un film abbastanza controverso per la critica, a me è piaciuto.
è un film sul sogno americano, ma di un nero che vuole farsi rispettare, lui e le sue figlie, perchè le figlie che ha cresciuto diventano le tenniste migliori del mondo.
maiuscola la prova di Will Smith, nel ruolo di chi sa cosa vuole, che ha un sogno, ma un sogno concreto, per le figlie.
e contro tutte le sue aspettative il suo sogno folle diventa realtà.
se uno si aspetta un film con le partite di tennis sarà deluso, invece si tratta di un film sul signor Williams e la sua (apparente) follia.
Will Smith da premio Oscar, ma tutti sono bravissimi.
buona (testarda) visione - Ismaele
…Certo, il film pecca in parte di eccessiva
lunghezza (una decina di minuti in meno e sarebbe stato perfetto per ritmo e
pathos) ed è un po’ edulcorato nelle parti più sgradevoli del padre-coach.
Richard Williams, ad esempio, nella sua autobiografia Black and White:
The Way I See It, racconta come una volta abbia assoldato dei ragazzini
perché lanciassero insulti alle figlie mentre giocavano sui campi di Compton.
Richard nel libro si giustifica dicendo che «per avere successo, devi essere
pronto all’incidente inatteso. Volevo rendere le ragazze pronte anche a questo.
La critica, o peggio, l’insulto possono tirare fuori il meglio».
Il fatto stesso però che il film si chiuda sulla prima partita di Venus,
dunque su una sconfitta bruciante e immeritata, dimostra la sua dimensione anomala
e lontana dall’enfasi abituale e dai didascalismi del cinema sportivo USA.
Tutto quello che è venuto dopo è noto. Quel primo match, quasi dimenticato,
viene invece rivissuto attraverso la ricostruzione drammatica in modo potente e
destabilzzante (lì i tempi sono davvero perfetti).
“King” Smith, barbetta sale e pepe,
capo chino per una vita difficile, dà una delle sue performance recenti più
memorabili e commoventi. Alcuni suoi dialoghi con i coach professionisti Paul
Cohen (Tony Goldwyn) e Rick Macci (Jon Bernthal) sono davvero da antologia. Su
tutti, la battuta in cui Cohen/Goldwyn osserva: «Sei la persona più cocciuta e
insopportabile che abbia mai conosciuto… e ho allenato John McEnroe!».
Una famiglia vincente – King Richard è uno dei migliori film
(non solo) sportivi americani degli ultimi anni. Sentito, sofferto, divertente,
non conciliato e struggente. «Questo mondo non ha mai avuto rispetto per
Richard, ma rispetteranno voi tutte!». E così è stato.
…Il problema con lo sport al cinema - soprattutto
quando e se americano - è il solito: la sua assenza. Anche quando è il fulcro
del racconto, il motivo per cui eroi ed eroine si dannano l'anima per
raggiungere i loro scopi. In King
Richard il centro del discorso è rappresentato più precisamente dal
protagonista, il "re" Richard Williams interpretato da Will Smith,
idolatrato dalle sue suddite (Venus e Serena) e talvolta inquadrato sotto una
luce sinistra giusto per rendere più scolpita e credibile la figura statuaria.
Fa però un certo effetto che nelle due ore e venti di film diretto da Reinaldo
Marcus Green e scritto da Zach Baylin, in cui il tennis dei primi anni '90
viene passato in rassegna, con attori e attrici che interpretano Jennifer
Capriati, Arantxa Sánchez Vicario, John McEnroe, Pit Sampras e allenatori come
Rick Macci e Paul Cohen, non si senta mai parlare di gioco, di stile, di
tattiche e colpi, ma semplicemente, come da prassi per l'individualismo
americano, di convinzione, volontà, umiltà e voglia di vincere. Manco a dirlo,
di tennis giocato se ne vede pochissimo, e di quel poco tutto è ricondotto al
singolo gesto, al colpo che delle straordinarie doti di Venus e Serena Williams
non dice nulla.
Lo sport - qualsiasi sport - si dimostra quindi impossibile da ricostruire al
cinema: perché la sua visione non è cinematografica; perché lo sport può e deve
fare a meno del montaggio; perché, ancora, una partita si basa sull'attimo
irripetibile e dunque è refrattaria per definizione al racconto e alla fine.
Per tutte queste ragioni - e in definitiva perché elude il centro del proprio
discorso, anche ammettendo che non è un film su tennis ma un film su un uomo - King Richard, al di là della veridicità
storica di molti suoi passaggi, è un'operazione mistificatoria. Il problema,
ancora, è che un film di finzione può infischiarsene dell'accuratezza, ma ha
l'obbligo di rendere credibile la costruzione dei suoi personaggi e del suo
mondo: e in questo, onestamente, King
Richard fallisce in pieno, a meno di non considerare la parola
"re" come una lente distorta attraverso cui giudicarlo.
Solo così si potrebbe accettare il ritratto agiografico di un uomo che
combatte contro tutti, non solo contro il mondo elitario e bianco dei circoli
di tennis, ma anche contro la moglie; la rappresentazione manichea delle
avversarie di Venus, sempre bizzose e incredule di fronte alla forza delle
futura campionessa; o ancora la tipica struttura drammatica che unisce senza
originalità la vita nel ghetto, il razzismo degli ambienti sportivi, il
classismo del tennis, lo spirito di rivalsa che anima Richard Williams e
alimenta il suo sogno.
La cosa meno accettabile del film è però un'altra ancora, e pure in maniera
sorprendente. Ed è la totale assenza, non tanto o non solo del tennis, ma delle
sue vere eroine, Venus e Serena, che nonostante la bella prova delle giovani
Saniyya Sidney e Demi Singleton (il film si ferma al 1994, alla finale del Bank
of the West Classic, quando la quattordicenne Venus perse in finale contro la
più esperta Sanchez Vicario) sono surclassate dall'ingombrante presenza del
padre e del suo interprete e ridotte a pupazzi in mano a un monarca egocentrico.
Non è dunque il solo Richard, come gli dice la moglie, a soffocare le figlie
senza credere alle proprie parole (nei suoi insegnamenti dice che «la creatura
più pericolosa di tutta questa Terra è una donna che sa pensare»), ma è il film
stesso, incapace di gestire il materiale sportivo e umano che ha tra le mani.
Più che un'occasione persa, King Richard è
un'occasione sbagliata, o peggio non richiesta; un film da non fare, perché non
abbastanza distaccato dalle cose e dalle persone che racconta e perché
inutilmente celebrativo di una vicenda sportiva che ha avuto ragione su tutto,
arrivando dai sobborghi neri di una città della California al tetto del mondo.
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