il dolore e il mistero, che è costretto a guardare in faccia, li attribuisce a un complotto, agli altri, non capisce che cosa succede, non può gestire la situazione.
è non può che crollare, e toccando il fondo non riesce a risalire.
Elio Germano è bravissimo, se non lo sapevate.
buona (profonda) visione - Ismaele
…Finalmente un film che non ci liscia il pelo. Che non ci dà prima le istruzioni per l’uso. Che non ci illude che vedere e guardare siano gesti facili e innocui. Che ci obbliga a metterci in gioco. Che si sottrae a quella bulimia del visibile che domina il nostro mondo finto-social per invitarci a rimettere in gioco la nostra capacità di immaginare. Per spingerci ad entrare in quel buio/vuoto/nero che – come suggerisce la locandina del film – c’è sotto quel guscio d’uovo che è la nuca del protagonista…
…I D'Innocenzo partono dal buio di una
coscienza per esplorare se vi sia la possibilità che una luce possa farvi
breccia. Non danno però (come non hanno mai preteso di dare) delle risposte,
chiedendo (ma anche qui non imponendo) ad ognuno una decodifica di una storia
che ha l'innegabile pregio di suscitare reazioni, evitando quindi il maggiore
pericolo di un'opera dell'ingegno: lasciare indifferenti.
Elio Germano è un attore meraviglioso. È inutile
elencarne le qualità, sono visibili a tutti. Quello che ci unisce è un rapporto
umano molto stretto, il più profondo avuto finora con un’altra persona che
“facesse cinema”. Un legame che si basa sulla fiducia e sulla sicurezza di non
essere mai giudicati. La voglia di piacere è la morte di ogni storia e di ogni
prova attoriale. Elio Germano è emotivamente nudo sul set, e noi con lui. Da
timidi non ce lo siamo mai detti, ma vogliamo bene alle nostre storture, una a
una. Senza esserne compiaciuti, accettiamo quello che siamo e siamo disposti a
mostrarlo senza sentirci sbagliati.
Fratelli D’Innocenzo
…Le musiche ipnotiche dei Verdena, il minimalismo e la claustrofobia della
messa in scena, la fotografia calibrata sul volto Elio Germano di Paolo Carnera
e l’elemento dell’acqua che ricorre continuamente nella vita del protagonista
sono solo alcuni degli indizi formali di America Latina, che
insieme a tanti piccoli spunti inseriti non casualmente nel racconto (le
telefonate al padre, i video delle lezioni di piano, il notiziario) possono
aiutarci a farci strada fra le pieghe del racconto, il cui maggior pregio è
paradossalmente anche un possibile difetto. La totale assenza di risposte e il
forte simbolismo dei D’Innocenzo possono infatti attrarre lo spettatore più
curioso e cinefilo, ma anche respingere o addirittura infastidire chi invece
preferisce storie più solide, centrate e conclusive. Anche questa è la bellezza
di un arte che si trasforma ogni volta attraverso il gusto e l’esperienza di
chi la fruisce, proprio come America Latina.
…America Latina resta comunque, nel
bene (tanto) e nel male (poco, ma si fa sentire), un esempio di cinema e di
visione d’autore potente e niente affatto disposto a venire a patti con il
mondo. Cinema puro, hitchcockiano nel senso più teorico del termine. La
combinazione, cioè, di interventi di natura puramente tecnica, il lavoro
sull’immagine, il sonoro, il montaggio, con l’imprevisto del fattore umano
veicolato qui da una recitazione fisica e molto nervosa, produce un’emozione
autentica…
…America Latina è
un film sull’amore, sul bisogno d’amore. Un film sulla vulnerabilità, lo
confermano proprio gli autori, che traballa nel terzo atto quando dovrebbe
tirare le fila del disagio del suo antieroe e dare un corpo più concreto ai
suoi fantasmi, alla sua crisi. Lo fa, ma in maniera non perfettamente
calibrata. Colpisce il bersaglio in modo impreciso, e si concede a uno
svelamento intenso, ma risolto forse con eccessiva rapidità. Poco male.
Federico Fellini sosteneva che non è importante che un film sia bello o brutto,
l’importante è che sia vitale. Forse sulla bellezza c’è una leggera forzatura,
ma il resto andrebbe scolpito nel marmo. America Latina è
un film bello, imperfetto, non facile, ma incredibilmente vitale.
…Verrebbe da pensare che ai
D’Innocenzo quasi non interessi narrare storie di per sé, quanto usare tali
storie come mezzo per ritrarre l’orrore a cui le persone sono in grado di
arrivare: il degrado senza fine, che in America
Latina non è più
sociale ma psichico.
Allora il quadro disperato che ne
esce diventa la constatazione di qualcosa che si sa e appare con chiarezza già
all’inizio del film: un lento scorrere, vuoto di contenuti, stracolmo di
apparenza. Un biancore sfocato di lenti indispensabili per osservare gli altri
e se stessi. Senza le quali il rischio è quello d’iniziare a vedere la realtà
per quella che è davvero, fuori e dentro di sé. E di aprire il vaso di Pandora
contenente ciò che di più ripugnante possa esserci in un uomo.
…L’irresolutezza è la cifra: il dubbio narrativo senza
beneficio poetico, il guadagno sospeso, come se il malessere non solo non
trovasse catarsi, ma nemmeno manifestazione compiuta, sfogo drammaturgico. È,
in fondo, un dramma da villa di complicata banalità, malcelata prevedibilità,
infida maniera: un film alla D’Innocenzo più che dei D’Innocenzo, probabilmente
viziato dal repentino successo, realisticamente condizionato dalla produzione
(The Apartment), dannatamente abbandonato a sé stesso. Disagiato più che
perturbante.
…La spirale discendente di Massimo procede
a rilento tra un dubbio e l’altro, tra paranoie e ossessioni persecutorie. La
sensazione opprimente che percepisce, però, non lascia mai i confini dello
schermo, rimane sullo sfondo ancorata al personaggio, non è in grado di
stimolare, di coinvolgere, di aggredire con le sue immagini. È poco
memorabile America Latina, con la sua
impalpabile messa in scena della crisi, di fatto retta solamente da un grande
Elio Germano, che da solo non può tuttavia salvare le sorti di un film incapace
di far fruttare le sue buone intuizioni.
In America Latina ciò che
importa è il trip visivo, l’impianto figurativo spurio verso lo sfondo (un bar
sfuocato, una rimessa di auto tagliata sullo stretto, interni privi di fronzoli
riconoscibili) attraverso il quale i D’Innocenzo (anche allo script)
trasformano la materia, orientano il senso, cancellano la parola, mantenendo
comunque viva l’attenzione su un rovello psicologico che avrebbe titillato un Bergman o un Antonioni.
Il film ha così un moto orizzontale ripetuto e continuo, uno scorrimento
gocciolante da sinistra verso destra come i titoli di testa su un’unica riga a
metà schermo. O un po’ come in quella inquadratura, immagine girata di novanta
gradi, simbolo dello stile dei bros. romani e sintomo del disagio del
protagonista, dove Massimo/Germano china la testa calva (somigliante in tutto e
per tutto al cuore di tenebra del colonnello Kurtz) al getto di una doccia
ripulente e l’acqua “scende” verso la parte destra dello schermo con effetto
antigravitazionale…
Tutto quello che succede potrebbe essere vero ma potrebbe allo
stesso tempo essere un’allucinazione, un pericoloso autodafé di Massimo frutto
di una pressione ideologica e normativa. Il collasso di un sogno, la
testimonianza di una resa di fronte all’effervescente instabilità che si
nasconde dietro ognuno di noi. Il racconto volutamente enigmatico lascia
libertà interpretativa allo spettatore, catalizzando l’attenzione sulle
splendide inquadrature che i fratelli D’Innocenzo orchestrano e sulle onde di
una narcosi ritmica e una pazzia riflessa che scaturiscono dalle note dei
Verdena a cui è stata affidata la colonna sonora. Non c’è niente di
rassicurante o di consolatorio in America Latina, un dramma oscuro concepito
con velenosa intelligenza per catturare i nostri tormenti, le nostre paure, le
nostre debolezze lasciandoci con più interrogativi che risposte.
…Il cinema dei fratelli
D’Innocenzo non fa sconti, né cerca indulgenza e, come nelle due pellicole
precedenti, pone delle istanze senza fornire risposte perché non è su queste
che si appunta la loro idea di ricerca formale e sostanziale che qui si spinge anche
oltre, verso una rarefazione del mero contenuto narrativo per ampliare ancor
più lo sguardo su, ma soprattutto dentro, lo strato emotivo. La materia che
maneggiano è, infatti, viva, irrequieta, sfuggente come la consapevolezza di
essere al mondo o in quella parte di mondo al quale l’essere umano tenta,
sovente con disperazione, di appartenere. Ecco allora che l’America Latina del
titolo diventa il luogo (s)confinato dove alberga la coscienza: dalle lontane
latitudini di un altrove da raggiungere fino al fosco territorio della
provincia più profonda.
Lungo questa traiettoria psicologica,
geografica e cinematografica – si rintracciano evidentemente gli echi della
cultura appassionata che caratterizza la formazione dei due artisti – si
sovrappongono piani di realtà e di immaginazione che amplificano desideri e
paure e rimbombano – alternando i suoni stridenti del sottosuolo alle melodiose
armonie del pianoforte – nella testa di Massimo che cerca, furiosamente, di
(ri)conoscersi.
In quella villa sghemba e bizzarra c’è
un mondo, il nostro, in cui spesso intravediamo il “nemico” proprio nelle zone
più familiari, nelle stanze degli affetti, nei corridoi dei ricordi o nei
giardini ormai spogli dell’infanzia. Quest’ultima infatti, insieme al dramma
privato di un certo tipo di genitorialità, attraversa il cinema dei registi
come un filo rosso che lega il racconto e l’immagine, il vero e il fiabesco,
l’amore e la morte.
Il talento dei D’Innocenzo si esprime,
anche stavolta, attraverso un’opera originale e spiazzante che fa della
bellezza, sia essa in un volto o nel cielo, una lama conficcata dentro la carne
della realtà: fa male ma non possiamo fare a meno di guardarla.
scrive Nicola Lagioia:
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