sconfiggere le opinioni contrarie con la discussione, o
dobbiamo lasciarle esprimere. Non è possibile sconfiggere le opinioni con la
forza, perché questo blocca il libero sviluppo dell'intelligenza.", dice Ernesto Che
Guevara.
mutatis mutandis la frase del Che è sempre vera.
mettere in galera dei registi perche il Potere non è d'accordo con quello che fanno e dicono nei loro film è una schifezza universale.
e vale anche per Jafar Panahi, che deve inventarsi modi sempre nuovi per raccontare storie, sempre più condizionate dalla censura, e però sempre libere, la libertà è lo sfondo e il tema del film.
è un piccolo grande film, dove finzione e realtà si alternano e si sovrappongono.
cercatelo e soffritene tutti, nelle poche sale dove si può ancora vedere.
buona (galeotta) visione - Ismaele
… Ne Gli orsi non esistono, Panahi si
rifugia, con una cinepresa amatoriale e un pc portatile, in un paesino sperduto
al confine fra Iran e Turchia, convinto, o quanto meno speranzoso, di poter
fornire le direttive registiche del film che ha in mente, da remoto, ai suoi
collaboratori che girano in una città turca (le targhe delle auto sono quelle
dell’area di Istanbul…).
Ma le cose non fileranno lisce: nel ‘bunker’ (più che una casa è una grotta) in cui si trova, non c’è campo e, per trovarlo, Panahi deve arrampicarsi su una scala; il suo ospite, che lo chiama con apparente rispetto «caro signore» è in realtà terrorizzato dai paesani (e dallo sceriffo che li comanda) e finisce per incasinare la vita del regista che, non l’avesse mai fatto, ha fotografato, casualmente e senza alcun intento specifico, una ragazza già promessa, al momento in cui nacque, quando le fu tagliato il cordone ombelicale, a un uomo che non è quello che sta accanto a lei nell’immagine colta da Panahi. Il Municipio si coalizza: vuole a tutti i costi quella foto (che opportunamente Panahi cancella dalla scheda della sua macchina fotografica) e i paesani per ottenerla (e poi distruggerla) rompono le palle al regista fino allo stremo, costringendolo a giurare sul Corano di non aver mai immortalato i due ragazzi...
In libertà condizionata dal 2010, l’iraniano Jafar Panahi
ha fatto dei film girati da remoto un’arte, nonché un metodo geniale per
beffare la censura, apparendovi spesso in prima persona (vedi “Taxi Teheran”).
In questo “Gli orsi non esistono”, laureato a Venezia con un prudente Premio
speciale della Giuria, va anche oltre. Integrando in un’unica, spietata,
commovente riflessione i due spazi in cui si articola il film. Ovvero il
paesino di frontiera in cui Panahi si è stabilito per dirigere le riprese a
distanza, via computer; e il set del docu-fiction che è invece oltre confine,
in Turchia.
La realtà prenderà infatti il sopravvento tanto sul set,
in Turchia, che in quel paesino miserabile e sonnacchioso ma dominato da regole
arcaiche e brutali (come tutto l’Iran). Destinate a esplodere proprio per la
presenza di quell’intruso armato di telecamere e macchine fotografiche.
La realtà si è imposta una terza volta l’11 luglio,
quando Panahi è stato tradotto nel carcere di Evin, dove è tuttora detenuto,
per aver protestato contro l’arresto dei colleghi Mohamad Rasoulof (il regista
di “Il male non esiste”) e Mostafa Al-Hamad. Evento non imprevedibile che rende
ancora più urgente “Gli orsi non esistono”, amara riflessione sulle immagini,
la Legge e l’esilio, ovvero sulla scelta di restare nel proprio paese perfino
quando tutto invita alla fuga (ma si può sempre tirare il freno a mano, come
farà appunto Panahi)…
…Non sono più i tempi in cui il
regime consegnava e controllava la quantità di pellicola utilizzata per girare
un film 'autorizzato' preceduto dall'immancabile "In nome di Dio".
Oggi si procede diversamente e, se necessario, per interposte persone. Ecco allora
una storia d'amore così forte da chiedere di essere raccontata ma che, al
contempo, finisce con il reclamare una 'verità' che anche il cinema più
indipendente può faticare a cogliere nella sua essenza.
Ma c'è un'altra vicenda che avviene nel villaggio e che
coinvolge Panahi al punto da costringerlo ad andarsene. Muovendosi su questo
doppio registro riesce non solo a raccontarci due situazioni definite nel tempo
e nello spazio ma anche a ricordarci come il potere espanda i suoi tentacoli
anche nei luoghi più remoti approfittando dei pregiudizi e dell'ignoranza.
Resta comunque il bisogno irrefrenabile dell'artista di
esprimersi con il mezzo a lui più congeniale, giocando anche sulla sospensione
dell'incredulità. Lo spettatore deve pensare ad un Panahi in solitudine nel
villaggio mentre invece viene ripreso con camera in movimento da qualcuno che è
lì con lui. Questa però non è finzione nel senso deteriore del termine. È fare
cinema di testimonianza esponendosi in prima persona ponendosi dietro e davanti
alla macchina da presa non avendo il timore di firmare così la propria condanna
pur di raccontare senza costrizioni servili.
…Gli orsi non
esistono si apre con un piano
sequenza: la macchina da presa, attraverso una panoramica, segue una donna,
Zara, uscire da un bar in cui lavora e incontrarsi con un uomo, Bakhtiyar.
Quello che scopriremo essere il suo compagno le dà un passaporto falsificato, necessario
per scappare dal paese e andare a Parigi. L’uomo però non è riuscito a far
preparare in tempo il proprio documento, quindi Zara dovrà andare da sola. Ne
segue una breve discussione, la donna rientra nel locale. “Taglia”, sentiamo
fuori campo. Uno zoom all’indietro rivela uno schermo del computer, attraverso
il quale lo spettatore stava vedendo la scena. Viene mostrato Panahi, davanti
allo schermo, che parla in videochiamata con il proprio assistente, dandogli
indicazioni sulle direttive da dare agli attori. Il regista, infatti, non è a Teheran con la propria troupe a
girare il film, dal momento che il governo gli ha proibito di realizzare film e
di lasciare il paese per i prossimi vent’anni. Panahi si trova
in un villaggio di confine e segue la lavorazione a distanza. Parallelamente,
alla storia di “fiction” che il regista sta realizzando, nel villaggio in cui è
ospitato si consuma una storia d’amore “proibita” tra due giovani ragazzi, che
vorrebbero scappare oltre il confine lasciandosi alle spalle le restrizioni
imposte dalle proprie famiglie e da tradizioni centenarie che limitano la
libertà di scelta dell’individuo…
… Gli orsi non
esistono è pieno di momenti simili,
in cui una storia finta racconta veri problemi, desideri e pulsioni. In cui
filmare è un atto pericoloso e da sovversivi (ma in quanti posti al mondo una
cosa simile è ancora vera? Quante persone nel pianeta sono pronte a combattere
filmando?), in cui un mondo molto tradizionale, quello dei paesini montani
lontani da tutto, si scontra con la mentalità cosmopolita e moderna di Panahi.
Tradizione contro cinema, addirittura nel momento più alto quando dovrà rendere
una testimonianza davanti a tutti Panahi chiederà di potersi filmare mentre lo
fa e quindi sostituirà il corano (su cui giurare) con una videocamera. Niente
di più simbolico e potente. C’è da commuoversi sia per la fiducia nelle
immagini di quest’uomo (e per come è in grado di trasmetterla e farla capire)
che per la sua tenacia, il desiderio di continuare ad opporsi addirittura
mettendo in un suo film i metodi che usa per girare clandestinamente e la
straordinaria umanità dei suoi personaggi. Lo stato lo vessa e perseguita in
ogni modo e lui continua a ritrarre le persone con la mentalità più ostile e
arretrata con il massimo dell’affetto.
…Il metacinema di Panahi non è altezzoso, elitario o estetizzante. È un’idea di metacinema, anzi, schiettamente popolare, molto chiara e diretta nei suoi messaggi, decisamente lontana da ellissi e perifrasi. Anche Gli orsi non esistono non riflette tout court sui mezzi della rappresentazione, non cerca in alcun modo di astrarsi dal dato bruto del reale verso la teoria del linguaggio. È cinema che anzi vuole sporcarsi totalmente con la realtà, affondare in essa, riflettere sul cinema stesso come puro prodotto del fare. Cinema come frutto di un’attività umana che momento dopo momento deve scontrarsi con i limiti imposti dal contingente. Si può cedere anche la macchina da presa a qualcun altro, ad esempio. Purché il cinema sia ancora possibile, e possano ancora conservarsi margini di espressione, si può affidare il mezzo anche a un conoscente inesperto.È un cinema che finisce per delinearsi come inevitabilmente politico. Un autore costretto a operare nelle condizioni di Panahi non può che trasformare in atto politico qualsiasi presa di parola, qualsiasi esternazione, qualsiasi frutto della sua coscienza, che sia cinema o quant’altro. È molto probabile che in altre condizioni il percorso artistico di Panahi avrebbe seguito strade diverse. Proprio per questo Gli orsi non esistono è un ulteriore tassello di cinema della necessità. Non può essere altro che questo. Non può parlare che di questo. L’atto creativo è già di per sé affermazione dell’individuo. Affermazione della sua esistenza. E il cinema si tramuta in veicolo per ripetere ancora, finché si può, «Io sono qui». L’individuo è il primo oltraggio al regime. In tal senso, che sia scelta o necessità, è comunque perfettamente coerente anche l’onnipresenza in scena dello stesso Panahi. Io sono qui.
…La scrittura del film è complessa e in continua
evoluzione, con personaggi che entrano ed escono dalla meta storia del film
che Panahi sta girando durante il film. La storia
viene poi postulata come vera (una sorta di documentario che testimonia il
tentativo di fuga di due perseguitati dal regime), ma sappiamo che in realtà
sono degli attori a fingere di interpretare dissidenti che si fingono attori per
sfuggire dal paese. La regia, anche se con limiti evidenti, è capace persino di
un paio di virtuosismi e ci immerge in un approccio naturalista in cui talvolta
dimentichiamo che quando Panahi finge di fare
riprese amatoriali, non assistiamo a una scena reale, ma a una messa in scena
con un cameraman che sta girando.