intanto il titolo, la parola balentes riprende il significato originario di uomini di valore, che affrontano imprese difficili e rischiose, non per un vantaggio personale, ma per una legge superiore, che non è quella dello stato italiano.
Ventura e Michele, due ragazzi sardi, intorno al 1940, vogliono evitare che i cavalli vadano a morire in guerra, seguono la legge morale che hanno dentro, e scusate se è poco.
il cavallo è un simbolo di libertà e di vita, dappertutto, e non può essere mandato a morire, in guerra o al palio di Siena (bestemmia?).
il film d'animazione, girato come agli albori del cinema, sulla base di 30000 disegni di Giovanni Columbu, disegni che vengono "animati", da qui nasce il cinema di animazione!
il disegno è spesso "suggerito", tocca allo spettatore "partecipare" alla storia, dando la propria lettura e visione.
in certi momenti sembra un western, i due balentes potrebbero essere dei giovani indiani d'America, che liberano i cavalli dei soldati che uccidono gli indigeni.
anche il treno sembra un treno del far west, come in certi casi sono i treni sardi.
che sia un treno sardo si capisce dal fatto che trasporta le casse da morto degli uccisi, nell'incivile America gli indiani morti li avrebbero lasciati in balia di avvoltoi e lupi.
Giovanni Columbu racconta che per questo film (eccezionale, se non si è capito) ci sono voluti sette anni di lavoro, mica è un cinepanettone.
se vi volete bene cercatelo e soffrite insieme a Ventura e Michele, nessuno se ne pentirà, vedrete un film che resterà nella storia del cinema.
buona (unica) visione - Ismaele
…Columbu, che viene da una prolifica carriera tra arte, televisione e
cinema stesso, si mette alla prova in un formato nuovo e sforna un'opera di folgorante
originalità stilistica.
Sue sono infatti le migliaia di disegni, su acrilico e carta, che vengono poi
animate al rotoscopio per dar vita a immagini di grande dinamismo pittoriale in
bianco e nero. Una tecnica che suggerisce gli eventi più che catturarli
appieno, e che gioca con le sagome e le ombre sui paesaggi a contrasto.
Benché riempiano spesso lo schermo attraverso lo spazio negativo, tali
composizioni non sono mai inerti; grande merito è anche del notevole lavoro sul
sonoro, attento ad accompagnare i dialoghi con un tangibile spettro uditivo
elevato al medesimo livello: il vento, il crepitio del fuoco, i passi sul
terreno e tutti gli altri elementi del luogo radicano le animazioni in un reale
che si costruisce passo passo nella mente dello spettatore.
…Ventura e il suo amico Michele corrono, in fuga.
Perché il furto di cavalli? Tutto è ammantato di leggenda. I due erano
benestanti, non rubavano per il denaro. Forse si trattava di liberare gli
animali per salvarli da una brutta fine in guerra, come teme il bambino della
famiglia di contadini che ha venduto quei cavalli all’esercito, proprio per
poterlo mantenere agli studi, o di rubare ai ricchi per dare ai poveri. Forse
proprio per pura “balentia”, la virtù, lo spirito cavalleresco dell’uomo sardo
che porta avanti nelle condizioni sociali e ambientali più avverse. Spirito
incarnato in questo eroe definito come un “cabaddeddu”, un cavallino, per il
suo amore per i cavalli e per il suo portamento. C’è qualcosa di cristologico –
ancora per l’autore di Su re –
nella morte di Ventura, con le donne velate sarde che lo piangono, intonando
gli “attitos”, i pianti funebri. In fondo si tratta ancora di un archetipo
declinato nella cultura sarda. La stessa consistenza eterea dei personaggi
disegnati prefigura una loro esistenza da fantasmi, o da risorti. I personaggi
si muovono in una Sardegna, come il resto dell’Italia, avvolta nelle fosche
nubi del fascismo, in una Sardegna interna premoderna attraversata da cavalli e
treni a vapore. Per Columbu si tratta anche di un primitivismo dell’immagine in
movimento stessa, tra citazioni del Vampyr di Dreyer (la
ripresa dal basso del punto di vista di Ventura morto come quella dalla bara di
quella pellicola classica, anche riprendendone la musica), tra i cavalli di
Muybridge e i treni dei Lumiére, le didascalie, in sardo, da cinema muto,
l’iris, le ombre cinesi. Uno scavare fino ad arrivare ai meccanismi primari
delle immagini in movimento messi a nudo, righe e cerchi che sono
l’intelaiatura grafica dei treni in viaggio. In parallelo con lo scavare nella
cultura ancestrale sarda.
…Basterebbero
forse i paesani che, non capendo le intenzioni dei ragazzi, li identificano
come «senza testa sulle spalle», pensando al loro atto semplicemente come a una
bravata, o al massimo come a un furto per necessità. Eppure, a differenza del
loro amico che non parteciperà all’azione, ma che metterà loro la pulce
nell’orecchio parlando di come il padre abbia dovuto vendere i propri cavalli
all’esercito per pagargli gli studi, i due protagonisti di Balentes non
sembrano avere problemi economici di alcun tipo. Il loro atto di coraggio è
semplicemente figlio di un eroismo poetico e naïf, utopista, visionario, che il
film fa proprio nel narrarli nel suo altrettanto coraggioso, altrettanto lirico
e altrettanto visionario mosaico di stili animati, e nel suo prodigioso tappeto
di suoni, rumori, voci, passi, crepitii, spari e musiche noise
straordinariamente ipnotiche e realistiche, così perfettamente complementari
all’impressionismo suggestivo e pittorico delle immagini (im)possibili, dei
contrasti, delle trasparenze, della fluidità dei movimenti più e meno dinamici
di figure a cui non serve un volto, perché il loro volto siamo tutti noi. E poi
delle linee, dei cerchi, delle forme ora stilizzate e ora definite. Dei corpi
che emergono dal buio come in un prisma di ricordi e di sogni, o forse
semplicemente di storie che, dai loro apparenti margini caliginosi e
indistinti, contribuiscono a fare la Storia di una famiglia, di un paese, di
un’isola, di un popolo, dell’Italia, dell’Europa, forse dell’intero mondo.
Elementi cardine di un film, presentato nella multiforme sezione Harbour
dell’International Film Festival Rotterdam dopo il primo passaggio in Alice
nella Città all’ultima Festa del Cinema di Roma, che testimonia ancora una
volta e pure nell’animazione lo straordinario stato di salute che sta vivendo
negli ultimi anni il cinema sardo, con Giovanni Columbu intento a passarsi di
volta in volta il testimone con Bonifacio Angius e Salvatore Mereu in una
piccola Nouvelle Vague isolana fatta di identità e di inquietudine, di antico e
di moderno, di malinconia e di orgogliosa appartenenza a una cultura primigenia
e proprio per questo così pura e ancestrale. Un cinema che si identifica nel
territorio da cui nasce e che si immerge fino alle sue radici più mistiche e
profonde, arroccate, tradizionali, magiche, immutabili come gli spiriti. A
salvare dall’oblio una memoria familiare, custode di un’intera civiltà, che
sarebbe altrimenti andata perduta, e (letteralmente) con le proprie mani
consegnarla all’eterno.
…Amassing around 30,000 drawings and paintings over the course of
production, Columbu invokes the elemental Sardinian landscape as a series of
abstract minimalist visas, sometimes using just the sparest of brushstrokes, or
even an entirely blank screen. He also incorporates scratches and stains, inky
smudges and runic blotches randomly generated during the animation process into
the film’s overall aesthetic, creating a looping, flickering, glitchy feel
similar to that of degraded vintage celluloid.
The trade-off for all these arty flourishes is that the narrative
thread of Balentes sometimes get a
little lost in stylistic swerves and loops: dialogue is fragmentary, the
timeline diffuse, naturalistic performances reduced to blocky modernist
graphics by rotoscoping and other techniques. But Columbu helps ease this
problem with sparing use of explanatory inter-titles written in the Sardinian
language, a dialect closer to Latin than modern Italian. In another knowing nod
to silent-era cinema, the soundtrack also incorporates elements of Wolfgang
Zeller’s mournful orchestral score from Carl Theodor Dreyer’s early horror
classic Vampyr (1932). The cumulative effect is a
melancholy memory palace of a film that feels both antique and modern,
strikingly avant-garde yet hauntingly beautiful.
…La tecnica adottata parte da una
ricerca sulle origini dell’animazione, su soluzioni espressive dimenticate o
escluse, come i primi esperimenti di fine Ottocento, ma anche dai riferimenti
alla pittura iperrealista e all’espressionismo cinematografico. Ogni fotogramma
nasce da un’interazione tra gesto impulsivo e forma contenuta,
grazie all’uso di mascherature in pellicola plastica che permettono al colore –
acrilico – di seguire percorsi imprevisti, restando però nei contorni definiti.
Ne risulta un’animazione
rarefatta, dove le figure emergono e scompaiono come fantasmi,
attraversando “porte invisibili”, evocando la memoria, la
perdita, la persistenza. “L’emozione che si provava allora – racconta Columbu –
mi suggeriva che qualcosa non si fosse mai del tutto dissolto”.
Il racconto di Balentes nasce da
un ricordo familiare, da un racconto della nonna del
regista, che aveva conosciuto uno dei protagonisti: Ventura, detto Cabaddeddu,
giovane nuorese dal portamento fiero, appassionato di cavalli. La sua morte,
durante la fuga, colpito dai barracelli, è diventata leggenda popolare e
oggetto di canti funebri (“attitidos”) che ancora oggi vengono ricordati.
Il film è, al tempo stesso, atto
di resistenza artistica e civile: resistenza alla normalizzazione del
segno, alla velocità del gesto digitale, ma anche alle narrazioni imposte della
Storia. La Sardegna che racconta Columbu è una terra di contrasti – tra
tradizione e modernità, natura e meccanizzazione – in cui la memoria non è mai
solo evocazione, ma parte viva e politica del presente…
qui un'interessante intervista a Giovanni
Columbu