martedì 31 agosto 2021

Quasi nemici – L’importante è avere ragione (Le Brio) - Yvan Attal

un film che parte dalle parole, che offendono, imbrogliano, convincono, persuadono. 

Neïla e Mazard si sfidano, si scontrano, si aiutano, si conoscono, di parlano, si rispettano, giocano a offendersi, parole, parole, parole.

quando escono dai libri e vengono pronunciate cambia tutto, diventano parte importante dei rapporti umani.

film che merita, con due attori che reggono con le loro parole, ma non solo, tutto il film.

buona visione - Ismaele



 

Sarebbe delittuoso non citare le formidabili performance dei due protagonisti di Quasi nemici, ovvero il monumento vivente del cinema francese Daniel Auteuil e la sempre più brava Camélia Jordana, che conferma le ottime impressioni suscitate in Due sotto il burqa. I due interpreti si caricano letteralmente il film sulle spalle, rendendo ogni sguardo speciale, ogni parola un messaggio ben preciso e ogni piccolo gesto una goccia di umanità che si fa strada fra l’astio e la diffidenza. A differenza di ciò che ci troviamo troppo spesso di fronte nel cinema contemporaneo, ovvero personaggi bidimensionali che immutati e fermi sulle proprie posizioni per tutta la durata del film, i protagonisti di Le Brio cambiano sotto i nostri occhi, maturando (nel caso di Neïla) e mostrando il loro lato più tenero (nel caso del Professor Mazard) ma soprattutto compiendo un arco narrativo degno di questo nome…

Quasi nemici si rivela un film di rara eleganza e intelligenza cinematografica, capace contemporaneamente di infastidire, divertire, fare riflettere e intenerire, rimandando sempre fedele al racconto e ai suoi personaggi. Un’opera da non perdere e da supportare, che con il mezzo della commedia ci ricorda dell’importanza di saper fare un passo indietro, mettendosi a disposizione del prossimo per uscirne sorpresi e fortificati. Un inno al cambiamento e allo scambio culturale e sociale, che pone efficacemente l’accento sulla necessità di integrarci e andare oltre ai nostri pregiudizi.

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Sotto la direzione del celebre attore Yval Attal, alla sua sesta opera da regista, Le brio non rinuncia a scene madri un pò troppo evocative di un cinema americano che ama farsi amare (la scena del discorso urlato sulla metro), e si crogiola, certo scaltramente e non senza ragione, sulla bravura di un duetto d’attori che spesso risulta esilarante, grazie ad uno scambio di battibecchi davvero riuscito e arguto, ove il grande Daniel Auteuil dà una ulteriore prova della sua impareggiabile verve da commediante. Tiene testa al celebre interprete, una Camelia Jordana che parte intimidita ed in sordina per volere del copione, fino ad esplodere con la sua grinta ed una verve di chi non ha nulla da nascondere o mandare a dire per interposta persona. La sua Neila fornisce l’occasione al film per darci un ritratto di una vita da banlieue ove l’agglomerato urbano tutto cemento e luoghi e piazzette di incontro fornisce agli abitanti l’occasione per fornirsi l’un l’altro un appoggio ed un sentimento di reciproca collaborazione che rende il film una occasione per fornirci uno spaccato meno scontato, ma comunque ugualmente realistico, di una vita da sobborgo possibile ed anche piuttosto tollerabile, ove il mutuo soccorso ed il sentimento di solidarietà, forniscono una valida ragione per lottare a difesa dei propri legittimi diritti di cittadino regolare e contribuente legittimo, attuale o addivenire. Radendo al suolo, con la dovuta apprezzabile ironia, ogni sin troppo scontato luogo comune ed ogni falso ed immeritato pregiudizio, e ritrovando, qualche anno dopo, una nuova manager del mondo della legge, trasformata in un regale cigno, padrone delle proprie azioni e delal propria naturale eleganza.

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Come le lezioni di Pierre Mazard sull’eloquenza si propongono di dimostrare, infatti, tutto il nostro comportamento parla di noi: il corpo, i gesti, il tono della voce, gli abiti costituiscono il biglietto da visita che comunica la nostra vera identità, insieme, com’è ovvio, alla parola che in sommo grado ha la capacità di comunicare e di convincere. Rifacendosi alla lunga tradIzione filosofica occidentale, dai sofisti a  Platone, per arrivare a Schopenhauer e alla sua Dialettica eristica – l’arte di avere ragione, il professore impartisce a Neila (e agli spettatori) molte brevissime e argute lezioni di retorica, supportate dai più grandi esempi letterari, in primo luogo dal grande Shakespeare. Il celeberrimo discorso di Antonio sulla bara di Cesare** diventa, perciò, l’exemplum su cui si costruisce il film, che forse è politicamente molto scorretto, ma sicuramente molto divertente ed efficacemente educativo nel ricordarci che l’uso consapevole dell’eloquenza non solo permette ai singoli individui di avere ragione, ma aiuta  a ottenere il consenso politico necessario e ambiguo per governare in tempo di democrazia. È un bene per tutti comprenderlo. Da vedere!.

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Quasi nemici – ma il titolo originale Le brio rende al film maggior giustizia – è una commedia di formazione tipicamente francese che strizza costantemente l’occhio al suo pubblico, facendo leva su situazioni accattivanti e un’atmosfera generale di ottimismo che rasenta il favolistico. Ogni personaggio assolve al proprio compito. Non solo per quanto riguarda Neïla e Mazzard, ciascuno mentore e allievo dell’altro, ma anche quelli minori: dall’compagno di corso di Neïla che, invidioso, rischia di compromettere definitivamente il percorso formativo del professore e della sua studentessa, al fidanzato di Neïla che, nella sua umile semplicità, aiuterà la ragazza a superare l’ultima prova nel momento di maggior sconforto.

Cinema prevedibile e rassicurante, insomma, ma non per questo incolpabile di essere brutto, anche se forse non sarebbe stato gradito a dei provocatori della parola come Serge Gainsbourg, Romain Gary, Jacques Brel, Claude Lévi-Strauss e François Mitterrand, tutti citati da Attal in apertura.

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domenica 29 agosto 2021

Hannah – Andrea Pallaoro

Charlotte Rampling non è solo la protagonista, è lei il film.

è una donna sola, il marito è in galera, non può vedere il nipote, deve dare il cane, è sola che più sola non si può, fa anche teatro, ma non basta a farla sta meglio, è una continua e implacabile discesa nella tristezza, nella depressione, nella solitudine nera, solo la morte le potrà dare tregua.

buona, triste, visione - Ismaele 


 

 

 

Optant pour une fixité presque absolue et une palette de couleurs froides (à l’image des tenues de Hannah), Andrea Pallaoro nous confronte littéralement à sa protagniste. Il porte le choix d’une approche naturaliste, impressionnant les gestes que pose Charlotte Rampling, habitée par un personnage dont elle transcende graduellement l’émoi sans craindre de se mettre à nu (un jeu d’autant plus délicat que le film comporte très peu de dialogue et que tout sentiment passe par le corps). D’abord spectateurs curieux, nous nous interessons moins aux raisons de l’enfermement du mari d’Hannah qu’à son ressenti. Aussi prétrifiés pouvons-nous être face à ce secret – dont la gravité se dessine dans la froideur d’un échange entre Hannah et son fils – nous faisons peu à peu corps avec elle dès lors que nous en percevons les failles. «Sensationnelle», elle nous habitera longtemps encore après le générique de fin.

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Hannah es un retrato intimista del dolor y la soledad de una mujer; es un sutil ejercicio de estilo basado en la elipsis y la oposición; es un análisis crítico del rol del sexo femenino en la sociedad patriarcal; es una metáfora con visos kafkianos del sinsentido de la existencia… y es mucho más. A simple vista, empero, y en la estela de su desigual debut en el ámbito del largometraje –v. gr. Medeas (2013)–, la última película del director italiano Andrea Pallaoro es meramente el minimalista dibujo del día a día de la protagonista de la historia, Hannah (una soberbia Charlotte Rampling), tras el ingreso de su marido en prisión por un delito que nunca se acaba de precisar pero que, por un conjunto de información sesgada que va diseminándose a lo largo del metraje, está vinculado al abuso de menores. Con semejante premisa, un filme más convencional habría ahondado en el distanciamiento de ambos cónyuges o en el rechazo social que, ante este tipo de delitos, padece una persona con independencia de su inocencia o de su culpabilidad. Si bien es cierto que ambos elementos están presentes en la narración, a Pallaoro sobre todo le interesa incidir en el conflicto interior de Hannah, cuyo periplo es una lacerante trayectoria de descenso a los infiernos por el hecho, simple pero crucial, de seguir adscrita al papel que lleva representando toda su vida…

…es inevitable no pensar asimismo en el clásico de Chantal Akerman Jeanne Dielman, 23, quai du commerce, 1080 Bruxelles (1975). Como en este, Pallaoro incide en la vacuidad que encierra la rutina diaria de la protagonista, bajo la cual se ocultan su rabia y su frustración. En última instancia, es posible rastrear en Hannah a otras heroínas trágicas de la ficción, como la Gertrud (1964) de Carl Theodor Dreyer –en su consciente alejamiento de la realidad– o la Mija de Chang-dong Lee en Poesía (2010), abocada igualmente a la soledad y la incomprensión en la edad en la que más apoyo habría de menester y asida solo a la única ilusión de unas clases para adultos…

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Hannah es una película que no funcionaria en absoluto sin la magnífica actuación de Charlotte Rampling que le valió el premio a mejor actriz en el pasado festival de Venecia. Ella se encarga de que todas sus acciones por pequeñas que sean estén condicionadas por todo la trama en off que carga sobre sus espaldas. Conseguimos aproximarnos a ella de una forma física como psicológica y sentirnos desesperados. Su único defecto es que la pasividad de las acciones, el ritmo en que suceden y los pocos estímulos que prevalecen nos acaben desconectando de ella.

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Andrea Pallaoro tenta la difficile operazione di mettere in scena l’isolamento, la desolazione interiore e il dolore dovuto al progressivo sgretolamento della vita sociale della protagonista. Nonostante la solita formidabile prova di Charlotte Rampling, di diritto fra le pretendenti per la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile, Hannah si rivela un’opera ostica e spossante anche per gli spettatori più navigati, a causa di una messinscena fredda, statica e dai tempi eccessivamente dilatati, che alla lunga creano un totale distacco fra ciò che avviene su schermo e chi lo guarda.

La macchina da presa segue discretamente e con approccio minimalista la triste esistenza di Hannah, servendosi di lunghi piani sequenza e dell’espressività della Rampling per dipingere il lento inabissamento e l’inesorabile estraniazione della protagonista, vittima dei propri demoni interiori e di un insopprimibile disagio di vivere…

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Hannah nos muestra a una Charlotte Rimpling que está en estado de gracia, pocas veces ha estado mas autentica y su interpretación pone la piel de gallina, parece mentira que sea un joven, y desconocido, director italiano que haya sacado lo mejor de ella. La actriz francesa está inmensa y refleja como nadie el dolor interno de alguien que se está desmoronando y sabe que va a tocar fondo, no hay marcha atrás. La cámara se enamora de la actriz, la devora y le sigue hasta retratarla de una manera brillante que se agudiza gracias a la magnifica fotografía de Chayse Irvin, un artesano de la fotografía donde cada trabajo parece sacado de distintas miradas, ganas tenemos de ver su ultimo trabajo junto al polémico Spike Lee.
Andrea Pallaoro dosifica de manera inteligente un relato que con aportaciones mínimas consigue interesar al espectador que quiere saber más y desgraciadamente no siempre el director da toda la información necesaria. Somos conscientes que es una película no apta para todos lo públicos en buena medida por la arriesgada propuesta elegida donde nada parece avanzar y si el espectador se muestra impaciente es posible que se sienta engañado y consiga indignarse por la lentitud de lo que nos expone el director italiano. Si por lo contrario este se deja llevar uno acaba seducido por una propuesta que resulta incomoda en el planteamiento a la vez que fascina como nos lo va contando.
Brillantemente rodada, no tanto en lo narrativo, Hannah es un brutal reflejo de una sociedad que prejuzga de antemano y no da opción a la defensa. Una película que como una ecuación de matemáticas nada parece tener sentido cuando se empieza pero que al finalizar uno se da por satisfecho por haberla resuelto y entender lo que nos propone el autor en la obra…

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venerdì 27 agosto 2021

Il disordine - Franco Brusati

Mario (Renato Salvatori) è il collante delle storie che si susseguono, prima una casa di ricchi, con tanti problemi e avvenimenti, poi sembra che il film stacchi e si entra in un secondo tempo, nel mondo dei poveri e degli strani personaggi che stanno lì.

l'unica comunicazione dei due mondi è che ai ricchi servono i poveri da sfruttare e ai poveri servono le briciole che i ricchi lasciano cadere.

non esiste lotta (di classe), i poveri sono rassegnati, il mondo va così.

sembra un film confuso, disordinato, in realtà sono la vita e il mondo disordinati.

nella prima parte ci sono le pene dei ricchi, nella seconda le pene dei poveri, che sono molto diverse.

inquietante il personaggio del prete/non prete, nella sua smania di salvare il mondo e ciascuno, fallendo miseramente.

un gioiellino da riscoprire.

buona visione - Ismaele

 

 

 

 

“Ho l’impressione che tutti noi siamo alla ricerca di qualche cosa nella vita, che esiste perfetta e intangibile altrove, e di cui viviamo soltanto una pallida copia. Ecco per me l’incanto della vita è quel qualcosa che mi sfugge” - Franco Brusati

 

 

…bisogna guardare a Il disordine senza quelle lenti ingannatrici, per quello che vale, per quello che è, per quello che voleva essere, non certo il calco di un altro film, o almeno per come ci appare oggi. Allora se ne possono apprezzare le finezze narrative, la capacità rara nel cinema italiano di consegnarci un ritratto della nostra borghesia al di là dei cliché caricaturali di tanta commedia del e sul boom…

…Siamo, nel Disordine, più che dalle parti di Fellini in zona Antonioni, con quella villa aristocratica fuori Milano (è la Borromeo di Arcore: no, non casa Berlusconi) fotografata in bianco e nero con dentro i suoi padroni, i servi, con gli ospiti di una festa notturna che non può non ricordarci quella della Notte. Film corale, film affresco, di storie e persone che si intersecano, si incontrano e si riperdono, e a fare da pivot il giovane uomo Mario (lo interpreta Renato Salvatori, allora all’apice della carriera) che, in cerca di un lavoro per mantenere se stesso e la madre malata e non più autonoma, finisce nelle cucine dei ricchi…

…Brusati resta lontano da ogni cinema di indignazione, rivendicazione, denuncia civile (quel covo di reietti intorno al prete è alquanto ambiguo, niente a che fare con le figurine edificanti della propaganda proletaria), a lui interessano solo i complicati arabeschi tracciati dalle esistenze, le delusioni, le illusioni, gli inganni, la felicità sempre perseguita e mai raggiunta. E la penombra più che la piena luce…

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Brusati è un Visconti in micro (la decadenza della villa) che immerge la sua piccola Dolce vita milanese in un'atmosfera fosca, plumbea, algida e notturna. Cinico, all'occorrenza spietato, morbosetto, sonda il lato perverso della borghesia e dei reietti (omosessualità, travestismo, ragazzette raccolte per strada di notte, preti spretati dai chiaroscuri inquietanti). Inizio noiosetto, ma poi il film avvolge nel suo angusto livore, con immagini di gran bellezza estetica (quasi pre-greenawayana la portata del suino) e dolorosa la parte all'ospizio che anticipa quella dell'Esorcista.

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… Il disordine lascia lo spettatore con una sensazione di spaesamento, di mancanza. E’ mancata la storia, sono mancati i protagonisti; e quello che succede appare perlopiù fuori luogo e anche ingiusto, forse anche senza una ragione (che Brusati non si premura certo di chiarire). E’ un problema se la coppia di giovani eterosessuali non si ricompone, ma lo fa quella omo? E’ giusto che il prete dia tutti i soldi alla vecchia madre di Mario, lasciando le altre povere donne nella miseria? E lo stesso falso prete non sembrava certo un modello di rettitudine, visto che permetteva la prostituzione nella sua casa: ma quando vediamo le ruspe abbattergliela, possiamo dirci soddisfatti?
Questi interrogativi lasciati sospesi, se è vero che le domande sono spesso più interessanti delle risposte, sono una testimonianza del valore de Il disordine.
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Particolarissimo, non rivolto a un solo ceto sociale perché li abbraccia davvero tutti ed eccezionale per simbologia. Si parte dall'aristocrazia come unica classe, che può scialacquare intere fortune accumulate da un capostipite, ma da lì si dipartono schegge minori, che con bugie o mezze verità cercan sempre qualcuno su cui appoggiarsi o da fregare; salta fuori perfino il tabù dell'omosessualità. Alla fine un buon samaritano si priva di tutto pur di mantenere le promesse, ma a quel punto il passo successivo di questo disordine è la distruzione...

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…brusati racconta la crisi di un paese che sembra lanciato verso un futuro luminoso, nel suo momento di maggior successo a nemmeno vent'anni dalla fine della seconda guerra, con uno stile altalenante tra l'enfasi e il meditativo.

ricchi o poveri che siano stanno tutti male dentro, anche se poi i ricchi cadono su di un comodo cuscino, mentre invece i poveracci non sono ancora riusciti a risollevarsi dalle macerie del conflitto, che si accorgono che vi sono ancora in mezzo e ne vengono travolti, nel vorticoso e tremendo finale.

brusati usa eleganti movimenti di macchina per inquadrare i suoi protagonisti, come nella scena allo specchio di alida valli, o il fluido camminare di antonella lualdi alla festa dell'amico tom, e poi li lancia in scatenate scene forsennate e disperate, dove la disperazione dell'individuo si sfoga sull'amico che non la sarà mai più, e forse non lo è mai stato…

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mercoledì 25 agosto 2021

Come sono buoni i bianchi - Marco Ferreri

gli Angeli azzurri sono un'associazione umanitaria che ha mandato dei camion di alimenti (non sappiamo la data di scadenza) nel Sahel, come sono buoni i bianchi.

ma non va tutto bene, ci sono tanti intoppi che vengono risolti pagando.

non ci sono più i buoni selvaggi di una volta, sembra, anche loro fanno parte a pieno titolo del mondo globalizzato, e anche le tradizioni loro stessi le riprendono con una videocamera e lasciano il loro messaggio.

i buoni bianchi civili, secondo i loro standard, chi per lavoro, chi per noia, chi perché non ha niente di meglio da fare affrontano l'impresa umanitaria, portano i doni.

tanti attori famosi in un piccolo grande film. 

viva Marco Ferreri.

buona (umanitaria) visione - Ismaele

 

 

 

QUI il film completo

 

QUI un documentario sulla lavorazione del film

 

 

 

La scelta dei personaggi di Ferreri e del suo fido sceneggiatore Rafael Azcona è fortemente ideologica: tra i componenti della spedizione praticamente nessuno è mosso da vero interesse per le sorti africane, tra madri in crisi esistenziale che identificano nella fuga nel deserto una possibilità di ritrovarsi, isterici capi-spedizione animati da profondo disprezzo verso l’altro, e varie altre cialtronerie. Più di ogni altra cosa, sembra premere a Ferreri la messa in evidenza di un macroscopico errore di valutazione del mondo occidentale. Accecato dal suo imperituro atteggiamento coloniale, all’Occidente sfugge che pure le culture “altre” non sono più ingenue come una volta (se mai lo sono state), e che la continua iniezione di omologazione condotta dall’Occidente sul Terzo Mondo può ritorcersi contro l’Occidente stesso. Così, ogni momento di difficoltà si risolve con uno scambio puramente capitalistico, e per uscire da una delle crisi maggiori non c’è bisogno di tirar fuori casse di pomodori, ma tornano più utili una radio e le pile elettriche. Del resto, fascinose principesse del deserto conoscono più che bene l’emisfero ricco del mondo, tanto da passare in Italia per dedicarsi alle sfilate di moda. Ci avete derubato della nostra cultura, ordunque nello scambio che ci avete insegnato vi dimostriamo che siamo più bravi e scaltri di voi.

Il discorso di Ferreri e Azcona si svolge dunque con chiara intelligibilità e affidato al consueto acume di analisi e rovesciamento grottesco. Il finale mette in scena una sorta di “vendetta naturale”, in cui la fame che l’Occidente vorrebbe sanare trova sì soddisfazione, ma secondo i modi di una cultura ancestrale. I pomodori potete riportarveli a casa, a noi interessa altro. Di più: seguendo una linea fertile del cinema ferreriano, Come sono buoni i bianchi rimette in scena un’intera cultura ricca e crassa che divora se stessa. Affamando un’enorme parte di mondo, l’Occidente non fa altro che creare le premesse per la propria autodistruzione, innescata in modo decisivo dall’esportazione di un unico modello di vita e pensiero…

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… Ferreri non tradisce il suo stile e, accompagnato anche in Come sono buoni i bianchi dalla penna di Rafael Azcona, mostra la faccia ipocrita delle spedizioni umanitarie composte da persone che si recano in Africa, ancora pervase da un esotismo quasi ottocentesco, cercando qualcosa che possa cambiar loro la vita: una terra vergine che aiuti a dimenticare, cambiare, ricominciare. Invece Ferreri mostra, calcando la mano, anche i vari volti dell’Africa deturpata dalla corruzione e dalla mentalità europea che ha portato loschi affari, droga e contraddizioni. Il continente africano, però, è allo stesso tempo orgoglioso e rifiuta queste missioni umanitarie cariche di falsa pietas e che spesso sono la facciata candida di loschi affari.

Eccessivo, sarcastico e provocatore, Ferreri descrive l’Africa senza mezzi termini, esagerando per turbare e infastidire. Come sono buoni i bianchi ha un soggetto e una sceneggiatura forti, irriverenti e per questo particolarmente interessanti, anche se non sostenuti sempre dal cast nel quale compaiono, tra gli altri, Michele Placido, Maruschka Detmers, Michel Piccoli e Nicoletta Braschi, non sempre perfettamente a loro agio…

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lunedì 23 agosto 2021

Gli indesiderati d'Europa - Fabrizio Ferraro

la lista incalcolabile di chi è stato in fuga (e però non è riuscito a superare la frontiera, morendo nel 1940) comprende anche Walter Benjamin, che cercava, come tanti, di salvarsi.

il film ne racconta l'ultimo giorno, la fatica, la paura, l'ansia, il terrore, la disperazione, la rassegnazione, lo sforzo, il pensiero, la gentilezza, l'altruismo.

Euplemio Macri è perfetto per la parte di Walter Benjamin.

buona visione - Ismaele


allora le frontiere erano fra uno stato europeo e l'altro, tutti potevano/dovevano emigrare, sia pure con difficoltà, anche in altri continenti, erano bianchi, buone teste e buoni muscoli, servivano tutti, poi sono nati muri e fortezze, per i latinoamericani, gli africani e asiatici, dopo i siriani toccano agli afgani i titoli dei (tele)giornali, in Europa.


 

QUI  il film completo, su Raiplay

 

 

Film particolare Gli indesiderati d’Europa, frutto di una scelta formale e narrativa radicale, caratterizzata, anzitutto, dalla quasi assenza di dialoghi, dal suono del silenzio interrotto soltanto dai respiri affannosi dei protagonisti e dalle profonde riflessioni di Benjamin sulla Storia e sull’uomo.
Anche l’uso della macchina da presa risulta originale: Ferraro preferisce riprendere i suoi personaggi in lunghi piani-sequenza affiancandoli, nel loro andare sulla Route, con carrelli laterali e, soprattutto, seguendoli a distanza molto ravvicinata con carrelli in avanti.
A volte la stessa camera si ferma improvvisamente, piantandosi in un punto e lasciando che gli altri proseguano da soli, come se fosse lo stesso operatore di ripresa ad essere stanco ed estenuato.
È questo – unitamente all’uso del sonoro teso alla sottolineatura dei rumori di fondo – il modo scelto dall’autore per produrre nello spettatore l’effetto immedesimazione, per immergerlo nella scena e ottenerne la partecipazione quasi fisica…

Gli indesiderati d’Europa è un racconto difficile da giudicare. Complicato ed estenuante, offre una visione coraggiosa del cinema che rifugge programmaticamente da ogni vellicazione commerciale, non concedendo nulla al diletto dello spettatore, qui chiamato a “fare” il film piuttosto che a guardarlo.
Lodevole, dunque, per il suo voler essere diverso, per la ricerca di una nuova estetica cinematografica, il film presenta, nondimeno, eccessi difficili da metabolizzare, risultando oltremodo ermetico e scarsamente fruibile. Ne risente il messaggio di fondo, che rischia di giungere debole a chi osserva/partecipa, fiaccato dalla lentezza eccessiva e da un’ombra di intellettualismo che forse si poteva risparmiare.

Immersivo e sfidante.

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En esos senderos camina Walter Benjamin (Euplemio Macri de un impresionante parecido) y en esa línea de fuga, en ese paisaje, el filósofo desaparecerá. Los últimos y extremos pasos de Benjamin, al lado de Lisa Fittko (la Catarina Wallenstein de Singularidades de uma Rapariga Loura, de Manoel de Oliveira), son precisamente oídos y observados por Ferraro en una línea doble, próxima y lejana, en el momento presente del avance en dos direcciones en las que el “va y viene” de las imágenes, su “fuga”, movimiento benjaminiano por excelencia, se cruza con el acto concreto y político de filmar, que abre la duración, el despositarse de un tiempo del pensamiento. ¿Qué pasado o qué paisaje se vuelve actual y se inscribe en el blanco y negro material y al mismo tiempo nebuloso del film? Un paisaje que se encarna en el pasaje, que dilucida un trabajo extenuante, lúcido y persistente de la cámara que, como ocurre a menudo en el cine de Ferraro, asume la valencia y la corporeidad paradójicamente fantasmática de las líneas espaciales y del sentir físico de los actores-presencia que parecen empujados por la cámara (3).

Pero no sólo el paisaje es central en el film. La traducción en términos fílmicos del pensamiento mismo de Benjamin en el momento más trágico de su existencia es el objetivo profundo del trabajo de Ferraro. Cine y pensamiento se cruzan de un modo muy particular en la película. El esfuerzo de caminar, que en Ferraro es tangible por medio de las largas tomas en los senderos de la montaña (encuadres con cámara en mano, en los que el sonido permite percibir la respiración afanosa, el rumor de los pasos y de las mochilas, la fatiga, la duración), es un gesto casi herzogiano, incluso con el sentido invertido…

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sabato 21 agosto 2021

Nina - Elisa Fuksas

un film geometrico, visto che l'architettura è una protagonista.

Nina è una ragazza che attende, è indecisa, tutto può succedere, la spaventa l'amore, il futuro è un'incognita, la persona con cui si diverte di più ed è più sincera è un ragazzino di una decina d'anni, c'è anche un cane, ma lui parla poco.

un'opera prima interlocutoria, ma c'è stile.

buona visione - Ismaele

 

 

 

Le giornate di Nina sono cariche di desideri e di domande al cielo, e vuote di punti di riferimento stabili: non ha un lavoro e non sa che cosa vuole diventare da grande, prova tutto il giorno a fare qualcosa senza mai riuscirci fino in fondo. La sua condizione di vita sospesa trova il palcoscenico perfetto nelle quinte metafisiche del quartiere Eur, il tono surreale delle sue giornate è riecheggiato all'infinito dalle ambientazioni alla De Chirico e punteggiato da occasionali evocazioni felliniane, vedi la coppia di suore che scivola via senza lasciare traccia.
Purtroppo anche il lungometraggio di esordio di Elisa Fuksas, figlia dell'architetto Massimiliano (doveroso specificarlo, visto quanto l'impianto visivo del film è influenzato dalla costruzione urbanistica), scivola in superficie senza andare in profondità, collezionando immagini di grande cura compositiva ma di scarsa risonanza interiore.
L'originalità della regia consiste soprattutto nella temerarietà che spinge i personaggi di Nina a confrontarsi con i margini dell'inquadratura, rapportandosi allo spazio orizzontale come ai confini di una scatola magica. Anche nell'uso consapevole delle luci (mai scontato nel cinema contemporaneo italiano) Fuksas rivela una ricerca espressiva non causale. Ma l'eccessiva attenzione alle forme, alle linee, all'edificazione di ogni singolo frame si trasforma presto in un'ossessione estetizzante sempre più desaturata di significato

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Il film fallisce in ogni suo tentativo di astrarsi, di farsi racconto visivo, poema rarefatto e geometrico dell’animo. Un oggetto per forza di cose senza amore, che non si strugge nemmeno del suo non riuscire a farsi racconto dolente, ma anzi un po’ ne gioisce quasi: il suo fallimento sta proprio nel non voler affrontare mai sul serio questa distanza autodisciplinata, preferendo tentare invece di darle una forma asettica e il più possibile minimale…

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…Si parte dalla realtà per raccontare i desideri, le fantasie, la poesia. Delle cose e delle persone. Per scoprire che in un’estate divisa tra chi parte e chi resta, c’è chi non parte e non resta. Quelli come Nina, che vede la realtà per trasformarla in immaginazione. Il mondo di una storia che ha una geografia fantastica, fatta di cose piccole e semplici, di sudore, di ideogrammi, di determinazione e di indeterminatezza. Di buio denso e sole abbagliante. Ogni contrasto e contraddizione è un’opportunità di futuro in questo agosto. Dove tutto è davvero possibile, anche capire che l’unica cosa che davvero conta è quella a cui prima non avevamo mai pensato…

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Nina è la storia di una solitudine, quella della giovane del titolo che, in una Roma agostana mai così vuota – la capitale da alcuni anni a questa parte non vive più l’esodo estivo di un tempo – deve prendersi cura degli animali di un amico partito per le ferie e si ritrova così a gironzolare per l’EUR, il quartiere dove si trova l’appartamento. Questo suo viaggio in una Roma a lei sconosciuta le permetterà non solo di fare la conoscenza con un’umanità bizzarra almeno quanto le sue abitudini, ma anche di riscoprire qualcosa di se stessa che aveva smarrito con il passare degli anni.

Su questa trama quantomai basica, la Fuksas avrebbe potuto costruire miriadi di film, l’uno diverso dall’altro: la strada che intraprende, quella del congelamento della narrazione a favore di un accumulo di sequenze stralunate, esemplifica con una certa precisione l’indole della regista e le proprie pretese autoriali. Nina non ha trama (o per lo meno la riduce all’osso, asciugandola di ogni possibile approfondimento sottotraccia) perché, secondo la Fuksas, questa dovrebbe scaturire in maniera pressoché inevitabile dalla messa in scena e, in seconda battuta, dalla maestosità architettonica dell’Eur…

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… Al contrario di Nina, che compie un percorso interiore per affacciarsi alla vita, Elisa Fuksas resta ingabbiata nelle sue splendide inquadrature. Attenta a fare di ogni scena un'opera d'arte, se non un contraltare o una replica delle emozioni della sua protagonista, la regista non si sporca le mani, non respira l'odore del sangue come un lottatore nell'arena. Tradendo la sua matrice di studentessa di architettura passata al cinema, fatica un po' a imporre i suoi contenuti, raccontando la favola senza soffermarsi più di tanto sulla sua morale.

E allora il film arriva soprattutto grazie a 
Diane Fleri, fortemente in parte forse in virtù di una grande somiglianza con il personaggio.
Anche l'umanità sfiorata da Nina ha un fascino particolare: poche e semplici pennellate rese vivide dalla simpatia di 
Ernesto Mahieux e dalla verve di un Luca Marinelli che è sempre piacevolissimo rincontrare. Altalenante e sospeso come la ragazza dai capelli corti che tutto lo attraversa, Nina è comunque qualcosa di diverso e di nuovo: una rottura degli schemi narrativi e delle regole che sovente fanno dei nostri film prodotti fin troppo prevedibili e riconoscibili.

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After Migration: Calabria - Walé Oyéjidé & Jake Saner

 


venerdì 20 agosto 2021

I demoni – Lamberto Bava

i demoni zombie alla conquista del mondo.

hanno bisogno di moltiplicarsi e si inventano una proiezione evento in un cinema di Berlino (viene da pensare al cinema Statuto di Torino, due anni prima del film di Lamberto Bava).

ottimi effetti speciali di Sergio Stivaletti, tensione altissima, i 4 tedeschi che appaiono a un certo punto c'entrano poco e niente, nessuno è perfetto,

il film nel film e dietro il film è una bella trovata, ben giocata.

e tante scene sono davvero notevoli.

non è un capolavoro, ma si vede bene, promesso - Ismaele

 

 

 

 

Attenti, non indossate quella maschera, diventereste dei demoni. Una ragazza ha la brutta idea di mettersi sulla faccia la maschera di un mostro protagonista dell’horror che sta per vedere in un cinema di Berlino. Sarà solo l’inizio di una catena di sventure per i personaggi di questo film che, prodotto da Dario Argento, rivelò nel 1985 il talento registico di un ragazzo con il cinema horror nel dna, Lamberto Bava, figlio del grande Mario. Buonissimo successo, anche sui mercati esteri, e film subito adottato dai fan del genere come uno dei migliori horror mai realizzati dal nostro cinema.

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Dèmoni è la crème de la crème del cinema horror italiano degli anni ottanta: dirige, come si diceva, Lamberto Bava che scrive la sceneggiatura con Dario Argento (che produce anche la pellicola), Franco Ferrini e Dardano Sacchetti (dietro gli script di alcuni cult come Reazione a CatenaIl Gatto a Nove Code e Paura nella Città dei Morti Viventi).

Dovremmo essere orgogliosi del fatto che il cinema italiano abbia prodotto film come questo, invece c’è chi ancora adesso – soprattutto dalle nostre parti – valuta questa pellicola (o altre simili girate nello stesso decennio) come pura spazzatura. Nel corso degli anni, rispettati registi come Quentin Tarantino hanno dato il giusto risalto a lavori come questo tributandoli a più riprese nelle loro opere, fortunatamente.

E non dimenticate mai… faranno dei cimiteri le loro cattedrali, e delle città le vostre tombe

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Il più delle volte i film di genere (horror/splatter) soprattutto negli anni ottanta sono stati massacrati e snobbati,all'epoca in cui uscirono tutti i film più famosi che poi hanno lasciato un segno indelebile nella storia sono stati considerati orridi e i registi che li creavano scambiati per buffoni,è il caso di grandi come Fellini,Cronenberg,Carpenter,Lucio Fulci,Mario Bava e anche il figlio Lamberto Bava,che con Démoni segna un modo di fare horror,le sue creature infatti verranno copiate da tutto il mondo e entreranno nell'immaginario collettivo. Eppure questa pellicola continua ancora oggi ad essere massacrata dalla critica e dal pubblico entrambi sempre più stupidi e sempre più incompetenti. Questa pellicola di genere è veramente sorprendente e penso che sia fondamentale per farsi una cultura cinematografica quantomeno sull'horror post anni ottanta. Lamberto Bava gira come se ogni inquadratura fosse l'ultima (questa frase la devo al mio caro mentore) e con una perizia e lucidità registica almeno pari a quella del padre se non anche superiore a mio modesto avviso,abbiamo infatti carrelli,primi piani,inquadrature che vanno nel dettaglio a descrivere le scene più sanguinolente,come se il regista volesse spiegarci in maniera schematica su che livelli avviene la trasformazione,e qui non si possono non citare i grandiosi effetti di Sergio Stivaletti che visti ancora oggi nel 2013 sembrano veri e non lasciano il minimo dubbio che ciò che stiamo vedendo stia veramente accadendo,per di più riescono ancora oggi a impressionare e disgustare…

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Uno degli horror indimenticabili degli anni ottanta. Bava junior dirige un film incalzante e ricco di ottimi effetti speciali (per l'epoca all'avanguardia). La cosa principale da sottolineare è l'idea dell'ambientazione in un cinema. Si va al cinema e si assiste ad un susseguirsi di eventi orrorifici ai danni di ignari spettatori a loro volta seduti in un cinema a visionare un film sul grande schermo, insomma un gioco di specchi intriso di sangue, musicato da pezzi heavy metal che stordiscono l'ignaro spettatore.

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ciò che resta impresso nella mente di Demoni sono gli straordinari effetti speciali di Sergio Stivaletti. Memorabile la scena in cui un demone dal “look” luciferino esce dalla schiena di una donna infettata. Da ricordare anche la trasformazione da umano a demone di una vittima, con ripresa in primo piano delle zanne che scalzano via i denti umani. Presenti dose massicce di splatter, quali decapitazioni con spada in stile Kill Bill, scalpi, vomiti vari e altre amenità varie

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Uno dei più truculenti horror italiani e probabilmente il lavoro migliore di Bava jr. In un misterioso cinema del centro di Berlino una ragazza indossa una strana maschera dall'aspetto demoniaco; sarà l'inizio di un'inimmaginabile sequela di orrori, nei quali si troveranno loro malgrado coinvolti quattro giovani spettatori. Ottimo horror d'assedio, molto debitore a Romero e Raimi, rievocandone le stesse sensazioni di claustrofobia e angoscia. Una colonna sonora heavy metal potentissima ed SFX assai disturbanti completano la confezione. Da non perdere.

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giovedì 19 agosto 2021

Senza nessuna pietà - Michele Alhaique

ricorda un po' la storia raccontata nell'eccezionale Mona Lisa, di Neil Jordan, con un grandissimo Bob Hoskins.

certo, i due film sono di altezze diverse, Michele Alhaique non è Neil Jordan.

Favino (Mimmo), che non è Bob Hoskins, ha un ruolo non facile, il gigante delinquente e un po' tonto, ma con dei principi inderogabili, e Tania è una puttana un po' bambina, che Mimmo sente di dover proteggere.

non sarà un gran film, ma i due protagonisti valgono il prezzo del biglietto, promesso.

buona visione - Ismaele

 

 

 

QUI il film completo

 

 

Croce e delizia di convegni così come di chiacchiere salottiere sulla produzione nostrana, il cinema di genere, da intendersi come “di tutti i generi esclusa la commedia”, è da lungo tempo evocato, come in una seduta spiritica, quale grande e glorioso estinto in grado di guidarci fuori dal guado. Ma non basta aggrapparsi al proverbiale “se ci sei batti un colpo” e accontentarsi del fatto che ogni tanto faccia capolino qualche thriller, action o horror italico, affinché il cinema di genere resusciti. Anche perché le sceneggiature non si fanno con il pendolino, né si può sperare che, in assenza di un’industria strutturata, spetti al singolo regista o al suo protagonista, fare da medium-sensitivo e intercettare il gusto del pubblico. Insomma la questione è assai più complessa di quanto non appaia e di tutte le sue declinazioni – specie della citata problematica della scrittura – soffre Senza nessuna pietà di Michele Alhaique…

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Come film di genere, Senza nessuna pietà è un po' troppo programmatico e se dovessimo scorgerne i limiti li potremmo rintracciare in una regia troppo insistita nell'imporre la tensione emotiva. È questa una scelta consapevole, sia chiaro, che invece di permettere allo spettatore di vivere sulla pelle i miasmi dei personaggi, ne favorisce paradossalmente un certo allontanamento per eccesso di sensazioni. È un peccato perché il lavoro con, su e degli attori è importante e la loro prova a volte notevole, come rilevante è la rappresentazione di questa Roma svuotata, piccola pozza sulla cui superficie galleggiano alcune resistenze antropologiche. L'apporto del coro degli attori (e dobbiamo citare, oltre a Favino, Davoli e Giannini, anche Claudio Gioè - qui detto il Roscio -, Renato Marchetti, e Greta Scarano, la "lolita" di Latina, chiamata a una prova non facile) e l'ambientazione sono i punti di forza di questo esordio, così come il lavoro fatto sul sound design (piuttosto coraggioso per essere un film italiano) e sulle musiche, una doppia ricerca sonora elaborata dalle diverse sensibilità dei suoi due autori: quelle armoniche di Luca Novelli e quelle elettroniche di Pierre-Alexandre "Yuksek" Busson. Insomma, un complesso di elementi potenzialmente virtuoso nelle mani di un attore che per diventare bravo regista dovrebbe liberarsi dallo spettro dell'autorialità e apprezzare la sottrazione come valore assoluto per una buona narrazione di genere. Non a caso, i più belli tra i noir della storia del cinema sono bagliori precisi e secchi nel buio della notte profonda.

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…In effetti i luoghi comuni del genere non mancano, anzi abbondano, ma stranamente non ce ne si lamenta mai molto in casi di equivalenti americani, quasi come a quelle produzioni si giustificasse la presenza di stereotipi narrativi per una supposta paternità artistica del genere (che tra l'altro, almeno per la componente noir, è ingiustificata dato che il primo esempio in tal senso è il capolavoro Lang-iano M). Questo discorso non serve nè ad esaltare questo film, che ha effettivamente i difetti citati, nè a sparare sui film di genere americani, che ci hanno reagalato grandi capolavori: vuol sol oessere un modo per mettere in chiaro il mio apprezzamento, pur senza entusiasmi particolari, per questo tipo di operazione nel nostro paese: i film di genere trovano sempre un pubblico, e l'importante è che siano fatti discretamente, che vi si veda insomma un certo impegno registico ed attoriale…

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mercoledì 18 agosto 2021

L'umanoide - Aldo Lado

un film un po' pazzo, secondo i canoni della fantascienza, ma Aldo Lado non è un regista di fantascienza.

si corre a 100 all'ora poi ci si ferma, si riparte, si rallenta, fino all'ultima sparatoria galattica, senza prigionieri.

dipende da cosa uno si aspetta, una coerenza, un'americanata, chissà, ma un paio d'ore di divertimento non mancheranno, o ignoto spettatore che se ne frega del fantascientificamente corretto.

per alcuni più ispirato a Bud Spencer che a Lucas, ci sono i buoni e i cattivi, le cose misteriose, l'avventura, che sono le cose importanti in un film così, a me è piaciuto abbastanza.

buona (non fantascientificamente corretta) visione - Ismaele

 

 

QUI il film completo

 

 

Se il film ha un senso, quel senso è Richard Kiel, astronauta buono con cane robot appresso alla R2-D2, trasformato in un umanoide da una bomba atomica (idea balzana, ma funzionale alla storia), che sbaraglia tutti quelli che lo contrastano con la stessa facilità del suo Squalo, ma anche dell'Hulk dei fumetti Marvel che il gigante non poté interpretare nella serie tv americana di quei tempi, perché scartato in favore di Lou Ferrigno. Il suo umanoide poteva essere la quinta essenza della forza e della paura, la storia stessa, scritta da Enzo G. Castellari, che qui fa anche l'aiuto regista a Lado, poteva risutare inquietante e dark, invece si è preferito trasformare il Golob di Kiel in una copia dei tanti giganti buoni alla Bud Spencer dallo sganassone facile, anche se Golob ammazza senza tante riseve i suoi avversari. Le musiche elettroniche sono di un Ennio Morricone che cita l'Inno alla Gioia di Beethoven, peccato che la pellicola perda il confronto con un altro scult di fantascienza dell'epoca, sempre ispirato a "GUERRE STELLARI", ovvero "SCONTRI STELLARI OLTRE LA TERZA DIMENSIONE", di Luigi Cozzi.

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Beh....impossibile non dare la sufficienza a questo mediocrissimo ma simpaticissimo clone di Guerre Stellari. Quando lo vidi all'epoca mi piacque addirittura ma in quel periodo i ragazzini avevano ancora negli occhi le spade laser e tutto quello che poteva anche solo lontanamente sembrare attinente al mondo di George Lucas, faceva brillare gli occhi.

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Questo film è praticamente un inno all'arte di arrangiarsi tipicamente italica. A grandi linee possiamo considerarlo un clone che ricicla atmosfere care alla fantascienza di Lucas and company con personaggi ispirati chiaramente alla saga di Guerre Stellari. Così abbiamo una sorta di Darth Vader(il costume è identico),una serie di guerrieri di bianco corazzati, il buono aiutato da un ragazzo che usa la filosofia tibetana per risolvere le questioni(e anche due energumeni che compaiono, il ragazzino si chiama Tom Tom),un gigante buono(una specie di Chewbecca ma indistruttibile) e tante altre cosette tra cui un interminabile battaglia finale in cui i nostri pochi eroi svicolano tra un raggio laser e l'altro non vendendo mai colpiti dalla masnada di cattivoni. Gli effetti speciali pur ingegnosi sono assai rustici se confrontati al contraltare americano. A me sinceramente a vedere questo film mi veniva da sorridere perchè è talmente ingenuo che non poteva avere ambizioni di nessun tipo. Un film che fa della sua naivete il suo punto di forza…

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Fantascienza di puro intrattenimento sulla scia di Guerre stellari anche se nella prima parte, almeno a livello scenografico, si avverte l’influsso della tetralogia margheritiana. Semplice e ingenuotto nella trama, si apprezza per la suggestiva artigianalità degli effetti visivi – lontana anni luce dal frastornante digitale odierno – e per il buon cast internazionale, tra cui figurano due bondiani: il gigantesco umanoide Kiel e la Bach, contessa Bathory dello spazio. Di Rassimov, con look da samurai siderale, compaiono solo le gelide pupille.

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Interessante metàfora fantascientifica che assembla - a volte in maniera apparentemente confusa - elementi appartenenti a svariati generi: dalla versione "futuristica" della sanguinaria contessa Erzsébet Báthory (la graziosa Barbara Bach, nei panni della perfida Lady Agatha), a quella ipertecnologica dell'androide imbattibile, sorta di proto-Terminator ante litteram. A Lado non interessa realizzare una spartana versione low budget di Guerre Stellari e punta, invece, sulle buone interpretazioni (ad esempio Richard Kiel, già apparso in alcuni film di James Bond) e su validi dialoghi. Incompreso.

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Mettiamo però una cosa in chiaro. Non vogliamo sparare sulla Croce Rossa, non vogliamo far intendere che il film è da buttare nel cesso perché scopiazzava il film di Lucas senza troppi complimenti (vedi anche i laser delle armi, i robot domestici amici fedeli dell'uomo). Al contrario questo è il suo primo punto a favore perché il coraggio di un azzardo simile va premiato per principio. L'umanoide poi prova a metterci del suo, si ispira ai personaggi e alle atmosfere di Guerre Stellari per tentare di allontanarsene in qualche modo, insomma non è un suo film fotocopia. È ben girato da Lado (coadiuvato da Enzo G. Castellari nella seconda unità), e poi ci sono gli effetti di makeup di Giannetto De Rossi, la supervisione agli effetti speciali di Antonio Margheriti, le musiche di Ennio Morricone, la fotografia di Silvano Ippoliti (ha lavorato con StenoLucio FulciLuigi MagniTinto Brass, Sergio e Bruno CorbucciEnzo BarboniPasquale Festa Campanile), le scenografie di Enzo Bulgarelli e Giacomo Calò Carducci. Con dei nomi simili si può pretendere di più ma far uscire un brutto film era veramente impossibile.

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martedì 17 agosto 2021

Proibito rubare - Luigi Comencini

finita la guerra Napoli era una rovina, un prete missionario, un giovane e magro Adolfo Celi, di passaggio per prendere un traghetto per l'Africa capisce che Napoli è l'Africa, e si ferma.

decide di creare la città dei ragazzi, levarli dalla strada, dargli da mangiare e dormire, e anche un po' di scuola.

il film racconta le avventure del prete e dei bambini, quando ancora si pensava in grande e per gli altri, nonostante tutto.

gran bel film, uno dei primi di Luigi Comencini.

buona visione - Ismaele


 

 

 

QUI il film completo, in italiano

 

 

Nella Napoli del primo dopoguerra un padre missionario veneto, in procinto d'imbarcarsi per il Kenya, si accorge che è meglio portare il Vangelo tra gli scugnizzi napoletani che tra gli africani, e fonda una piccola Città dei ragazzi. Primo film di L. Comencini, buon esempio di neorealismo minore in rosa. Vivace descrizione di una Napoli alla Marotta, sagace equilibrio tra toni drammatici e sorridente ottimismo, qualche concessione al folclore, un bel crescendo nella seconda parte. Primo ruolo importante per il giovane A. Celi. Scritto dal regista con Suso Cecchi D'Amico esordiente.
Il Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli

 

Nel cinema c'è sempre una regola di cui non si riesce a liberarsi: si è sempre schiavi di quello che si è fatto, e i produttori tendono a farlo ripetere. Aveva riscosso grande successo un film americano con Spencer Tracy e Mickey Rooney, La città dei ragazzi, prodotto prima ma distribuito da noi dopo la guerra, e con il mio documentario Bambini in città ero stato individuato come regista che amava i bambini. Mi convoca l'ingegner Gatti della Lux e mi offre di fare una "città dei ragazzi" all'italiana. Naturalmente ho agito poi secondo le mie idee; il film americano era ottimista e positivo, la mia "città" al contrario (era a Napoli) finisce a gambe all'aria. Era la storia di un prete idealista; arrivava a Napoli col suo barbone da missionario per andare oltremare; gli rubano la valigia, penetra nei vicoli e, venuto dal nord, scopre una realtà che non immaginava esistesse. Chiede di restare lì, convinto ormai che è inutile evangelizzare i paesi lontani, e la sua semplice mentalità di contadino veneto si scontra con la sottigliezza degli scugnizzi napoletani. La situazione di Napoli era tragica, quella dei bambini in particolare. Gli scugnizzi fingono di accettare la sua idea di "repubblica dei ragazzi", ma in realtà lo fanno per nascondervi quello che rubano. Il film aveva naturalmente i limiti dell'opera prima. Voleva essere comico-satirico, con momenti patetici.
La lavorazione di quel film fu veramente una tragedia perché Comencini volle e trovò dodici scugnizzi veri. Be', la produzione li alloggiò tutti e dodici dalle Suore di Santa Chiara, tanto per non perderli. Questi, invece, erano abituati a vivere di furtarelli e a dormire sulle grate di una tipografia che da sotto mandava loro un po' di calore. Quindi, messi nei letti regolari, invece di trovarsi comodi fecero l'inferno, urlando a tutto fiato contro le "cape ‘e pezza" - ossia le suore, come le evevano battezzate - e sfasciando tutto. I più delinquenti del gruppo erano i due protagonisti. Difatti, finito il film, vennero arrestati perchè non so cosa avessero combinato. Noi dovevamo ancora fare dei rifacimenti. Allora fummo costretti a prendere un avvocato per farli uscire di galera in fretta e furia. Ma in galera gli avevano rapato a zero i capelli, quindi dovemmo fargli confezionare al gran galoppo delle parrucche. Che però si toglievano di testa ogni due minuti, se le palleggiavano, le lanciavano in aria .. Insomma, del cinema non gliene fregava niente, e neppure del guadagno. Se per ipotesi uno del gruppo sbagliava una battuta o un movimento ed eravamo costretti a ripetere la scena, nasceva subito una zuffa tra loro a base di calci, pugni, graffi e sputi, e ci toccava pure precipitarci a dividerli perché se no si massacravano. L'unico che sopportava tutto con filosofia, come se niente fosse, era Comencini.
Aldo Tonti
Luigi Comencini, autore popolare, a cura di Tullio Masoni e Paolo Vecchi (1982)
 

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Terzo film del giovane Luigi Comencini, che prosegue la strada del precedente, Bambini in città (1946), con al centro del suo interesse il mondo minorile. Un mondo mai molto esplorato dal cinema, sino ad allora ed anche in seguito, che il bravo regista milanese cerca di mettere in luce in tutti i suoi aspetti. Un mondo minorile che ha sempre contrassegnato il suo cinema ed è sempre stato al centro del suo interesse filmico. Un cinema apparentemente semplice... apparentemente facile a tutti ma con più chiavi di lettura, che partono, in una sorta di scala piramidale, dalla base sino ad avere dei piani di lettura molto più profondi ed intensi di denuncia di una malessere diffuso e di un problema sociale molto sentito ed intenso. Un malessere per questi (e quei) bambini che non hanno genitori, e che all'indomani della II Guerra Mondiale dovevano arrangiarsi a vivere come potevano, e ai quali non era sufficiente l'ala protettiva di uno "zi prete" caritatevole e "cristiano", ma di sentirsi importanti e autosufficienti. Ovvero crescere in fretta ed emulare gli adulti nei loro comportamenti peggiori ed insani. Napoli, ma come tante altre città, ma lei in particolare, vedeva in strada molti bambini, molti teen, alla ricerca di una loro identità, alla ricerca della sopravvivenza quotidiana, senza sapere se ci sarebbe stato un domani, neanche un futuro. Una vita che al massimo poteva vedere oltre le 24 ore successive e null'altro.
Proibito rubare ci racconta questo, questo malessere che come il colera si era diffuso in tutta la città, in tutte le città distrutte dalla guerra e che aveva lasciato vedove ed orfani in ogni angolo delle strade. Bambini che non sapevano cosa fare e che condotti da adulti privi di scrupoli si davano al furto. Bambini svegli, bambini attenti, ma ancora "macchiati ed impregnati" di quell'innocenza che li faceva credere nei valori dell'amicizia e del rispetto del gruppo, pieni di quel senso di appartenenza a qualcosa, anche se di malaffare. E Comencini indaga in modo serrato e profondo in questo "altro mondo" senza però sprofondare mai nel lacrimevole, forse giusto nel finale viene qualche groppo alla gola per uno sciorinare facili sentimenti. Ma a parte questa "leggera scivolata" il film ha quel giusto piglio autoriale e deciso di chi sa cosa vuole mostrare, e questo maestro del mondo infantile riesce a cogliere ogni sfumatura, ogni più piccolo dettaglio per dare un senso compiuto e "vero" alla storia di questo gruppo di sbandati che vengono riuniti dal prete in questa grande utopia della "Città per ragazzi"... un utopia che pero poco alla volta diventa realtà, anche se non del tutto onestamente, ma con grande partecipazione di quei malandrini cresciuti troppo in fretta, ma che alla fine tornano a fare i bambini. Quindi un ritorno ai ruoli prefissati che Comencini decide di restituire ad ognuno lanciando un segnale di speranza in quell'Italia che stava tentando lentamente di ricostruirsi... E lui, da bravo demiurgo del cinema riesce a lanciare un piccolo grido di allarme e di aiuto...
Mauro Conciatori

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