Tre Film Al Giorno, Tre Libri Alla Settimana, Dei Dischi Di Grande Musica Faranno La Mia Felicità Fino Alla Mia Morte. (François Truffaut)
giovedì 30 giugno 2022
mercoledì 29 giugno 2022
Cruising - William Friedkin
un'indagine del poliziotto Burns sotto copertura, deve trovare un serial killer di omosessuali.
…Friedkin torna a parlare d’omosessualità 10 anni dopo Festa per il compleanno del caro amico Harold (1970) ed i toni sono effettivamente diversi e più coraggiosi. Una N.Y. così non si era mai vista, una metropoli inquadrata solo dal basso, che sembra un costante crocevia di soli omosessuali e ragazzoni pompati dediti alla pratica del sadomaso e con un particolare gusto per borchie, jeans e pelle: una città fotografata con un particolare filtro di forte cinismo, tanto crudo da sembrare a momenti quasi razzista (quel terrificante Noi siamo ovunque che si accende di rosso tra i graffiti sembra quasi un avvertimento). Al Pacino è il maschio scelto per risolvere il caso, la sua fisionomia ed i suoi colori sono gli stessi delle vittime ma il suo ruolo è quello istituzionale di un poliziotto in una storia vera che nella realtà non ha conosciuto colpevoli (come ricorda il prologo). La sua ambiguità, che si versa nello specchio attraverso il suo sguardo quando sente che la moglie indossa i vestiti che ha usato per il travestimento, è già esplicitamente descritta in quella violenza che una pattuglia di polizia fa ad una coppia di trans, obbligandoli ad una fellatio. Pubs squallidi e luci soffuse, il noir di N.Y. ha lo stesso colore dell’acqua dove è pescato il braccio di una vittima. Friedkin gira con stile e distanza, ma quello che questa volta racconta (sua anche la sceneggiatura tratta dall’omonimo libro di Gerard Walker) è ambiguo quanto l’aria che Burns respira. Unico errore dopo quasi 19 minuti, quando Al Pacino fa ingresso nel locale di ritrovo per gay e sono inquadrate attraverso la sua soggettiva, i volti di quelli che escono: su di loro è proiettata l’ombra della cinepresa. Forse il lavoro più completo del regista sul tema dell’ambiguità, tra violenza e giustizia, tra machismo ed omosessualità.
…Burns
cambia pelle, ha uno sguardo introspettivo, ci parla con i gesti e
non con le parole. L’unico momento dove si concede uno sfogo è quando
si confronta con il capitano Edelson. Burns è stremato e confuso (dopo aver
assistito al pestaggio di un sospettato, Skip Lee, in realtà innocente in
quanto le impronte digitali non corrispondono con quelle del maniaco) e gli
dice apertamente di non poterlo più fare. Crede di non farcela più perché gli
stanno succedendo delle cose che nemmeno lui riesce a spiegare. Nonostante le
parole, tuttavia, viene convinto a proseguire e spinto a a pensare alla futura
promozione.
Burns inizia allora a riconoscersi negli abiti di pelle che
indossano gli omosessuali nei ‘Leather Bar’. Il personaggio, attraverso
una ‘muta silenziosa’, cambia la propria prospettiva e nel silenzio
indossa ciò che all’inizio gli risultava estraneo. Le persone di notte si
riconoscono attraverso i luoghi, attraverso gli abiti, attraverso le bandane
che si legano alle tasche (ogni colore rispecchia una richiesta, un ruolo
preciso). Il protagonista subisce una vera e propria metamorfosi,
si lascia trascinare dal caos e corrompere dall’oscurità che ha dentro.
Al Pacino, grazie a una intuizione, riesce infine a scovare
il vero assassino, Stuart Richards, uno studente di musica che ha un’ossessione
malata per il padre, che in realtà è deceduto da dieci anni. Burns spia il
sospettato e lo costringe a un confronto prima sessuale (anche se il rapporto
non viene consumato) e poi di lotta fisica. Quindi, Burns riceve la promozione
nel corridoio dell’ospedale dove Richards è ricoverato, per poi sparire nell’ascensore.
La vera conclusione di
Cruising avviene però con la scoperta dell’uccisione di Ted Bayley. In bagno
vediamo il suo cadavere immerso nel sangue, gli occhi spalancati. A
primo acchito pare una bambola rotta, ci comunica la vulnerabilità di
chi non si aspetta di essere aggredito in modo così barbaro.
Rimaniamo così attoniti, perché questo svolgimento ci dà la
conferma di un tumulto emotivo sfociato nella follia. Quando l’agente DiSimone
(un grande cameo di Joe Spinell) dice al capitano Edelson che
nella porta accanto viveva un certo John Forbes, lo sguardo si rabbuia e ne
nasce un dubbio tacito, lo stesso che sorge nello spettatore. Questo perché, in
precedenza, il comportamento di Al Pacino era scoppiato spesso in azioni
violente (basti pensare a come aggredisce il compagno di Ted, Gregory), ma ci
instilla anche il dubbio che il vero assassino non sia davvero stato preso.
Subito dopo vediamo infatti Burns tornare da Nancy, radersi
la barba e promettere alla ragazza di raccontarle quello che aveva passato in
quelle settimane di assenza. Nancy vede poggiati gli abiti di pelle e li
indossa in un gioco innocente, mentre Burns si guarda allo specchio con
sguardo nuovo. Non abbiamo assoluta certezza che sia stato lui a
uccidere Ted, ma l’omicidio di quest’ultimo trasfigura nella
metafora dell’agnello sacrificale, ha un significato atavico. Dopo una
grande prova di iniziazione, ucciderlo implicherebbe per Burns uccidere ciò che
è venuto a galla dentro di sé.
Quando Cruising uscì nelle sale cinematografiche ci
furono inevitabilmente molte proteste, sia del pubblico che della stampa.
Durante la produzione del film un gruppo di persone tentò addirittura di
boicottare le riprese, facendo cadere un grosso riflettore e disturbando il
set. Si creò una vera propria scissione nella comunità gay:
da una parte chi protestava con violenza lanciando pietre e oggetti pericolosi
durante i ciak; dall’altra chi supportava invece il film, al punto di accettare
di parteciparvi come comparsa proprio all’interno dei ‘Leather Bar’.
Molte sequenze nei locali appaiono infatti quasi
documentaristiche, ma da parte di
William Friedkin non trapela nessun giudizio né morale né immorale su quanto
filmato, niente è ‘giusto’ o ‘sbagliato’ in quello che succede in quei luoghi.
Gli attori di contorno non sembrano recitare una parte, ma
restituiscono piuttosto la percezione di abitare i
personaggi. Trascinano il loro modo
di vivere a seconda del contesto ‘reale’ in atto. L’emotività che
trapela è umana. Il ritmo lento di Cruising è coerente con lo sviluppo
interiore. Raramente siamo certi di ciò che pensano queste maschere,
i loro atteggiamenti sono ambigui e spaventati. Burns manipola Forbs, o è Forbs
a manipolare Burns? Chi è lui realmente?
Lo sguardo finale allo specchio ci pone quindi di fronte un
dilemma: quando guardiamo qualcuno che crediamo di conoscere, sappiamo
davvero chi abbiamo davanti? Forse la risposta risiede nelle morti continue che
infliggiamo dentro di noi. Forse siamo destinati a un loop infinito,
dove la condanna è non raggiungere mai la nostra forma finale.
Nel classico ‘viaggio dell’eroe’, il protagonista è costretto a lasciare il mondo che
conosce per inoltrarsi in un altro, sconosciuto. E dopo aver affrontato diverse
(dis)avventure ritorna al mondo a lui caro con una consapevolezza diversa.
Ecco, Forbs ha affrontato il lupo cattivo e – forse – dopo averlo sconfitto ne
ha preso il posto.
…la
pellicola procede lenta, innestata su un ritmo tipico quasi da film francese,
in cui conta di più l’introspezione sui personaggi che la trama. Ed così è
anche per Cruising:
che parte come thriller ma che si perde poi, volutamente,
sull’indagine psicologica nei confronti del protagonista. A discapito di
una sceneggiatura scarna e dei dialoghi essenziali, è attraverso il linguaggio
non verbale che lo spettatore può cogliere gli aspetti determinanti
dell'evoluzione narrativa: l'ambiguità morale e il conflitto dell'identità
sessuale. È un film insomma giocato soprattutto sugli sguardi, sulle
situazioni, sulla descrizione dei contesti, che sui dialoghi veri e propri.
Questo se apparentemente appiattisce il film, in realtà riesce a imprimere alla
pellicola un’aurea di sottile mistero e ambiguità che ricalca il mondo
interiore del protagonista. Indubbiamente Al Pacino strepitoso, in
un’interpretazione quasi remissiva, ma perfettamente centrata. Eppure l’attore
non ama ricordare la partecipazione a questo film, probabilmente per le
polemiche enormi che sono scaturite dalla pellicola stessa. D’accordo che siamo
negli anni ’80 e certe tematiche erano tabù, ma alla fine dei conti Cruising non
si dimostra così scabroso da giustificare l’ondata di sdegno e polemica che ne
seguì. Il mondo omossessuale non viene giudicato nè condannato, ma solo
ritratto, in un suo aspetto, per ciò che realmente è. Sicuramente un’opera
coraggiosa e controcorrente, come gran parte della filmografia di Friedkin, il
quale ama giocare sull'ambiguità, in questo caso calandosi nell'ambiente gay, ma
senza pronunciarsi in merito, come di sua consuetudine: una scelta che
all'epoca venne decisamente fraintesa, suscitando critiche negative e accuse di
razzismo che oggi appaiono alquanto ingiustificate Poco esplicito, forse
volutamente, il film mantiene alcune zone d'ombra anche dopo la fine.
Bellissima anche la descrizione di una New York sporca e sordida da far
rabbrividire, alla stregua della New York magnificamente descritta da Scorsese in Taxi Driver.
…Come è noto il film ha dovuto affrontare diverse
critiche negative da parte della comunità omosessuale dell’epoca che imputava a
Friedkin la colpa di aver creato una rappresentazione predatoria e vampiresca
dell’omosessualità, oltre che di aver abbinato con un certo bigottismo il sesso
gay con la violenza e l’omicidio. Nel tempo, fortunatamente, in un processo di
rivalutazione complessivo stracultista, il film è stato rivalutato proprio
perchè attribuisce un ritratto anticonformista alla suddetta comunità, che
spesso desidera vedersi rappresentata in modo sempre apprezzabile o, in qualche
modo, likeable. Come anticipato in apertura, non va comunque
dimenticato che Cruising è in prima battuta un film
poliziesco (peraltro liberamente ispirato a un romanzo di Gerald Walker), che
affronta un importante discorso psicanalitico, se vogliamo, ma che nel suo
sguardo verso il sociale tende più ad essere avverso alle forze dell’ordine e
alle metodologie di indagine di una categoria di pubblici ufficiali che
probabilmente sono i veri volti moralmente corrotti del film.
There is a large, loud question right at the center of “Cruising,”
and because the movie lacks the courage to answer it, what could have been a
powerful film dissipates its force and leaves us feeling merely confused and annoyed.
The question is: How does the hero of this film, an undercover New York
policeman, ultimately really feel about the world of homosexual sadomasochistic
sex he is assigned to infiltrate?
Is he touched by the sexual underground in an important way? Is his
own sexuality involved? Is he intrigued by the aura of violence? The movie
won’t say. And its failure to commit itself would be less annoying if it
weren’t for the fact that the whole thrust of the movie is toward setting up
those questions –which the ending then leaves deliberately and confusingly
unanswered…
martedì 28 giugno 2022
Night and the City (I trafficanti della notte) – Jules Dassin
il protagonista Richard Widmark, nel suo ruolo di imbroglione che fa il passo più lungo della gamba, è perfetto, e gli altri attori non sono da meno.
il film corre a 100 all'ora senza prendere fiato, una corsa eccezionale, un ritmo gestito alla grande da un maestro come Jules Dassin, con una fotografia strepitosa.
chi trova qualcosa fuori posto lo dica, o si taccia per sempre:)
buona (indimenticabile) visione - Ismaele
QUI si può vedere il film completo, in italiano
…Londra è protagonista del film tanto quanto il
personaggio principale e, fotografata meravigliosamente dal tedesco Mutz Greenbaum
(che qui si firma come Max Greene), sembra quasi irreale, per una volta non
ricostruita negli studi di Hollywood.
Dassin filma con ritmo sostenuto e inietta nella
storia robuste dosi di ironia.
Night and the City è un noir perfetto, in cui le donne sono
bellissime e non hanno mai un capello fuori posto, dove i cattivi hanno la
faccia da cattivi e i buoni da buoni e la sua visione su grande schermo (3)
rappresenta un’occasione rara e foriera di enorme piacere…
…Assolutamente straordinario, come sempre, il grandioso
Richard Widmark, alle prese con un personaggio ambiguo e perdente, ma sono
ottimi anche tutti gli altri interpreti.
Fra le varie scene d'antologia c'è quella del
terribile combattimento tra Gregorius e Strangler, violentissimo e che non si
dimentica, la tesissima parte finale, con la vana fuga di Widmark per i
bassifondi della città, quindi la spiazzante fine di quest'ultimo, prima ucciso
e poi gettato nel fiume Tamigi.
In definitiva si tratta di un capolavoro
assoluto, un film eccelso che è stato spesso scandalosamente sottovalutato e
che merita assolutamente di essere apprezzato e riscoperto.
Strepitoso noir girato per le vie di Londra con un Widmark
strepitoso. Ruolo veramente fisico il suo e per quasi tutto il film va di corsa
ed è frenetico. Come frenetica è la sua rincorsa al successo e ad diventare
qualcuno in un ambiente pieno di balordi. Tutti gli personaggi sono ben
delineati e descritti è il ritmo è mozzafiato. Spettacolare.
Noir d'autore che sfiora le cinque stelle per la grande
armonia di fondo ed il modo in cui le storie si concatenano e chiudono in un
prevedibile ma sontuoso finale, sporcato probabilmente da una sceneggiatura che
mostra alcune pecche evidenti. Far filare tutte le vicende in modo da creare
l'intarsio perfetto è roba che riusciva a pochi eletti ma qui ci sono comunque
tutti gli ingredienti per individuare un pezzo di bravura del genere, su tutto
il bravo Widmark e l'incantevole Gene Tierney. Consigliato sicuramente agli
amanti del noir.
Opera maestra realizzata da Jules Dassin, uno dei padri del
genere noir qui in trasferta europea forzata a causa della caccia alle streghe
del senatore McCarthy a Hollywood. Narra la leggenda che il produttore
Darryl Zanuck consigliò a Dassin di girare a Londra le scene più care, così da
poter poi forzare la mano alla 20th Century Fox e completare il film nonostante
la blacklist. Eccellente la sceneggiatura e non meno fortunata
l'interpretazione da parte di Richard Widmark, 'cattivo' senza scrupoli che
finisce vittima della propria ambizione e dei 'cattivi' più grandi di lui.
Grandioso il finale, da vero manuale del noir.
lunedì 27 giugno 2022
Una pazza giornata di vacanza – John Hughes
l'anno dopo Breakfast club un altro capolavoro di John Hughes.
è solo un giorno di vacanza da scuola, ma nelle mani di John Hughes e dei suoi ispirati attori diventa una bomba di geniale comicità.
cercatelo, nessuno resterà deluso, promesso.
buona visione di un giorno di vacanza da scuola, che avete fatto o avreste voluto fare - Ismaele
QUI si può vedere, in italiano
Here is one of the most innocent movies in a long time, a
sweet, warm-hearted comedy about a teenager who skips school so he can help his
best friend win some self-respect. The therapy he has in mind includes a day's
visit to Chicago, and after we've seen the Sears Tower, the Art Institute, the
Board of Trade, a parade down Dearborn Street, architectural landmarks, a Gold
Coast lunch and a game at Wrigley Field, we have to concede that the city and
state film offices have done their jobs: If "Ferris Bueller's Day
Off" fails on every other level, at least it works as a travelogue…
… Hughes vuelve a señalar a los adultos como los
grandes responsables de que vivamos en un mundo tan gris; de que hayan
olvidado tan fácilmente su adolescencia; de no molestarse en comprender a esas
nuevas generaciones que solo buscan un poco de atención. El director americano
los ridiculiza a través de varios personajes: los padres de Ferrys, que deciden
creerse la dudosa y repentina enfermedad de su hijo; y el director del colegio
-interpretado por un magistral y divertidísimo Jeffrey Jones-, al que se lo
hace pasar muy mal en algunas de las secuencias mas logradas del film.
John Hughes, ¿Un director que se quedó anclado en una
edad mental de 18 años, o uno de los pocos adultos que supo comprender a la
juventud americana de los 80? Para mi, un autentico visionario. ¿A
quién no le gustaría hacer «Todo en un Día»?.
…Prima di Una pazza giornata di vacanza non
è mai esistito un altro Ferris Bueller, dopo chiunque vorrà assomigliare a lui,
senza riuscirci. Hughes crea dal nulla un ragazzo che nessuno aveva mai pensato
potesse esistere, un adolescente dandy, saccente e un po’ citazionista che è il
prototipo di un’America metà liberista metà liberale, in una fase di opulenza
inevitabilmente passeggera.
Proprio queste qualità giustificano il
superamento della quarta parete, con Ferris che si rivolge direttamente alla
camera, e dunque al pubblico in sala. Quello che può apparire un vezzo o un
escamotage è il modo in cui Hughes riesce a fare incontrare la screwball comedy
(di cui in parte il film è un aggiornamento) con gli stilemi della nouvelle
vague. È un Godard giovanile cantato da John Lennon, Una pazza giornata di vacanza: la fuga senza senso
né destinazione per la città è una versione scanzonata di Fino all’ultimo respiro, e la visita all’Art
Institute of Chicago rimanda alla mente la folle corsa nel bel mezzo del Louvre
dei tre protagonisti di Band à part.
Tre anche loro, due ragazzi e una ragazza come il triangolo scaleno
Ferris/Sloane/Cameron. In un crescendo di trovate che trova il suo punto di non
ritorno nella magniloquenza del Von Steuben Day e della parata come sempre
vampirizzata da Ferris, Hughes firma un poemetto amoroso verso Chicago, lo
spirito della sua popolazione, l’architettura, la modernità che sposa l’antico
senza annientarlo. Un film che va di fretta (perché, come educa i suoi
spettatori Ferris “Life moves pretty fast. If you don’t stop and look around
once in a while, you could miss it”) ma che è impossibile scacciare dalla
mente. Così ci si ritrova a fissare i titoli di coda che scorrono sullo
schermo, fino a quando non è lo stesso Ferris a sbucare di nuovo fuori per
mandare via il pubblico. “A casa”, è l’ultima sentenza.
…Un soggetto semplice
semplice che, nelle sapienti mani di Hughes, si trasforma in un’esplosiva
giostra di situazioni che frutterà al tempo ben settanta milioni di dollari
d’incasso. Complice la fotografia solare di Tak Fujimoto, una sceneggiatura
colma di trovate geniali (scritta dal regista in una settimana), il montaggio
ad orologeria di Paul Hirsch (collaboratore storico di De Palma) ed una
soundtrack che vanta hit del calibro di Twist and shout e Oh
Yeah degli Yello, si definisce quello che può essere riconosciuto
come uno dei titoli cult della propria decade. Senza
dimenticare che il film segna la definitiva consacrazione artistica di Matthew
Broderick, all’epoca appena ventiquattrenne e già catapultato nel nuovo showbiz
hollywoodiano. Una pellicola che talvolta sfiora vette surreali impressionanti,
che nasconde dietro una facciata ludica e fancazzista uno spirito assai più
complesso, come nei momenti dedicati all’incomprensibile divario che allontana
le istituzioni dai ragazzi e la vita dei padri da quelle dei propri figli.
In definitiva un’esperienza cinematografica consigliata
a tutti, attuale e moderna, che come in tutte le opere di Hughes evita
sapientemente volgarità gratuite e cadute di stile…
…Una delle potenziali trappole nella quale poteva scivolare Una pazza di giornata di vacanza era invece
quella di rendere il personaggio di Ferris troppo “vincente” e quindi un poco
antipatico non solo agli occhi dell’invidiosa, almeno sino ad un certo punto,
sorellina Jeanie. Invece nella finzione Ferris cresce grazie anche al rapporto
con il suo amico Cameron (bravissimo nel ruolo il quasi inedito Alan Ruck), che
rappresenta il suo esatto opposto: insicuro, perdente in partenza, timido ed
impacciato con le ragazze nonché afflitto da serissimi problemi di rapporti in
ambito familiare, principalmente con il padre. E, di certo ancora una volta non
casualmente, è a lui che Hughes dedica i momenti più intensi della pellicola:
il lungo sguardo alla ricerca di qualcosa che sfugge (o è irrimediabilmente
fuggito…) nel dipinto di Georges Seurat La Grande-Jatte al
The Art Institute di Chicago oppure il monologo finale – che segna la sua
uscita di scena – a distruzione più o meno involontaria della Ferrari del padre
avvenuta. Magari qualche fan della casa di Maranello l’avrà presa male, però
assistere alla riaffermazione di quelli che dovrebbero essere gli autentici
valori affettivi a scapito della sublimazione dell’effimero e della venerazione
del lusso, è una sottolineatura – tutt’altro che didascalica nel film – che
dovremo tenere sempre ben presente, a maggior ragione nella desolante Italia
contemporanea.
Il consiglio, al tirar delle somme, è quello di vedere o rivedere
periodicamente Ferris Bueller’s Day Off anche
solo per godere degli ininterrotti momenti di culto ivi contenuti
(dimenticavamo, c’è anche – oltre ad una declinazione pressoché completa di
tutti i sottogeneri della commedia, dalla slapstick a
quella sofisticata – una deliziosa parentesi squisitamente musical). Ma soprattutto di farlo scoprire alle
nuove generazioni; perché è uno dei pochissimi film mai realizzati capaci di
farvi slogare la mascella dalle risate e contemporaneamente aprirvi davvero la
mente a nuove prospettive e orizzonti. Una cosa che solo a pochi, pochissimi
autori nel mondo del cinema è compiutamente riuscita. E John Hughes è tra loro.
…Scatenata e imprevedibile teen-comedy
diretta da uno specialista del genere,priva di mielosità e scurrilità,e dotata
di un ritmo agilissimo,che si mantiene intatto per tutta la durata del
film.Ricco di trovate surreali,offre uno spaccato della gioventù degli anni 80
inverosimile,ma la carica del film risiede nell'amplificare gli effetti comici
dell'improbabilità di certe sequenze,ed è quindi da questo punto di vista che
il pubblico dei teenager sarà soddisfatto nell'assistere alle disavventure dei
tre protagonisti,immedesimandosi volentieri nei loro personaggi.Tutti perfetti
gli attori,con una menzione speciale per Broderick e Jennifer Grey,la sorella
invidiosa che alla fine si coalizzerà con il travolgente
fratello.Indimenticabile la gag-tormentone sulle conoscenze che Ferris riesce
ad avere dappertutto.Piccola e gustosissima parte per Charlie Sheen.Attenti ai
titoli di coda.
domenica 26 giugno 2022
Sui marciapiedi – Otto Preminger
anche oggi al cinema il film di Otto Preminger farebbe la sua bella figura.
è una storia dannata, nella quale passato e futuro sono importanti, e motori dei comportamenti umani anche nel presente.
una storia di deliquenti e poliziotti, e amore, con Dana Andrews e Gene Tierney straordinari attori.
cercatelo e godetene tutti - Ismaele
Qui si può vedere, in italiano
…Prima di ogni altra
cosa Sui marciapiedi è
uno splendido puzzle morale, in cui i personaggi (Dixon più di tutti) sono
costantemente sottoposti a scelte problematiche. A fungere da braccio narrativo
principale è rintracciabile la questione della “giusta giustizia” e di quanto
si possa forzare la realtà per assicurare un accertato criminale a una congrua
pena. In tal senso Dixon, secondo un intelligente paradosso, infrange la legge
per cercare di farla rispettare. Tuttavia il risentimento “sociale” di Dixon
nei confronti di Scalise si traduce in riflessione puramente noir su destino ed
ereditarietà nel momento in cui si scopre che il padre di Dixon è stato un
criminale, e Scalise uno dei suoi allievi migliori. Così il sergente Dixon,
splendidamente incarnato da Dana Andrews, amplia a dismisura la propria portata
psicologica, dando luogo a un ritratto decisamente inconsueto all’interno del
codice noir per pregnanza e profondità. Tramite una vicenda di abituale disillusione
e pessimismo, Preminger assume a protagonista una figura estremamente
prismatica che assomma oscuri destini a determinismo zoliano. Sta nella sua
discendenza familiare, nella tara paterna il tormento del sergente, che da un
lato spiega le sue maniere violente coi criminali, dall’altro dà rilievo
tragico e disperato al tentativo di redimersi con la cattura del “fratellastro”
Scalise. In sostanza, sotto il canovaccio di un noir Sui marciapiedi evoca
scenari da tragedia universale dai risvolti psichici e nevrotici…
Noir tragicamente evocativo, i cui chiaroscuri
sono perfettamente resi dalla figura del protagonista, sempre in bilico tra il
suo lato oscuro e quello buono. Gene Tierney è di una bellezza quasi inumana,
il suo personaggio è meno elaborato psicologicamente ma malgrado ciò riesce a
trasmettere un certo spessore umano. La storia non è straordinaria, la
differenza non la fa il racconto ma il modo in cui viene tratteggiato,
percorrendo paesaggi urbani e sub-urbani alla ricerca di una soluzione che
passa attraverso l'espiazione del protagonista, oppresso da un senso di colpa e
da un passato ingombrante. Otto Preminger è un mostro sacro del cinema e questa
pellicola ne è una fulgida dimostrazione. Consigliatissima agli amanti del
noir.
Noir glaciale, soffocante, in cui la regia attenta e pulita di
Preminger scava nell’interiorità dei personaggi. Ricognizione cupa di un
sottobosco criminale fra giustizia, nefandezza e redenzione; scontro tra
passato (difficile da superare) e presente (che è l’”attimo”, lo squallido
egoismo di una colpa negata) miscelato con uno sguardo pessimista in cui anche
il corpo di polizia (alienato, nella vorace ricerca di una colpevolezza) rivela
le sembianze della perdizione. Andrews eccellente, Tierney sempre affascinante.
Davvero notevole!
… Preminger
infonde al film una percepibile durezza d'insieme; quest'ultima viene
esaltata da un’estetica sporca, composta da appartamenti squallidi, ristoranti
fatiscenti e luoghi angusti. Un miscuglio seducente di inchiostri corvini
e gradazioni cineree perviene a illustrare una cosmesi ammaliante.
Non vengono però tralasciate nemmeno le abituali nuance tipiche del noir, tra
cui ombre profonde che pervadono gli angoli brumosi degli interni,
un'illuminazione consunta, la quale rende acuminato il contrasto con
l’oggettistica dei fondali (evidenziandone gli elementi apparentemente
irrilevanti), e, naturalmente, un uso parsimonioso, minimale, del sonoro. La
rappresentazione è avvincente, selvaggia, avernale. I primi piani, nel
frattempo, delineano icasticamente l’indole perniciosa, bipolare ed
imperscrutabile del Dixon di Andrews; la recitazione esibita spesso in
sottrazione alterna una moltitudine di caliginose sfaccettature espressive (non
scevre di una consistente enigmaticità) suffragate dal volto ruvido ed aggrottato
di un antieroe dalla dubbia rettitudine e dallo charme tenebroso. Ad
amplificarne un profilo così travagliato e mentalmente sopraffatto dallo
stress venne “in aiuto” il vizio dell’alcool che Andrews aveva maturato in
quegli anni: il ritratto corrucciato, incattivito altresì da complessi edipici
e un passato familiare controverso, ne fu direttamente influenzato,
condizionando inoltre l’alchimia con la Tierney. La donna incarnata
dall'attraente attrice è capace di suscitare in Dixon una serie di palpitazioni affettive
più soavi, mettendone pure alla ribalta un atteggiamento “malleabile”;
quest’aspetto, che sembra superficiale, riesce a conferire al torbido e
insensibile piedipiatti quell’umanità che aveva lentamente dissipato con una
condotta sempre più nefanda e lontana dall’etica e dalla ragione. Il
romanticismo, accorto nella manifestazione e mai invadente, non frenerà
comunque quell’afflusso di rabbia e sarcasmo che culminerà con una ieratica
catarsi finale, fra momenti al fulmicotone (le scazzottate sono veramente
realistiche!) ed encomiabili parentesi introspettive…
…“Sidewalk” is a fascinating brutish and
dark film noir that is set in the corrupt milieu of the underworld, where the
hero is so alienated that he hardly seems human. He’s constantly boiling over
with anger, and even though he lost his mental stability, professional
integrity, and moral compass he’s still considered a good cop who only has to
calm down a bit. Preminger only flirts with telling a social-conscience drama
about a debased society, instead he keeps the thriller riding on Dixon’s
shoulders as a personal thing about a man with an Oedipal complex who is
becoming unraveled but still has the power of the law on his side and a sense
of unexpected decency.
Dana Andrews gives an outstanding
performance, as his complicated character is revealed through his spells of
violence and the anguish that still haunts him and in his noble gesture to
reveal at last the truth rather than live a life of lies. Andrews is trapped by
circumstances but is transformed through his external actions that can be read
in the archetypical noir hero’s emotional facial expressions before he acts
them out.
sabato 25 giugno 2022
venerdì 24 giugno 2022
Terzo grado (Q & A) – Sidney Lumet
Nick Nolte è un perfetto poliziotto assassino, modello per tutti e impunito.
fino a che un giovane procuratore comincia a volerci vedere chiaro.
la solita storia di corruzione e violenza, è un film poco amato dalla Commissione nazionale valutazione film della CEI (qui), ma Sidney Lumet mette i suoi assi e il film, per quanto non sia un capolavoro, ha diverse cose buone.
a me è piaciuto molto un personaggio non di primo piano, Bloomy, mentore del procuratore Reilly, che gli offre le coordinate per muoversi al meglio, ma alla fine non ci si può che arrendere, il Sistema è troppo potente.
buona (idealistica) visione - Ismaele
QUI il film completo in italiano
Il tenente della polizia Brennan uccide
deliberatamente un portoricano, sostenendo di aver agito per legittima difesa.
Nessuno mette in dubbio la sua versione: è notoriamente un violento ma anche
uno dei migliori poliziotti di New York. Incaricato del caso, il procuratore
Reilly scopre una storia di corruzione che coinvolge i vertici della polizia.
Scritto da Lumet dal romanzo di Edwain Torres. Dopo Serpico (1973) e Il
principe della città (1981) è un altro suo film sul tema del marcio della
polizia che, però, secondo le sue idee, corrisponde alla corruzione totale di
una società e alla colpevolezza personale di ogni individuo perché questa è la
natura dell'uomo. Pur affidato all'abituale stile verboso di Lumet, ha un
pregio indiscutibile: il personaggio di Nolte, razzista e paranoico, odioso e
seducente, uno degli sbirri più significativi nel panorama del cinema USA alla
fine del '900.
Commissione
nazionale valutazione film della CEI
un groviglio
incredibile, in cui c'è tutto quello che è possibile immaginare: efferatezza,
violenza ricatti oscuri, compromessi ignobili, corruzione inquinante e diffusa
e razzismo. Sidney Lumet è di quei registi cui si attribuisce un forte impegno
civile: egli denuncia crudezze e delitti, non risparmiando nessuno, quale che
ne sia il colore della pelle. L'intreccio va avanti a ritmi robusti e con tinte
più forti ancora; il ginepraio è se mai un labirinto, ma non vi è traccia nè di
vuoti narrativi, nè di scuciture, mentre i fatti rispondono ad una
concatenazione sempre lucida. Patetica la faccenda dell'amore giovanile del
procuratore Reilly e sicuramente un po' appiattito e scialbo il suo
personaggio, a fronte di quello del tenente Brennan, un energumeno in divisa,
abituato a seppellire i testimoni scomodi o reticenti, allucinato nel suo
delirio di far piazza pulita nei ranghi della feccia metropolitana. Il
linguaggio è lurido, martellante e triviale: ciò che è intollerabile è
l'impiego insistito di intere frasi, sempre sofisticatissime (e dunque
deliberatamente volute) le quali, a parte ogni altra considerazione, escono da
bocche di gente del tutto incapace di pensarle, tanto risultano arzigogolate.
Il doppiaggio in italiano ne raddoppia ovviamente l'impatto e l'alluvione
dilagante rende più abbietto anche ciò che si vede.
Vice procuratore distrettuale al primo incarico deve condurre
l'inchiesta sull'omicidio di un malavitoso da parte di un tenente dai metodi
brutali ma molto stimato dai colleghi... Lumet torna sui temi della giustizia e
della corruzione all'interno della polizia che era già stata al centro di opere
famose come Serpico e Il Principe della città con
un plot complesso, con molti personaggi in campo, dall'inizio asciutto e
dall'epilogo fra il tragico e l'amaro, ben interpretato da tutto il cast.
Peccato per il sotto-intrigo sentimentale, assai poco convincente, che
indebolisce l'impatto.
Il titolo originale (in italiano: "Domanda & risposta")
lascia intendere il taglio che Lumet vuole dare alla sua opera la quale, in
effetti, può avvalersi di una sceneggiatura tesa e robusta e di tematiche
(legge, corruzione, razzismo, omosessualità) che fin dal suo debutto (La parola
ai giurati) hanno sempre contraddistinto il regista di Philadelphia. Il film
comincia col piglio giusto per poi lasciare il passo a qualche verbosità di
troppo, quasi sempre relativa alla love-story del protagonista, fino al serrato
e violento finale. Nolte vero e proprio babau.
Tratto
da un romanzo scritto da un ex giudice della corte suprema, è una storia che
ruota intorno all’inchiesta sull’uccisione di uno spacciatore da parte di un
poliziotto newyorchese. Come sempre nei film di Sidney Lumet la spettacolarità
e l’interesse per le storie raccontate si sposano alla causa dell’impegno
civile. Ne deriva un film che intriga e fa riflettere (sulle brutalità del
potere esecutivo) sorretto da ottime interpretazioni del cast.
giovedì 23 giugno 2022
Simone – Andrew Niccol
Andrew Niccol è fissato con le cose che sembrano e le cose che sono, con i deus ex machina che creano quello che non esiste, ma l'atto della creazione lo fa esistere.
e tutti ci credono, così va il mondo (e va molto male).
Al Pacino è bravissimo, come lui sa esserlo, e la storia ogni giorno che passa è sempre più verosomile.
non è un capolavoro, ma un buon film sì.
buona (iconica) visione - Ismaele
Victor Karanski (Pacino) è un regista di
Hollywood che da anni passa da un fiasco all'altro. Il film che sta per
terminare è compromesso dai capricci della diva che abbandona il set. Nessuna
stella vuol lavorare con Victor che allora, grazie all'invenzione di un
mattoide geniale e morente, riesce con un certo programma, a riprodurre
virtualmente Simone, dalla strepitosa bellezza. L "attrice" ha un
successo abnorme, alla Greta Garbo, il mondo impazzisce per lei, che non si
mostra mai in pubblico. Victor riesce a farla apparire in televisione, a farla
cantare in uno stadio, ma nessuno la vedrà mai, naturalmente, dal vivo. Il
regista è stato abbandonato dalla moglie che si scopre gelosa di Simone. Il
"privato" è omai troppo connesso col virtuale, e Victor viene
accusato della morte di Simone, introvabile, appunto. Alla fine tutto si
accomoda, la famiglia si ricompone e Simone riprende a "vivere".
Patinata, intelligente, ennesima metafora intorno al trucco dei media e del
cinema. Il tema è fin troppo conosciuto ma l'idea della diva tridimensionale
composta dai pixel è suggestiva. E non è detto poi che, in un tempo come il
nostro, sia davvero legittimo dire che è "solo" virtuale, che non
esiste. Simone "esiste".
… se i protagonisti delle altre visioni private di Niccol vagano in
cerca di un punto di fuga, di una breccia fra le pareti di strutture virtuali,
S1møne è rinchiusa definitivamente nel suo involucro irreale, fedele e
sinergica duplicazione del suo creatore, macchina di sogni e desideri di
plastica pronta a regolare il mercato delle emozioni dell’inconscio collettivo.
Ormai ogni produzione di soggettività è solo espressione di un conatus di pura virtualità e
anche Hollywood, forse l’arma più potente che l’America ha avuto per
ridisegnare il nostro presente e passato, è solo uno strumento per celebrare ed
amplificare l’estetica del falso, un luogo di corpi e membra che
Niccol/Taransky si diverte a “riscrivere” e manipolare in quell’unico ologramma
filmico che è lo spettro pulsante di S1møne.
Sempre ispirato, seppur
indirettamente, dalle pagine di Philip K. Dick – non a caso autore di un libro
intitolato I simulacri, forse lo scrittore che
più di ogni altro ha influenzato la poetica di Niccol,- e vicino all’idea di
cinema come grande illusione e perdita d’identità cara all’Orson Welles
di F for Fake e Rapporto confidenziale,
il regista di S1møne si
conferma grande romanziere di forme filmiche, testimone di una cinema che ha
ben compreso che leggere politicamente il nostro tempo è solo questione di
corpi, desideri e vuoti simulacri.
… S1m0ne, like Simone, is more than just the sum of its
parts: visually striking and thematically intriguing, it’s often also
laugh-out-loud hilarious while managing the extremely difficult feat of
sustaining its comic momentum over an audacious 2-hour running time. Breezily
ignoring plausibility (Simone is nominated twice for Best Actress in the same
year’s Oscars),
Niccol instead daringly extends the range of his satire: as she develops,
Simone amusingly takes on more and more of a Princess Diana ambience –
romantically linked with a succession of unlikely famous names, she’s even
“buried” on an island after her apparent tragic demise.
Niccol’s ambitions occasionally overwhelm the essential
lightness of his material (early on Vik has Simone proclaim “I am the death of
the real!”) but he wisely keeps the main focus on the increasingly desperate
Pacino, who has many scenes with Simone where he’s basically acting against a
blank screen. The whole film is deliberately somewhat underpopulated, in
keeping with Niccol’s coolly minimalist visuals – which feature some mockingly
“Soderberghian” colour filters. The one striking exception comes when Simone
‘appears’ in public for the first time at a sell-out stadium concert:
enshrouded by dry ice, hologrammatically belting out ‘Natural Woman’ to her
arm-waving, adoring public. It’s at inspired, delirious moments like these that S1m0ne really
takes off – unlike Simone herself, this film is emphatically the real thing.
mercoledì 22 giugno 2022
Un'estranea fra noi - Sidney Lumet
una storia di investigazione con la sorpresa di James Gandolfini giovane e magro.
magari nel film vediamo cose già viste, ma nelle mani di Sidney Lumet tutto diventa qualcosa da vedere, anche se non è fra i suoi film migliori.
in qualche scena ha ricordato Uncut gems, forse i fratelli Safdie hanno visto il film di Lumet.
buona (ebraica) visione - Ismaele
Un film quasi sconosciuto nella copiosa filmografia di Lumet
ma non per questo da disprezzare.A mio parere la cosa che gli nuoce di più è il
trattare tematiche simili a quelle sviluppate in Witness di qualche anno precedente a questo(e
anche meglio riuscito).Ma non metto in dubbio la sincerità del regista nel
trattare certi argomenti religiosi che vanno a toccare le sue origini.Come nel
film di Weir anche qui abbiamo un tipico esponente della società media
americana( una poliziotta molto emancipata svelta di parola e di pistola)che
viene a contatto suo malgrado con una comunità di ebrei chassidici,rigidamente
ortodossi.L'indagine parte dalla morte di uno di loro e dal furto di una
consistente partita di diamanti.Ma si nota subito che a Lumet interessa
parlare d' altro,l'indagine è quasi maltrattata durante il film.Al
regista interessa caratterizzare psicologicamente i personaggi,confrontare
se possibile il candore di questi ebrei ortodossi con il cuore inquinato del
newyorkese medio(e il loro candore risalta parecchio),ci fa conoscere un po'
meglio le loro usanze(tra l'altro non vanno al cinema nè vedono la tv)cerca di
descrivere in maniera introspettiva la maturazione del personaggio di Emily che
riesce a fronteggiare finalmente tutti i coni d'ombra della propria
vita,azzarda quasi una storia d'amore impossibile tra lei e il rampollo del
rabbino capo,fermandola(giustamente) un attimo prima che avvenga qualcosa
di irreparabile.Il crimine rimane sullo sfondo e meno male perchè c'è una
magagna grossa così:come fa una donna da sola a mettere un uomo a peso morto al
di sopra di un controsoffitto? Melanie Griffith sembra molto coinvolta dal
personaggio in un film non irresistibile ma che sarebbe ingiusto stroncare
senza pietà...
Emily, poliziotta di New York, deve indagare
sulla morte di un ebreo. Con l'assenso della famiglia dell'ucciso, la donna si
inserisce in quell'ambiente e fa le sue indagini. Emily si trova ben presto a
suo agio. Intanto ottiene dei risultati: trova il cadavere scomparso della
vittima e raccoglie degli elementi che la portano a sospettare di una giovane
drogata membro della comunità. I sospetti sono fondati. Emily, in
quell'ambiente dalle regole tanto diverse, deve affrontare una crisi di
identità. Non sarà mai più quella di prima. Un altro buon esercizio di Lumet,
un autore coerente e costante, sempre promosso all'esame.
Per identificare l'autore di un assassinio
per rapina, una poliziotta di New York s'introduce nella comunità hasidica di
Manhattan. Quasi certamente il colpevole è uno di loro o qualcuno che li
conosce bene. Più di quello apparente, conta il contenuto latente: la
metamorfosi di Emily, quel che impara a contatto con un mondo dove vigono
valori che le sono estranei. Indurita dalla vita, scopre la dolcezza. Lumet
inietta nel suo film una miscela abile di azione e introspezione, dramma e
commedia, sentimentalismo e umorismo.
Tra erotismo laico e sublimazione sacrale, Sidney Lumet
configura dei contrasti tra mondo religioso e ateismo che anzichè respingersi,
come logica vorreb…be, finiscono per attrarsi, precisamente là dove la nascita
di un innamoramento sconvolge ogni regola precostituita… Splendido, forse il
film meglio diretto tecnicamente dal grande Sidney Lumet che non disdegna nella
narrazione di dar spazio per lunghi tratti ad azioni puramente
spettacolari tipiche del grande cinema americano… Fotografia sopra le righe,
ogni azione viene inscenata da punti di ripresa quasi impossibili con effetti
stranianti del mai visto di alto valore estetico.
…ce qui fonctionne le mieux dans le film, c'est son histoire d'amour,
son récit de deux cœurs brisés. Sidney Lumet parvient à nous émouvoir avec une
histoire simple, des dialogues brillants et le grand talent de ses comédiens,
Mélanie Griffith en tête. Cet aspect romantique éclipse rapidement le récit
policier et l'approche ethnologique du film, d'autant que Lumet l'aborde de manière très douce, feutrée,
sans effets de manche ou séquence larmoyante. Si l'amour est impossible, on
assiste tout de même à la rencontre de deux êtres, l'un qui se voit pur,
l'autre qui se réfugie dans son cynisme, tout deux trouvant finalement chez
l'autre une part de lui-même qui lui permettra d'avancer dans la vie. Cette
sensibilité du cinéaste, on la retrouve lorsqu'il filme un truand agonisant qui
se met à pleurer et à chuchoter un tremblant « J'ai peur, j'ai peur. »
Ce sont de tels passages inattendus qui rendent aussi le cinéma de Lumet si précieux ; et si Une étrangère parmi nous n'est pas un grand
polar, c'est au moins un beau film plein d'humanité.
…The movie is shot in a peculiar style,
with New York looking bright and clean-edged except for the scenes involving
the Hassidic Jews, who live in a different world, filled with dark reds and browns
and always in soft focus. When they appear on the screen we get simple-minded
music that insists how colorful, quaint and foreign these people are. In the
first scene set in their community, Jerry Bock's music is so inappropriately
comical it seems to call for cartoon characters. Theology is limited to
greeting-card cliches such as, “God counts the tears of women.” “A Stranger
Among Us” was directed by Sidney Lumet, for whom it
is an aberration in a usually distinguished career. He has made so many good
movies over the years (“Network,” “Dog Day Afternoon,” “The Verdict,” “Running on Empty,” “Q & A”) that I can only assume
this project somehow went wrong at the start and he was unable to salvage it.
Maybe the original love triangle read well on paper; who knows? What's
impossible to understand is how professional filmmakers could convince
themselves that audiences would find the simple-minded crime plot even slightly
plausible.
martedì 21 giugno 2022
Christine – Antonio Campos
siamo nel 1974, Christine lavora in una piccola tv locale, ama fare la giornalista per migliorare il mondo, la costringono a fare la giornalista di merda (cosa che da allora succede sempre più).
Christine è quasi sempre sola e d è propriodepressa, non vede un futuro posotivo, e si chiude semprepiù, nel suo nicolo cico senza uscita.
il film è davvero bello, la protagonista Rebecca Hall è bravissima e Antonio Campos (è il primo, ma non ultimo, suo film che vedo) è bravo anche lui.
buona (giornalistica) visione - Ismaele
…La regia di Campos è
nervosa, asciutta, attenta a cogliere tutte le sfumature della brava attrice.
Non ci sono virtuosismi registici, non vi è un indugiare sugli aspetti macabri.
Nel film traspare l’empatia, concetto che ritorna numerose volte nella
pellicola, che il regista prova verso il personaggio di Christine.
La sceneggiatura è completa e minuziosa nel tratteggiare
l’inquietudine del personaggio, l’ambiente lavorativo e, soprattutto,
l’ambiente sociale del 1974, anno in cui Nixon la faceva da padrone e la
spettacolarizzazione delle notizie prendeva sempre più piede. Si deve ricordare
che, a quei tempi, il telegiornale non aveva inserti filmati e le notizie erano
tendenti alla positivizzazione.
Dopo, ci si accorse che il pubblico era freneticamente
attento e curioso per le questioni truculente e le notizie raccapriccianti, e i
TG non hanno dovuto far altro che regolarsi di conseguenza. Il film racconta
molto bene questo momento storico e fa riflettere sulle nostre colpe come
spettatori.
Christine è un
film splendido, in cui non si può che provare tenerezza per il personaggio
tragico della protagonista. Rebecca Hall si cimenta in un ruolo indimenticabile
e ricco di sfumature.
…Ningún telespectador que viera en 1974 a
la presentadora de informativos Christine Chubbuck podía si quiera imaginar su
gesto. Ese azote terrorista que propinó aquel 15 de julio fue una respuesta
radical a su impotencia, al tiempo que un aviso amargo contra un medio de
comunicación vendido a la tiranía de las masas, obsesionado con las cifras de
audiencia. Una televisión que explota incesantemente imágenes y fabrica con
ellas impacto, a costa de reducir la vida a escombros de banalidad. En La
Société du Spectacle (1967), Guy Debord ya advertía que cuando la
televisión deviene en espectáculo, se desdibujan los límites del yo y del
mundo. Por eso Antonio Campos, al abordar una de sus víctimas, construye un
retrato que la desplaza constantemente del centro. Tanto para el cineasta como
para una soberbia Rebecca Hall, la verdadera Christine se halla en el fuera de
campo de la imagen. Dentro sólo es pura tensión. Como dice el locutor líder, su
adorado George, delante de las cámaras, cuando estamos en el aire, «es como si
todos tuviéramos diferentes versiones de nosotros mismos compitiendo para
llegar al verdadero». Una lucha interna que persiste en Christine. Su
psicología responde a la figura del oxímoron, es decir, expresa una
característica y su contrario. Es dura y frágil, reservada y explosiva, torpe y
ambiciosa, impaciente y calculadora, triste y feliz. Su pensamiento tampoco
parece lineal: en su cuaderno personal, anota y avanza; retrocede, subraya y
tacha. No resulta raro que, como Holly Hunter en Broadcast News (Al
filo de la noticia, 1987), se le ocurra alterar el montaje de un vídeo tres
minutos antes de dar la noticia. Ni que, ante tanta contradicción, acabe
saliendo de sí misma y acuda a la llamada del exterior, como hace la
protagonista de un filme que contempla, Carnival of souls (1962).
Empeñada en impresionar con un reportaje y obtener un ascenso, sale a cazar el
espectáculo más grande de todos: ¡la vida!, como decía Albert Brooks en Real
life (1978). Pero no nos equivoquemos, aunque estén presentes,
Christine no es la suma de todos estos referentes. Acoger las palabras de otros
y considerar las opiniones ajenas, activa en su caso el impulso de anularse.
Una tendencia más bien paranoica la conduce a reafirmarse en su negación.
Pero... ¿cuál es esa imagen de partida que ella rechaza?...
… El
punto fuerte de la cinta es demostrar la cara de la depresión y la
inestabilidad emocional, como estos elementos pueden surgir y no irse
nunca de una persona, como es tan fácil tener malos días y rendirse ante ellos.
Todo esto es gracias a la brillante interpretación de Rebecca Hall ya
que de una manera genuina te demuestra como su personaje trata de
mantener una vida normal cargando con todas sus crisis. La construcción
del personaje, además de la interpretación, es a través de genuinos momentos
donde a Christine Chubbuck la dejan ser y la observamos en sus momentos más
frágiles, como esa escena donde las marionetas que ella controla en el hospital
de repente ya no tienen nada que decir.
La película no trata de embellecer a Christine o hacer un
homenaje, en algunas ocasiones
Christine es una mujer molesta y egoísta. También deja ver como la
decadencia de ésta es sutil, la gente no enloquece de un día para
otro. Sólo son las aglomeraciones de sentimientos y situaciones.
Es por eso por lo que Christine es una historia que
merece ser contada y vista, un
ejemplo de lo endeble que es la psique humana y lo frágil que puede llegar a
ser la vida.