non è la prima volta che il regista gira un film a partire da un libro di Domenico Starnone, e anche Silvio Orlando appare spesso, nei suoi film.
si tratta di una storia in tre parti, nella prima i due protagonisti sono ancora giovani, e incasinati, con due bambini, nella seconda parte i due protagonisti sono invecchiati, e sempre vicini, ma lontani, è la convivenza di due solitudini, nella terza parte, contemporanea alla seconda, i due bambini sono grandi, e senza troppa voglia di perdonare i genitori.
film di attori (bravi), anche un po' thriller (familiare), dove tutto, tristemente o allegramente, dipende dai gusti, si incastra.
non è il miglior film di Luchetti, ma non si può sempre girare il film migliore.
di sicuro merita la visione - Ismaele
…Lacci è un film che
procede adagio, senza colpi di scena [se non per il finale], in un binario già
prestabilito eppure così piacevolmente percorribile. Forse, ogni tanto,
soprattutto alla fine del secondo atto, potrebbe risultare lento, ma non
lasciatevi ingannare: è soltanto il respiro di quei sentimenti narrati, che
hanno bisogno di tempo per essere compresi, accettati e solo dopo espressi…
…All’inizio, il prologo è ritmato
dalle note del letkiss, reperto sonoro anni ’60 sopravvissuto alla
trasmigrazione della storia negli anni ’80. Il brano, divenuto un hit delle
sorelle Kessler, non solo diventa il leitmotiv ritmico del film, ma fornisce
anche una possibile referenza italiana: in Io la
conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, infatti, è proprio questo
brano che accompagna il personaggio di Stefania Sandrelli in uno dei
passaggi-chiave della storia. Il riferimento a Pietrangeli offre una chiave e
un’ascendenza: siamo di fronte a un cinema che ambisce ad allacciare, prima di
tutto, la microfisica dei sentimenti con l’analisi della società.
Perché quello che racconta Lacci,
in fondo, è la storia di una ribellione generazionale: il gesto finale dei
figli (la sorpresa che non si può rivelare) va in questa direzione. È un atto
d’accusa contro i padri e le madri incapaci di svolgere il loro ruolo
genitoriale. Prima di ribellarsi però,
manco a dirlo, il figlio si slaccia il nodo della
cravatta.
…L'interesse del dramma familiare
di Daniele Luchetti risiede soprattutto nell'originalità e nella gestione della
sua struttura narrativa. Struttura polifonica che lascia coesistere fluidamente
personaggi e pensieri. Tra fughe, ritorni e collassi, i membri della famiglia
protagonista provocano un carnage domestico che affonda le radici nel libro omonimo di
Domenico Starnone. Ma è lo sguardo di Daniele Luchetti a mettere in scena
l'iperattività dei sentimenti che agitano tutto il tempo la coppia
protagonista, a osservarli negli spazi chiusi alla ricerca dell'amore residuale
e della collera che l'ha soppiantato.
La tensione è costante e trova la sua detonazione nella coppia Laura Morante -
Silvio Orlando, Vanda e Aldo in fondo al matrimonio e agli anni. Entrambi di
una precisione estrema nel restituire la forza dell'inerzia e il logorio lento
dell'economia sentimentale…
…Luchetti
non risparmia che quell’odio rappreso tra i denti arrivi a tirare sferzate in
un istante successivo tra improvvisi strappi di rabbia e caraffe frantumate in
terra, anche se riuscendo nel complesso e ancor più straziante compito di
lasciar permeare il film di una tanto aspra quanto fondamentale patina di
ironia, tipica di chi è allo stremo e cosciente che non esiste un tasto
“rewind” per riavvolgere i nastri di una vita che ha preso una piega sbagliata.
«Se c’è qualcosa da
recuperare, la recuperiamo», ma siamo oltre il tempo limite per raccogliere i
cocci di vetri che sono come istantanee forse nascoste e forse delle quali si
prova vergogna, o forse solo custodite gelosamente come memorandum di una vita
vissuta nell’intercapedine di una paternità non voluta e di una maternità
abbandonata a sé stessa. Perché, in fin dei conti, a farne le spese sono
proprio quei figli che osservano un padre traditore e una madre spezzata,
cresciuti all’ombra di un amore disfunzionale dove o si assimila o si rigetta,
dove l’unico vincitore è chi non ha partecipato a un dramma tanto vivido perché
umano e tristemente universale.
…Ma questo ritorno al futuro è costruito dal regista de Il portaborse come in uno specchio deformante, necessario proprio per
rimettere a posto i pezzi del passato, a dare forma compiuta a strade
apparentemente senza uscita. Tutto procede come in una sorta di competizione
tra quello che è stato e quello che ci viene svelato pezzo dopo pezzo. I cocci
di un appartamento devastato dai vandali, da cui emergono le verità tenute tra
parentesi o chiuse/nascoste in una scatola impossibile da aprire. Emerge la rabbia
dei figli spettatori, sempre dentro e fuori l’inquadratura a seconda delle
necessità di un copione da recitare. Non è un caso che nel montaggio di Lacci stia il segno più forte e più incisivo. Il gesto stesso del
creare raccordi imprevisti e liberi e raccontare la storia essenziale e crudele
di una famiglia ordinaria a partire dalla fine stessa di quella famiglia,
nonostante le riappacificazioni, le vacanze, la reciproca sopportanzione. Tutto
è crollato tempo addietro e quello che vediamo è solo il suo continuo
ripensamento.
…Lacci ha frammenti
di un dramma francese nel mostrare la malattia d’amore ma non riesce a reggerne
il peso emotivo, malgrado la bravura di Alba Rohrwacher. L’attrice, nei panni di
Vanda, riesce a trasmettere ansie, paura, desideri, delusioni del suo
personaggio. Ma gioca quasi da sola, l’unica a entrare nel cuore di un film che
mostra l’amore come dei tentativi provvisori di tregua. Da questo punto di
vista, diventa esemplare un’immagine della coppia molti anni dopo, stavolta
interpretati da Silvio Orlando e Laura Morante. Sono su una spiaggia in cui
sono da soli ma non c’è nessun contatto. Non stanno più insieme, ma di fatto
continuano a vivere come una coppia. “Per stare insieme bisogna parlare poco,
l’indispensabile” dice a un certo punto Aldo. E Lacci è proprio
anche un film sulla mancanza di dialogo, dove però i personaggi sono sommersi
dalla scrittura…
…Manca la verve, manca la vis
polemica, manca la voglia di trasformare queste funzioni sociali – marito,
moglie, figlie – in qualcosa di vivo, pulsante, magari persino maleodorante.
Non c’è nulla che puzzi nelle inquadrature di Luchetti, nonostante i personaggi
esplicitino sofferenze, dolori, rabbie, rancori inespressi. Alcuni passaggi
mostrano un totale disinteresse in tal senso. La cena di Aldo a casa del suo
collega, per esempio, con quest’uomo e sua moglie che cercando di spiegargli
come gestire la delicata situazione. Ma ancor più la sequenza del ritorno a
casa di Aldo e Vanda dopo che la loro casa è stata devastata (da chi? Si scoprirà
solo nel finale, anche se Lacci non fa nulla
per elaborare un giallo): nessun gattofilo si ricorderebbe solo dopo svariati
minuti, dopo aver raccolto cocci in giro per l’appartamento, di controllare che
fine abbia fatto il micio, quel Labes sul cui nome si avvilupperà parte del
“dramma…
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