La solita
polemica ha accompagnato il palmares di questo Festival di Venezia, per una
volta dimentichi dell’eccezionalità pandemica: nessun titolo nazionale ha
vinto, in un’edizione ricca di film italiani. Inserirsi in questa polemica è
rischioso perché spesso è strumentale, eppure qualcosa bisogna dire.
Gli
organizzatori sempre si appellano all’autonomia decisionale delle giurie che
però qualcuno ha voluto così formate. Una volta il direttore/regista di un
festival italiano non di secondaria importanza ci disse: programmare un
festival, ovvero scegliere i film, è come costruire una macchina, ma se sbagli
il pilota (ovvero la giuria) si rischia di fallire il progetto. Proviamo a fare
un ragionamento.
Composte da
“professionisti” del cinema e dintorni, le giurie sono perlopiù capitanate e
rimpolpate da attori e attrici, meglio se hollywoodiani, che valutano e
giudicano i film con il metro della loro esperienza cinematografica ed
esistenziale. Questa tendenza, comune ai tre maggiori festival europei (Cannes,
Berlino, Venezia), ha avuto una svolta che sembra programmatica negli ultimi
quattro anni, una svolta che non si può unicamente addebitare alle necessità
imposte dal tappeto rosso. C’è qualcosa di più profondo legato ai rapporti con
il Mercato. Analizziamo il caso di Venezia. Nel quadriennio 2013/2016 accade
che un regista italiano, Bernardo Bertolucci, premia per la prima volta un
documentario, Sacro Gra di Rosi; l’anno dopo un regista di
Hong Kong, Ann Hui, premia il film dello svedese Roy Anderson, Un
piccione seduto su un ramo…; nel 2015, un regista ancora messicano, Alfonso
Cuaron, premia il misconosciuto venezuelano Lorenzo Vidas con Ti guardo;
infine nel 2016 l’americano Sam Mendes premia l’ostico Lav Diaz con La
donna che se n’è andata. Dopo questo poker di film documentari,
d’autore, misconosciuti e ostici in molti hanno denunciato lo “snobbismo” di un
festival che voltava le spalle al pubblico, alla sala, agli incassi e al buon
senso. In pochi andarono a vedere quei film, anzi alcuni titoli non trovarono
neanche una distribuzione. Il collasso tra la Mostra e il Mercato sembrava
radicale. Bisognava metterci una pezza. Rapida occhiata al quadriennio
successivo: Annette Benning premia La forma dell’acqua di Del
Toro (2017); Del Toro premia Roma di Alfonso Cuaron (2018);
Lucrecia Martel premia Jocker di Todd Phillips (2019); ora
Cate Blanchet premia Nomadland della regista cino-americana
Chloe Zhao, film prodotto dalla Disney. La ricucitura con il Mercato (e con gli
Oscar) è compiuta. I film conquistano il pubblico e una critica sempre più
appiattita e pedissequa. È vero: le giurie sono autonome e imprevedibili, ma
qualcuno le sceglie e i risultati sono l’unico elemento su cui ragionare.
Nonostante le eccezioni, a risalire la china dunque sono quei film che hanno
capito quale è la miscela per conquistare tutti e tutto: pubblico, critica,
mercato e premi. Il neo-maccartismo del politicamente corretto che sta
imperversando è la ciliegina sulla torta: al Mercato si unisce la Politica,
travestita da ideologia. Non c’è scampo.
L’abbiamo
presa alla lontana per arrivare a dire qualcosa su Notturno di
Gianfranco Rosi. Uno dei film più complessi e ambiziosi del regista di Sacro
Gra e Fuocoammare non solo non ha preso nulla a
Venezia, ma è stato paradossalmente oggetto di un attacco vetusto e ideologico
(riservato esclusivamente agli autori di cinema documentario) che ancora devono
difendersi dalle accuse di estetismo utilitaristico ai danni di poveri
disgraziati. Una questione estetica che nel documentario diventa subito una
questione etica, senza che i detrattori nulla eccepiscano sul ricatto
“fotografico” di film come Roma di Cuaron (con il suo patinato
bianco e nero) o Jocker di Phillips (con la sua pellicola
scolorita da film anni Settanta). Al cinema di finzione tutto è permesso, al
cinema documentario molto poco, perché la “realtà” documentaria (soprattutto in
un film “sociale”) non può essere oggetto di una rielaborazione estetica che
tradisca la matrice antropologica e diretta. Questo si dice.
Più
velatamente nella critica ufficiale (che pur ha ben compreso e riconosciuto il
senso dell’operazione), più frontalmente nella critica sul web (con punte di
estremismo davvero insostenibili), la “questione Rosi” ha assunto una domanda
che è parsa ineludibile: a Rosi interessa più il cinema o la realtà? Al fondo,
la “questione Rosi” è tutta qua! Non si tratta di un accanimento personalistico
(anche se qualcosa di moralistico serpeggia tra le note critiche), perché Rosi
è solo il capofila di una serie di registi che hanno provato a riconnettersi
(superandola nei modi e negli intenti) con una tradizione documentaria che non
temeva affatto il confronto estetico, fino ai casi di lirismo poetico come le
struggenti “sonate documentaristiche” di Vittorio De Seta. Se c’è un erede di
De Seta e Flaherty è proprio Rosi. Ma ora, come allora, non si perdona il
peccato originario del cinema che inquadra, monta e ricostruisce la realtà per
sublimarla, raccontarla meglio, entrando nella sua profondità proprio
attraverso la forma. Senza negare il contenuto e la sostanza, senza negare
l’esistenza di una Storia complicatissima e contorta (quella che ha definito il
Medio Oriente), Rosi in Notturno, come in tutti i suoi film, compie
una serie di evidentissimi gesti cinematografici che sono il risultato di una
ricerca (i luoghi), di un incontro (i personaggi), di una trattativa (le
situazioni) e di uno sguardo (l’inquadratura, quasi sempre fissa); gesti
cinematografici preceduti da una domanda che ha mosso tutta la ricerca
(dopo Fuocoammare: da dove vengono i disperati sbarcati a
Lampedusa?) e da una sola certezza: andare oltre il già visto, la paccottiglia
di immagini legate alla cronaca. Tutte queste fasi sono connesse una all’altra
e sono tenute da una ferrea lega che le fonde: la fiducia. Tutto il cinema di
Rosi è un atto di fiducia nei suoi personaggi e con lo spettatore. Se non si
crede a quella, crolla tutto.
Cosa si
chiede a un documentario? Non certo di raccontare la realtà (pensate che i film
di Moore rappresentino la realtà?). A un documentario si chiede un atto di
onestà, l’essere intellettualmente e poeticamente sincero. Ma che vuol dire
essere onesti quando si ha a che fare con il reale? Vuol dire non tradire la
carica di verità e di necessità che il reale si porta dentro. Chi la stabilisce
questa verità? L’incontro tra il regista e i testimoni che nella narrazione
diventano personaggi.
In questo
consiste il reale nel cinema: mantenere il patto di fiducia e sincerità con i
personaggi e le situazioni attraverso storie che sublimano il reale e lo
trasformano in un racconto a cui si crede. Nessun altro al di fuori del regista
può sapere la necessità e l’aderenza a quel patto. Così stanno le cose! Se ci
si crede, bene, inizia il viaggio. Se non ci si crede, male, si rimane a casa!
In questo, nella sospensione dell’incredulità, il cinema documentario e quello
di finzione si assomigliano, anzi si equivalgono.
Riprendere
una madre anziana mentre prega e piange aggrappata al muro della prigione dove
il figlio è stato torturato in un’inquadratura fissa e pensare che questa
immagine sia ricattatoria perché il regista ha fatto una “ricerca”, un
“incontro”, una “trattativa” e deciso uno “sguardo”, vuole dire scambiare il
dito per la luna, vuol dire credere che a Rosi interessi più il cinema che la
realtà.
Sul
film Notturno c’è molto da dire, a partire dalla scelta di
fondo, quasi contro-intuitiva: lasciare ai margini la Storia, abolendone i
confini, per entrare idealmente in una zona d’ombra, in un crepuscolo notturno
indefinito da dove emergono figure di uomini e donne, vittime e carnefici,
tutte prese tra la vita e la morte mentre la guerra viene “lasciata” in un assordante
fuori campo. Un film metafisico, un viaggio interiore, quasi un’allucinazione
visiva che nella forma alta del cinema di poesia restituisce il senso di un
tempo sospeso, quasi inerte, profondamente dolente. Ma di tutto questo altri
diranno meglio.
QUI la mia recensione di Notturno
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