un film africano che non t'immagini, senza terroristi, migranti, morti ammazzati, senza urla, solo storia/e d'amore, lavoro, perdono, sorrisi.
i protagonisti sono Lubna Azabal (già ne La donna che canta, di Denis Villeneuve) e Saleh Bakri, e già da soli meritano la visione del film.
una coppia che porta avanti il negozio di sartoria, con difficoltà, il commercio cambia anche in Marocco, lei è malata, lui le sta vicino per quanto possibile, fino a trascurare il lavoro di sarto.
alla fine riappare l'aiutante della bottega, riesce a tenerla aperta, e diventa un componente della famiglia, fa quel che può, e per tutti è molto.
anche il caftano blu (petrolio) è un protagonista, e la scena finale è bellissima, vedrete.
è un piccolo film, solo in una ventina di sale si può vedere, cercatelo, merita - Ismaele
… Il caftano blu è anche un film che sembra rivolgere allo
spettatore quello stesso invito ad aspettare che viene dato ai clienti
impazienti e frettolosi di ottenere i loro abiti, perché si prende certamente
il suo tempo per raccontare la sua storia; la trama contiene molti momenti di silenzio, e quindi anche i personaggi
vengono sviluppati soprattutto attraverso i loro gesti e gli sguardi, e quindi non attraverso dialoghi che ne avrebbero potuto
rivelare, verbalmente ed esplicitamente, alcuni dettagli in più, specialmente sul
loro passato.
Alcuni passaggi della vicenda sono in parte
prevedibili, fino a portare ad una conclusione che dunque è coerente con i suoi
messaggi, e che non cerca a tutti i costi la sorpresa o lo stupore. Quello che
viene messo in evidenza, anche grazie al lavoro di squadra dei tre interpreti
principali, è piuttosto l’affetto e la tenerezza nei confronti dei personaggi,
la delicatezza dei piccoli gesti, mescolando intensità dei sentimenti e
pacatezza della discrezione, cercando di evitare facili forme di giudizio.
Il caftano blu è quindi un film che invita alla tolleranza
e alla libertà nel pensiero e nel modo di vivere la propria vita, rimarcando
l’importanza dell’amore, e anche della cura e della passione che si mettono in
ciò che si fa, tanto nei sentimenti quanto nel proprio mestiere
…la regista non sembra in pieno controllo delle proprie
intenzioni così come lo è dei propri mezzi estetici – la fotografia è sbalorditiva: vellutata e quasi metafisica, ma ugualmente
plastica, pittoricamente tornita – e la drammaturgia che ricorre alle parole
e alle azioni per scrivere la storia – il film si muove poco, procede
per teorie di tabliaux in successione; i dialoghi mancano di sottigliezza, a
tratti si fanno didascalici, a dispetto di un’allusività apparente che, di
fatto, è però più banale reticenza – appare molto più debole rispetto alla
magnificenza delle immagini e dei loro minuti dettagli. Immagini che sì
incantano e avvolgono, ma anche miniaturizzano la forza della rappresentazione,
la condannano a una virtuosistica, rigida sterilità: frigidi non sono i cuori in inverno dei protagonisti, la loro incapacità
di amare l’altro eroticamente (Halim gode feticisticamente e
frettolosamente di corpi che non riesce ad amare; Mina della dipendenza in cui
mantiene, quasi fino alla fine, il marito-bambino, di un amore paradossalmente
insieme accuditivo e astratto), ma frigida è l’autenticità
artistica che il film riesce a raggiungere. La regista, come il suo personaggio, si è tenuta
al riparo dall’assunzione di responsabilità radicali schermandosi dietro la
maestria artigianale di un dilatato, incantevole ricamo che rinuncia in
partenza alla catarsi.
…Detto della
semplice trasparenza, diciamo anche della prevedibile derivabilità della trama, Il Caftano blu conquista per lo
stile, per la selettività con cui Maryam Touzani inquadra una
storia dall’incedere compassato, dalla scrittura ragionata (la regista è anche
sceneggiatrice a quattro mani con Nabil Ayouch), dalla recitazione studiata e
calibrata. Un film che al di là del triangolo amoroso, prende vigore in
funzione del contesto a cui rimanda, del Marocco che mostra di scorcio, di
dettaglio, di fuoricampo (le grida dei passanti, le preghiere, le partite di
calcio), d’interni (la sartoria, la camera nunziale, il bagno turco) e
d’esterni (i vicoli claustrofobici della medina).
Nell’universalità di temi, la cineasta mostra empatia e polso senza
cedere al facile vouyerismo, soffermandosi sulle curvature emotive delle
sue creature con un tono languoroso e intenerito che resiste pur
nell’abbondanza di micro-scene…
…Tra cinefilia e impeto di cambiamento sociale,
infatti, Il caftano trova subito la sua peculiarità lavorando
di analogia e allusività dei silenzi, di doppiezza di
parole e occhi come di pregnanza dei gesti, di policromia degli ambienti
(il blu, appunto, ma anche il bianco e l’ocra), di densità di gesti e
sguardi. Soprattutto, sui titoli di coda, pervade lo spettatore una
certa commovente, inscalfibile tenerezza verso creature schiacciate dal
pregiudizio, alla ricerca di una libertà anticonvenzionale ancora da
conquistare.
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