Ma
quale Gesù Bambino con Maria, il bue e l’asinello (Giuseppe onesto
artigiano, poverino, è sempre stato poco più di una comparsa). Quale Santa
Claus alias san Nicola di Bari. E Dio, il vecchio Dio “geloso”, sullo
sfondo anche Lui, nascosto dietro i regali sotto l’alberello luccicante. Per
gli adoratori di Mammona, cioè per quasi tutti, il Natale non si officia alla
Messa della Vigilia, perché a quell’ora danno “Una poltrona per
due” (Trading places, nel titolo originale).
La commedia
del 1983 diretta da John Landis – che non ringrazieremo mai abbastanza, più che
altro, per averci dato “Animal House” e “The Blues Brothers” – ha assunto
l’importanza di meme natalizio per eccellenza, appuntamento sacro del
piccolo schermo per grandicelli più che per piccini, dato che i pargoli di oggi
non sanno manco chi sono, Eddie Murphy e Dan Aykroyd.
Non interessa
qui l’analisi critica del testo cinematografico: il film è un bel film,
divertente, con scene particolarmente indovinate (la pantomima in costume
sul treno è da spanciarsi), altre meno (lo stupro da parte del gorilla è
rasoterra), con una succulenta Jamie Lee Curtis in topless a renderlo vieppiù
appetitoso, ma complessivamente non è niente di speciale. E allora? Com’è
che si è ritagliato un posto da classico di Natale? E perchè doverne
parlare?
Perchè sotto
traccia, zitta zitta nonostante l’immortale risata donata a Murphy dal
compianto doppiatore Tonino Accolla, la comedy statunitense fa
filtrare un messaggio che è l’opposto esatto di quel che il Natale
cristiano dovrebbe significare. Vale a dire che la felicità (parola
che andrebbe bandita a favore di una più prudente serenità, ma lasciamo
stare) si raggiunge grazie al denaro. A molto denaro. A montagne di denaro.
Meglio
ancora, in particolare, se guadagnato non “con il sudore della fronte” ma
speculando in Borsa, su beni alimentari, essenziali (le arance, nel caso
specifico). Per sovrammercato battendo in astuzia squalesca vecchie serpi di
quell’inferno sulla Terra che è il casinò finanziario, i fratelli
Duke (i deliziosi Ralph Bellamy e Don Ameche).
Sì,
d’accordo, c’è la morale edificante del clochard messo a sostituire
il manager pieno di carte di credito per dimostrare l’uguaglianza degli uomini.
Ma è un’uguaglianza molto americana, made in Usa, del povero che diventa
ricco sfondato grazie all’ingegno forgiato dalla fame.
Tutto gira
intorno alla ricchezza, immaginata come lasciapassare per una vita di nullafacenza
in una spiaggia paradisiaca a bere cocktail con l’ombrellino sotto le palme.
Teologicamente parlando, sarebbe corretto dire che trattasi di traduzione
comica della religiosità protestante, per la quale l’Eden è assicurato già qui,
prima di rendere l’anima al Signore, se uno “ce l’ha fatta”, se ha avuto
successo ammassando milionate sul conto in banca.
Con uno
sguardo psicanalitico, invece, potremmo ricordare che il Quattrino, generatore
simbolico di tutti i valori per il liberista, è, in fondo, merda. La
vita del liberista imprenditor di se stesso, che poi deve difendere
ansiosamente lo status e i surplus, è una vita di merda.
Ma non
addentriamoci in questioni che non ci competono, il punto è semplice:
la Natività, inizio di quella storia che ha cambiato la Storia annunciando
il primato del gratuito sull’usura (“avete fatto del Tempio una spelonca di
ladri”), nell’immaginario mediatico dei nostri tempi si riduce anche, e non
casualmente, a una furbata per sbancare il banco e nuotare nell’oro. Piccola cosa,
in fondo, certamente.
Viva Landis,
viva la comicità, abbasso il pauperismo moralista. Ma tenendo a mente che
niente, nella cultura di massa, è innocente. Perciò è parecchio sintomatico che
una pellicola sul dio Dollaro sia assurta a sinonimo, sia pur giocoso, della
notte santificata a un Dio che predica, a mezzo del Figlio, tutt’altro.
Significherà qualcosa.
Forse, che
inconsciamente è stato introiettata la mentalità per cui happy è
uguale a rich, e buono è chi sa fare soldi dai soldi. E in quella urla, in
quelle sgomitate, in quella concitazione da infarto (e infatti uno dei due
vecchi pescecani alla fine infartua), in quel gioco al massacro che è
Wall Street si impara che il Tempo, unica sola reale ricchezza, è soltanto la
variabile conteggiata in secondi per fregare il concorrente e accapparrarsi un
profitto stellare comodamente seduti alla scrivania, puntando alternativamente
sul Toro o sull’Orso.
Senza pensare
alle conseguenze sul mercato concreto. Cioè alla pelle della gente consumatrice
finale, che può impoverirsi nell’arco di una giornata a seconda delle strategie
del raider di turno che mira esclusivamente a gonfiarsi le tasche.
Riguardiamolo,
l’ultracapitalista cinepanettone dell’epoca
reaganiana, sure. Rideremo ancora come sempre abbiamo riso. Però,
magari, con almeno un occhio a quel che vuole dire senza dircelo. Ovverosia che
Sua Maestà l’Economia, questa Economia dove si schizza in alto fra i
miliardari senza altro merito che non sia l’essere abili a lucrare in una
roulette oggettivamente criminale, l’Economia che egemonizzato ogni spazio
compreso il Sacro mettendosi anzi al suo posto, è oggi la nostra Fede più
pervasiva. Tanto da insinuarsi in una innocua neo-tradizione per Millennials:
la centesima replica di “Una poltrona per due”. Un cult. Altro che culto.
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