domenica 15 ottobre 2017

Ammore e malavita - Manetti Bros

sceneggiatura dove tutto si incastra, in certi punti il film è un po' ripetitivo, e comunque si fa seguire bene.
indeciso tra la commedia e la tragedia (visti i molti morti, con sangue annesso), in realtà riesce a essere un tragico film comico, dove la vita è appesa a un filo.
il film è un po' didascalico, tutto è al suo posto e quello che ti aspetti succede, o succede quello che ti aspetti (a scelta).
cinema che corre, non ti lascia molto tempo per rifiatare, devi seguire la corrente, non c'è scampo.
alla fine comunque vince Song'e Napule, film meno di corsa, anche per chi non è un atleta.
buona visione (di entrambi, naturalmente) - Ismaele







Se c’è un modo di fare cinema gioioso è quello dei Manetti, un cinema che ti travolge di entusiasmo e ti predispone a godere di una pellicola. Un modo di girare che si fa perdonare qualche scivolone, che rende sofisticata anche la scelta di inserire qualche elemento kitsch, dove il demenziale si mescola alle raffinate citazioni, alla cura registica, all'amore per il dettaglio. Lo spettatore si ritrova davanti a un’opera felice, da prendere con ironia…

il plot è fragile, con un innesco narrativo da barzellettaccia. Un boss malavitoso, sempre sotto pressione e bersaglio di cosche rivali e forze dell’ordine, predispone insieme alla consorte un piano per sparire dalla circolazione. Identificato un perfetto sosia, lo fanno uccidere e organizzano un funerale col suo cadavere, mentre il boss ufficialmente morto se ne sta acquattato nel suo rifugio. Ma già questo è più farsa e pochade che noir, con il signor Macbeth e Lady Macbeth vesuviani mai credibili davvero come coppia diabolica, sempre un filo bonari e de core e mai feroci anche quando ordinano una strage via l’altra.
Son bravissimi Carlo Buccirosso (sublime as usual) e Claudia Gerini, ma nulla possono contro la balordaggine e l’inconsistenza e le incongruenze dei loro personaggi. Ecco, ai Manetti non riesce proprio di tenere insieme la ferocia del genere Gomorra (i cadaveri si sprecano) con la ballata grottesca…

Il lavoro di ricerca nell’underground del cinema italiano che i Manetti Bros. portano avanti ormai da decenni ha finalmente dato i suoi frutti, dal momento che Ammore e malavita ha finalmente aperto gli occhi anche a quella parte di critica radical chic che si muove strisciando dentro il mondo irreale dei Festival, c’è da dire però che il pubblico li ha sempre sostenuti, supportati, attesi, beati quanto spiazzati da questa loro leggerezza nel muoversi fra un genere e l’altro mantenendo sempre uno stile personalissimo, l’ hanno capito prima di tutti gli altri come si fa ad essere innovativi guardando con rispetto al passato.

Non sarà perfetto, Ammore e malavita, ma non è vero come probabilmente affermeranno in molti che si sfilacci il discorso o che tiri eccessivamente per le lunghe il tutto: anche l’incipit, effettivamente monstre rispetto alla prassi, è giustificato da una serie di intuizioni così brillanti che non avrebbe senso eliminarle dal montaggio finale. Esagerano, i Manetti, ma lo fanno con uno spirito sincero, così come il mélo espanso a cui tanto deve il cuore appassionato di una città che trasuda letteralmente dallo schermo, in quei canti baritonali tra le viuzze, mentre sfrecciano moto e pallottole, o come quel mare che è esso stesso città. Vita. Mala Vita. Si muore sia per scherzo che per verità in Ammore e malavita; si muore per necessità e si muore perché non si può fare a meno di essere coerenti fino in fondo. I Manetti sfidano gli spettatori, costringendoli a immedesimarsi nel personaggio più carogna di tutti a ben vedere, quel Ciro che tradisce davvero – da principio per una ragione più che valida, in seguito solo per eseguire ciò che gli è stato insegnato da ragazzo – e uccide perfino l’amico di sempre. Così, quasi a sangue freddo. Quel Ciro che giustamente deplora il piano ordito da Don Vincenzo e donna Maria, ma poi lo esegue a sua volta. Ma è un esecutore, per l’appunto, non un creatore: solo alle donne è consentito “mettere in scena”, creare la tessitura narrativa, stupire con la finzione. La più grande finzione di tutte: la morte stessa. Quella morte che è quotidianità per chi vive nel sottobosco criminale, quella morte che scivola fuori da ogni canzone in scena, quella morte che è parte integrante della vita, così come l’amore, il sentimento, unico appiglio a un’umanità imbastardita.
I Manetti, grazie anche all’ottimo lavoro di Pivio e Aldo De Scalzi in fase di colonna sonora, ordiscono un musical che sposa le regole del genere ma le rimette in scena con uno spirito scanzonato, quasi buttato via, con un’alzata di spalle. Ma non mancano le coreografie, alcune davvero minimali eppur sorprendenti (quello schioccare di dita dei fantasmi sugli scogli…), e non manca mai l’idea. Così come arriva a supporto un cast in splendida forma, a partire da un monumentale Carlo Buccirosso fino al Gennaro interpretato da Franco Ricciardi, che già aveva rapito le orecchie del pubblico in Song’e Napule intonando A verità, e che qui è un ingessato e rigoroso scagnozzo del boss. “Nun è Napule”, cantano nel finale i protagonisti, perché nessun altro posto sarà mai come casa. Nonostante le pallottole. Nonostante l’ammore e la malavita…

Promossi a pieni voti dal pubblico del festival, i Manetti devono evitare il rischio di accontentarsi ripetendo ad oltranza la formula del loro successo: pur riuscito, infatti, "Amore e malavita" risente del fatto di essere una variazione sul tema di Song' e Napule e, quindi, di scontare qualcosa in termini di novità e freschezza rispetto al modello di riferimento.
da qui

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