una accozzaglia di reietti, anziché marcire in galera, aderiscono a una missione spaziale, verso un buco nero, senza ritorno.
la libertà è un'altra prigione, senza secondini.
uno scopo della missione è quella di capire se e come potrà nascere e crescere una vita, fra le altre cose.
piano piano, negli anni, quasi tutti scompaiono, lasciandosi morire, anche la dottoressa.
restano solo Monte e la figlia Willow, cibandosi anche dei frutti dell'orto, era una neonata, è diventata un'adolescente.
e insieme al padre prenderanno delle decisioni.
un film che vale, secondo me (se qualcuno deve ridere, lo avverto che non è un film per lui/lei) - Ismaele
La nenia che Robert Pattinson canta
alla piccola figlia ci culla e ci accompagna in un viaggio spaziale che
fa dell’uomo il suo punto centrale. Il corpo immerso nello spazio infinito,
l’assenza di tempo, di vecchiaia, di scopo. Dove ci porterà questo viaggio,
Willow? Nessuno lo sa, neppure la scienza. Iniziare una odissea perché non si
ha scelta, si è in trappola. È questa la base concettuale da cui parte High
Life, film del 2018 diretto da Claire Denis. I cosmonauti protagonisti
non viaggiano per amore della scoperta, o per esigenze sociali, o almeno, fanno
ciò solo perché costretti (lasciamo a voi scoprire il motivo, poiché il film
vive di un montaggio alternato che pian piano ricostruisce il quadro “storico”
della trama). Non ci sono eroi in High Life ma solo persone
normali con passati controversi, da questa melma umana emerge un antieroe, che
di eroico pone in essere solo una singola azione: crescere con amore e speranza
una figlia nata su una astronave, che conoscerà solo l’infinito vuoto tra le
stelle, le ingovernabili forze di un buco nero. E proprio comprendere queste
forze è lo scopo della missione:ovvero riuscire a estrarre energia da un buco
nero tramite il processo Penrose, per permettere all’umanità di
accedere a risorse di energia infinite…
…High Life è dunque un oggetto filmico che
rifugge da qualsiasi scansione testuale: come sempre nel cinema della Denis,
c’è più materia che pensiero, più fisicità che speculazione. La flagranza del
rapporto di questa regista con la sostanza fisica delle sue storie, coi
corpi dei suoi personaggi, con la pulsionalità delle loro emozioni, è
preponderante rispetto a qualsiasi logica. È anche per questo che amiamo tanto
il cinema di Claire Denis.
…Affresco di un'umanità senza ideali e
senza speranze, High Life è uno strano oggetto di
riflessione che nel suo ultimo atto, la bambina è diventata una giovane donna
che ha conosciuto e conoscerà un solo uomo, suo padre, interroga il tabù
(assoluto) e la moralità. Perché Monte e Willow sono soli a bordo, soli al
'mondo'. Lunghi flashback che affiorano come bolle sulla superficie della
coscienza di Monte, mostrano al pubblico che il peggio per loro è passato. Di
quel pugno di mostri fuorilegge e fuori di sé spediti in orbita per crimini
inconfessabili, non è rimasto che Monte che alleva la vita in una nave
programmata per andare a morire. Veicolo di desideri primitivi, di piaceri
solitari e funebri, di sesso meccanico, di pulsioni frustrate e di regime
clinico, il vascello 7 è una fuck box (come quella che
cavalca la dottoressa Dibs in una delle scene più perturbanti) che divora e
dove tutti si divorano. Un monolite che rompe le geometrie asettiche delle navi
tradizionali e fluttua inesorabile verso l'orizzonte dell'incesto. Orizzonte da
tragedia greca a cui il protagonista Robert Pattinson resiste dominando le sue
emozioni e lanciandosi verso l'incognita di un'altra galassia, di un'altra
forma, verso la yellow light di Olafur Eliasson.
Il buco nero che costituisce il cinema di Claire Denis coincide in High
Life col buco nero della morale. A lambirlo è il corpo
(inter)siderale di Robert Pattinson. La bellezza del suo gesto, radicale e
lirico, è la promessa di un'andata senza ritorno verso l'amore. Un amore
cosmico che dialoga direttamente con Interstellar e non può
che (ri)congiungersi con l'universo, malgrado tutto. Malgrado la morte fisica e
morale dell'umanità in assenza di gravità e dentro una supernova narrativa
propizia a tutte le interpretazioni. Il caos è in marcia e Claire Denis testa
la resistenza fisica dello spettatore. Allacciate le cinture e bon voyage.
…Un film di passioni e di istinti, di
pulsioni, di corpi torturati dal dolore e dalla vertigine del desiderio, sui
quali si stende però il velo di una forma smagliante e perfetta, di una
bellezza in grado di sopraffare e neutralizzare ogni buco nero. Rispetto per
Juliette Binoche, che non esita a lanciarsi in una missione impossibile (quante
attrici del suo rango avrebbero accettato un personaggio come Dibs e recitato
una scena disturbante come l’amplesso meccanico?). Ma a fare suo il film è
Robert Pattinson, ormai una certezza e, più che un attore, una presenza
assoluta, meraviglioso quale padre fragile e tormentato eppure di una fibra
infrangibile. Claire Denis aveva pensato il film per Philip Seymour Hoffman,
poi sappiamo cosa sia successo, e le ci sono voluti anni per trovare finalmente
in Pattinson il protagonista che cercava.
Questo non è un film per tutti. Non è
uno scacciapensieri estivo da consumare fra popcorn e cocacola. Questo
è un film-sfida. E’ un oggetto ipnotico e misterico dedicato a
spettatori disposti a passare un paio d’ore dalle parti di Interstellar,
o di Arrival, magari mescolandoli con il ricordo di Stalker e
di Solaris, là dove la fantascienza si contamina con la filosofia
e con i misteri del tempo, del sesso e della vita. Fra le poche uscite estive
di questa strana estate, High Life di Claire Denis (uscita
prevista il 6 agosto) è davvero quella imprescindibile.
Fantascienza? Anche, ma non solo. Anche prison movie,
apologo filosofico, investigazione etica, ricognizione scientifica. Un
uomo (Robert Pattinson) e una bimba appena nata sono a bordo di una navicella
che galleggia nel buio oscuro dello spazio. Lui è il padre, lei sua figlia. Gli
altri membri dell’equipaggio sono tutti morti. Con una serie di flashback
successivi Claire Denis ci racconta come. Meglio: ce lo fa intuire, ce lo
lascia supporre. Perché non c’è nulla di chiaro o di scontato, a bordo della
Navicella 7.
Non è un’odissea nello spazio, quella
a cui assistiamo. Qui non si torna a casa. Non c’è nessun ritorno possibile.
Qui si va avanti. A oltranza. Verso un buco nero che potrebbe fornire l’energia
necessaria per salvare la Terra dall’incombente catastrofe. A bordo sono stati imbarcati
galeotti e prigionieri con colpe indicibili alle spalle, disposti a vivere una
sorta di ergastolo infinito nello spazio. Perché non c’è più il tempo, a bordo
della navicella. Non c’è il nostro tempo. Il nostro modo di misurarlo,
gestirlo, riempirlo. C’è il vuoto, e c’è l’oblio. Dalla terra continuano ad
arrivare immagini che sono come virus, come parassiti. Perché ancorano i membri
dell’equipaggio a una nozione di tempo e spazio che a loro è preclusa per
sempre. Indietro non si torna, mai più…
…l’opera è molto
modesta e manca completamente il bersaglio, come un arciere dalle grandi
ambizioni. Il senso del film sfugge dalla sceneggiatura, la scenografia fa
molto anni ’70, quasi fosse tutto di cartone. L’ambientazione, peraltro, è
limitata a pochi ambienti che si ripetono, probabilmente per motivi di budget.
Gli attori sono
svogliati e atoni, in particolare Juliette Binoche che
si cimenta in un paio di scene che rasentano lo scult. Passabile Robert Pattinson che
continua il suo percorso di allontanamento da Twilight.
La pellicola insiste sui liquidi vitali: sangue, sperma, latte materno, è tutto
un colare ripetuto e insistito.
Non aiutano
neanche i piani temporali, non proprio chiarissimi e un finale un po’ flaccido.
Beninteso, il film non è bruttissimo, ma Claire Denis è
una grande autrice che trova sicuramente il suo senso tra le strade e i cuori
parigini, non nello spazio.
…After many years lost in space, with Monte’s
clothes now in tatters, his hair greying and Willow an adolescent, the film
comes in for an ambiguous ending. Denis is more concerned with the affects of
isolation on her subjects and on their behavior during this period than she is
in learning about space travel. It’s that kind of unique space film that could
have been shot on Earth, in a science lab, and the results would have still
matched what the director was looking for–as she’s more interested in the
journey than the destination to nowhere, which might be a metaphor for life on
Earth.