giovedì 15 ottobre 2020

Un divano a Tunisi (Arab blues) - Manele Labidi

protagonista della commedia agrodolce, come tante commedie italiane a cui si è ispirata la regista, è la straordinaria Golshifteh Farahani (interprete in NiwemangAbout Elly e Paterson, fra gli altri film), attrice iraniana esiliata, per fare film sgraditi agli ayatollah e ai dittatori di quello sfortunato paese.

si prendono in giro i tunisini, senza cattiveria, scavando, come fa la psicanalista, nei loro cervelli e nella loro anima.

il film non è un capolavoro, ma è un soffio di aria fresca, anche in Tunisia, se e quando lo proietteranno, ridere, sopratutto di se stessi, è una cosa impagabile, buon segno.

per i poveri incassi dei cinema è un piccolo miracolo, vanno in pochi in sala di questi tempi, ma un po' vanno a vedere questo film (ed escono contenti).

cercatelo e godetene tutti - Ismaele 



 

 

Tra personaggi onirici e a tratti fumettistici, “Un divano a Tunisi” è metafora di vita e Storia, dove per Storia si intende anche quella che ha fatto della terapia psicanalitica una strada in salita, che sempre più persone smettono di avere paura di percorrere.

Con una fotografia caratterizzata da colori caldi rappresentativi di un luogo vivace, dove vigono norme e canoni che rispettano un ideale diverso di libertà, la regista Manele Labidi Labbé traccia con mano sicura un ritratto sociale, economico e politico di un Paese che si ricostruisce giorno dopo giorno. Tra personale e universale, privato e pubblico “Un divano a Tunisi” racconta difficoltà e lotte interne, dove l'importanza di conoscersi, resistere e combattere non è poi così ovvia e banale come ci piace credere.

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Impeccabile nella confezione e garbato come ci aspetta  da una commedia di stampo classico, categoria a cui tutto sommato Un Divano a Tunisi appartiene, secondo noi il film non è altrettanto efficace nel perseguire il suo intento più profondo e cioè quello di fare le pulci e denunciare il malessere esistenziale del paesaggio politico, istituzionale ma anche sociale che concorre con le sue liturgie e i suoi rappresentanti a movimentare la vicenda. Nonostante la simpatia dei personaggi e la leggerezza con cui questi si relazionano alla protagonista Un divano a Tunisi non riesce mai a diventare altro, rimanendo in qualche modo irretito dall’intrigante sguardo della bella protagonista.

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Racconta un paese dal quale i giovani come Olfa, Aisha Ben Miled, vogliono fuggire anziché restare per costruire una Tunisia nuova, ora che hanno conquistato libertà e democrazia. Un paese ancora arretrato, che fatica a misurarsi con questa libertà, anche nei costumi e nel modo di essere. Si parla di integralismo religioso, di matrimoni combinati, di omosessualità – soprattutto grazie al personaggio del fornaio Raouf, interpretato da Hichem Yakoubi – ma anche di gestione clientelare della cosa pubblica. Il poliziotto Naim, Majd Mastoura – Orso d’oro a Belino per Hedi di Mohamed Ben Attia – paladino della legalità, appare come una mosca bianca. Insomma una Tunisia piena di potenzialità ancora per buona parte inespresse. L’auspicio di Labidi è quello di una liberazione finalmente anche culturale e mentale. È questa la scommessa sul proprio paese che la protagonista porta alla storia, col suo studio di  psicoterapia. Per accompagnarla, la regista sceglie la voce di Mina e le note di un classico della canzone italiana anni ’60 come Città vuota, assieme alla meno conosciuta Io sono quel che sono, che ben si confà al mood della protagonista e suggerisce un parallelo tra l’Italia del boom e la Tunisia di oggi, proprio in termini di opportunità di progresso da cogliere e potenzialità da sfruttare.

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"Un divano a Tunisi" è un'opera leggera che trova nella terapeutica virtù del sorriso la ricetta per costruire un dialogo intorno a questioni delicate, rimaste in silenzio negli anni più bui del governo tunisino. A metà strada tra la vivacità maghrebina e l'essenza della commedia francese un "Divano a Tunisi" è stato premiato dal pubblico delle Giornate degli Autori durante l'ultima Mostra del Cinema. L'entusiasmo degli accreditati in sala lascia ben sperare per un buon risultato nelle sale che affrontano i dubbi della riapertura. Sperando che il film, inizialmente programmato ad aprile, riesca a farsi strada nella calca dei prossimi mesi. Lo meriterebbe la bella e coraggiosa Selma vera anima battagliera che si nasconde dietro al dissimulato candore di Golshifteh Farahani.

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Cinema d’autore? Intelligente? Bene intenzionato? Qualunque sia l’etichetta, Manele Labidi filtra il mondo sotto una lente tragicomica, guardando (per sua esplicita ammissione) al modello della commedia all’italiana; risate, malinconia e una spruzzatina di satira sociale. Rispetto allo standard di Monicelli & Co. uno sguardo più affettuoso, e un’umanità meno cinica. Ma dal momento che parliamo di sguardi sul mondo e non di dogmi, va bene così. In fondo il secondo pregio del film è di scegliere l’umorismo, rigettando la fosca pesantezza del cinema di qualità alle prese con grandi idee, uno stereotipo dannosissimo, quando si tratta di scandagliare le pieghe più aspre del racconto.

Quello che manca è lo scarto di una regia capace di irrobustire il film al di là dello spunto di partenza. Nel vissuto problematico dei pazienti di Selma, il riflesso di un paese traballante che si apre alla modernità, alla libertà e alla democrazia senza un’idea chiara della direzione da prendere. Saldare i fantasmi del passato, le angosce del presente e le ombre del futuro per far la pace (dentro e fuori) e razionalizzare i traumi di un vissuto, pubblico e privato, problematico. Questa è la nobile sfida di un film che si sforza di parlare in prima persona, singolare e plurale. E che funziona solo a metà. Quella pubblica. Perché la traiettoria della protagonista Golshifteh Farahani, professionale e sentimentale, finisce per rimanere un po’ inespressa e sacrificata.

Un divano a Tunisi tenta di illuminare il filo sottile che lega mondi all’apparenza poco propensi a comunicare e influenzarsi. Politica, famiglia e femminilità, tanto per citarne alcuni. Un discorso comune, di libertà e emancipazione che parte dall’intimo per sfociare nel sociale e tornare di nuovo nell’intimo. Selma cura i suoi pazienti, cura il suo paese, cura la sua famiglia, cura sé stessa. Ma il film non ha la forza di restituire fino in fondo il senso e la fatica immane di questa sfida. Ne coglie la necessità, e il senso aleatorio di un presente in continua transizione. Non è poco, ma non si va molto oltre.

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El tono demasiado ligero de Un diván en Túnez puede ir en detrimento de la propia película. Sin embargo, su duración breve y su tono fresco hacen que la película resulta divertida y agradable. Pero deja en el tintero algunas cuestiones y reflexiones como la fascinación de la protagonista hacia un personaje de carácter más autoritario. Si se emplea a fondo en las relaciones familiares y sobre todo es muy destacable el empleo que se hace de la figura de Sigmund Freud a lo largo de Un diván en Túnez.

Quizás pierda un poco por dejar de lado o tratar de forma tangencial los problemas de Túnez actualmente tratando de construir su democracia y la situación en la que se encuentra. A mi parecer, aunque la situación personal de los personajes es interesante, ese punto de profundidad política engrandecería la cinta.

Un diván en Túnez se suma a la serie de comedias franco árabes que sirven como un excelente retrato de nuestros vecinos del Norte de África y una forma de visualizar un tipo de filmografía amable y que generalmente no es la más comercial. Un debut notable.

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La directora nos ha querido mostrar todo esto a través de una comedia amable, en todo momento se ha desvinculado del drama y no ha querido hacer una cinta de denuncia. Todo está contado desde un punto de vista femenino. Llama la atención muchas situaciones que tiene que sufrir la protagonista, como la nefasta burocracia que impide un ejercicio administrativo ágil y eficiente y también el rechazo de muchas personas que creen que, por venir de Francia, no conocen el funcionamiento del país y la consideran inferior a los demás.
La película es entretenida, nos muestra la convivencia entre pasado y presente en una sociedad en la que tradición y modernidad todavía chocan, pero no les queda más remedio que tirar para adelante. La interpretación de Golshifteh Farahani es parte fundamental de la película. Tiene unas miradas, unos gestos y muecas bastante llamativas, porque en ningún momento da crédito a todo lo que está viendo y le está sucediendo. Merece la pena su visionado.

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Una brava protagonista – Golshifteh Farahani – un soggetto coraggioso – scritto dalla regista Manèle Labidi insieme a Maud Ameline – una love story prevedibile e un epilogo un po’ stiracchiato fanno di Un divano a Tunisi un’opera riuscita solo a metà: il coraggio può essere una buona arma, ma se non se ne fa un buon uso ci si può ritorcere contro.

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