nel film si racconta dei Pentagon papers e dopo qualche anno sarà la volta del Watergate, la stampa libera non si fa comprare o spaventare, era davvero il quarto potere.
quei giornalisti furono eroi, esempi per la nazione e per il mondo, osannati da tutti (tranne Nixon e suoi complici).
dopo mezzo secolo, per aver fatto lo stesso lavoro giornalistico, Julian Assange viene scaraventato dal governo Usa nel girone subito prima dei quello della sedia elettrica.
chissà se i giornalisti eroi dei Pentagon papers e del Watergate hanno preso posizione sul caso Assange.
The post è un gran bel film, di quelle americanate dove i buoni sono buoni, con un po' di paura ma tanto coraggio.
Tom Hanks e Meryl Streep sono strepitosi, naturalmente, Steven Spielberg è un signor regista.
buona (giornalistica) visione - Ismaele
QUI la
storia vera
QUI il film completo, su Raiplay
…ci sono la mano e l'occhio
del più grande narratore per immagini vivente a fare di The Post
un racconto da caminetto che ci culla nella gioia della narrazione. Tutto si
muove in maniera sinuosa, tutto si incastra perfettamente, tutti gli elementi
scenografici e gli attori sono esattamente dove devono essere in ogni singolo
frame del film. In più c'è un'ampia dose di umorismo, a
tratti tenero e a tratti beffardo. Irresistibili, ad esempio, i siparietti
dedicati alla figlia piccola di Bradlee, che vende la limonata ai giornalisti
mentre questi discutono di “cose da grandi” nella villetta del direttore. Si
ride di gusto quando meno ce lo si aspetta e si prova affetto per questo
eterogeneo gruppo di persone unite non solo dalla causa comune, ma da un
affetto profondo che va al di là dell'intesa professionale. Persino il rimando
finale al Watergate, che in altri film sarebbe risultato pedante e inutilmente
didascalico, viene qui trattato più come una boutade conclusiva
che una morale scolpita nella pietra, con grande senso dell'auto-ironia…
…Ed è un diritto alla parola quello che
riafferma Katherine Graham, contro i suoi soci e consiglieri che vogliono
stringerla all’angolo, contro le pressioni di parte, le intimazioni dei
giudici, le paure degli avvocati. Una semplice parola – pronunciata da una
fantastica Meryl Streep che sembra voler smorzare gli applausi ancor prima di
sentirli – con cui la donna si smarca non tanto dalla sua condizione femminile, quanto dalla comoda acquiescenza
della sua posizione di privilegio, dal mutismo della connivenza, dal timore
degli affetti e dal cappio dei ricordi. Ecco, tutto è parola, come le storie raccontate da Lincoln che seminava i miti per il tempo a venire, come gli
accordi negoziati da James Donovan, da un capo all’altro del Ponte
delle spie. Perché
in principio era il logos. E il dialogo fonda e regge la democrazia, le
possibilità di convivenza, degli incontri ravvicinati di ogni tipo. Così come i
racconti reggono il cinema e l’architrave della Terra. A prescindere che si
dicano verità o si sognino utopie, la parola sposta il mondo.
… Che
Spielberg sia un grande storyteller, forse il più grande di quelli viventi, è
un fatto noto, ma la qualità del suo “pensiero” cinematografico sembra
procedere con la naturalezza e la freschezza tipiche della gioventù: nessun
movimento di macchina resta ingiustificato, nessun primo piano o leggero
ruotare intorno agli attori risulta meno poetico o significativo rispetto a
tutti quelli girati nei suoi (grandi) lavori precedenti, perché ad ogni film
Spielberg è come se rinnovasse l’amore verso l’arte in un bisogno di superarsi
e non accontentarsi mai. Il ritmo lento, ma assolutamente necessario per
l’incedere di questa sottotrama thriller, di The Post accompagna
scena dopo scena un racconto di una modernità impressionante, dove alle
tematiche sociali (la responsabilità della stampa, il coraggio di dire la
verità, la subordinazione delle donne in ambienti prettamente fallocentrici) si
lega intimamente la celebrazione del cinema come mezzo per comprendere attraverso
la costruzione, la fantasia, l’entusiasmo, il coinvolgimento emotivo e la
meraviglia…
…Torna dunque la scelta
morale, ultimo appiglio possibile là dove la struttura di una nazione mostra i
propri segni di cedimento più evidenti: la stessa scelta morale che era il vero
centro del discorso sia per Abraham Lincoln nella sua lotta per l’abolizione
della schiavitù che per l’avvocato James Donovan nella difesa della spia
sovietica Rudolf Abel. Lo stile di Spielberg si fa una volta di più netto,
quasi cristallino: gioca sullo spazio scenico sfruttando le fughe prospettiche
e nella sua moderna classicità si affida a una ripresa dall’alto per sottolineare
i dubbi e la volontà di emancipazione di Kay Graham. Perché il film racconta
anche – e non è affatto secondario come discorso – il passaggio per Graham da
una socialità passiva a una socialità attiva: nel suo prendere finalmente le
redini di un giornale che è suo di diritto ma che essendo donna ha ereditato
non da suo padre (che lo aveva lasciato al genero) ma da suo marito, morto
suicida alcuni anni prima, si avverte di nuovo quella spinta a voler sfruttare
l’escamotage temporale per raccontare le distonie di una quotidianità sempre
più mediocre e retrograda.
L’assunzione di responsabilità di Graham, che
riesce in un lento apprendistato a sganciarsi dalle zavorre maschili per
rivendicare il proprio diritto alla parola, e all’espressione, è un elemento
che non dovrebbe passare in primo piano. Graham, molto più del libertario
Bradlee e anche di quel Bagdikian che nel mezzo della tormenta riesce ad
ammettere emozionato “ho sempre sognato di far parte di una piccola
ribellione”, è l’esempio da seguire. Graham è
il paradigma di un mondo soffocante e soffocato che può ancora alzare la testa,
scardinare i concetti usurati e aprire gli occhi sulla propria condizione. In
quel sublime movimento di macchina – atto della retorica che mai fu più sano, sincero e doveroso –
che segue Graham mentre scende i gradini della corte di giustizia seguita dallo
sguardo attonito e ammirato di centinaia di donne più o meno giovani che sono
lì a contestare una cancrena dello Stato, c’è tutta la vis poetica e politica
di un’opera a suo modo capitale. Sulla questione il modo migliore di concludere
questa analisi è quello di affidarsi alle parole che Steven Spielberg ha
pronunciato a Milano durante la conferenza stampa del film: “Non sono un
sociologo o un esperto che possa parlare con competenza di un tema tanto
arcaico quanto quello della battaglie dei sessi, ma quello che posso dire è che
le donne in tutta la storia hanno cercato e talvolta sono riuscite a trovare il
loro posto, come è accaduto durante la seconda guerra mondiale in cui con gli
uomini al fronte le donne si sono ritrovate a guidare l’industria bellica e
navale. Finita la guerra però non hanno avuto la possibilità di capitalizzare
la propria esperienza, e non è stato loro riconosciuto il ruolo svolto: gli
uomini sono tornati a casa e le donne in cucina. Il problema è principalmente
un problema maschile, di uomini che non sono in grado di comportarsi
correttamente e finché i maschi non sapranno accettare il “no” come una
risposta questa guerra dei sessi continuerà. Io spero che il nostro film possa
essere di ispirazione per quelle donne che non hanno ancora trovato la propria
voce e che invece, dopo averlo visto, pensino: “Al diavolo, ora facciamo come
dico io”.
… Spielberg riesce a costruire con grande misura
l’intreccio narrativo, bilanciando l’aspetto thrilling
e di impegno civile del cinema d’inchiesta, senza la facile
retorica hollywoodiana, tanto che lo spettatore, nonostante sia a conoscenza, o
comunque si prefiguri l’esito della vicenda, sembra sempre aspettarsi un colpo
di scena. Un meccanismo ad orologeria perfetto che
riesce a girare magnificamente grazie alla maestria con cui vengono uniti gli
elementi, le interpretazioni magistrali degli attori, da quelli principali a
quelli che svolgono un ruolo secondario, la sceneggiatura (Liz Hannah e Josh
Singer, già autore di Spotlight),
la colonna sonora (John Williams), la fotografia (Janusz Kamiński, collaboratore storico di
Spielberg dai tempi di Schindler’s List),
la scenografia (Rick Carter) e una regia “trasparente”, un
linguaggio “classico”, (nel senso dello spazio e nella
composizione del quadro, nei movimenti di macchina interni all’inquadratura),
impercettibile, cala lo spettatore nella dimensione finzionale, facendo
ri-vivere il passato dalla posizione del presente.
Chiari e comprensibili sono certamente
i riferimenti all’amministrazione Trump e alla libertà di stampa, la
lotta alle fake-news, così come al movimento time’s up e alla
condizione della donna in un sistema di potere, che rendono il film estremamente ancorato allo scenario attuale.
Tuttavia The Post, nonostante sia centrato sulla parola (il potere alla
narrazione, epica, e alla parola stampata del giornale), attua un’articolata riflessione sui legami storici e culturali dei mezzi
di comunicazione attraverso una ricerca, e una ricostruzione, quasi
archeologica. The Post ci
mostra non solamente la redazione del giornale dove venivano riordinate le
informazioni e trascritti gli appunti, ma il luogo in cui venivano svolti i
processi di stampa, soffermandosi sull’attività delle macchine rotative,
tipografiche, che scuotono letteralmente l’intero edificio, l’ultimo passaggio
di una catena di montaggio che produce un documento concreto, tangibile nella
carta stampata. Analogamente il cinema attua un
processo di mediazione, di rivisitazione e, conseguentemente, di riscrittura
del passato, dando corpo a idee, gesti, movimenti e parole,
immagini che diventano veicoli di memoria culturale e storica.
scrive Vieri Razzini: http://www.teodorafilm.com/un-amore-tossico/
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