Chi mi segue sui miei social conosce – forse
ne è ormai nauseato – le mie intemerate contro le serie TV. Ho una vera e
propria idiosincrasia nei confronti di questo genere di linguaggio.
Intendiamoci: concordo con molte delle obiezioni che i followers mi fanno – vi
sono eccezioni che confermano la regola, vi sono esempi di qualità. Vi sono
serie che sono prodotti d’autore e che mantengono ambizioni
espressivo-artistiche, vi sono serie ben recitate e che hanno lanciato
grandissimi attori (Gomorra è il primo esempio che mi viene in mente) o che ne
hanno confermato le doti (cosa sarebbe stata Narcos senza il carisma di Wagner
Moura, già noto ai cinefili per “Tropa D’Elite”?). Su una cosa però concordano
pressoché tutti: si tratta di felici eccezioni. La problematica dello strumento
espressivo “serie TV” è in re ipsa: la sua serialità. L’obiettivo primo della
serie non è l’espressività artistica, ma il puro – e lungo – intrattenimento
commerciale. Questo può non essere considerato di per sé un detrimento, ma è
comunque qualcosa di innegabile, con gli esiti che ciò comporta: lo
“stiracchiamento” artificioso e inutile della storia (servivano davvero Gomorra
3 e 4?), l’addensarsi degli eventi in alcune puntate (specie quelle finali),
l’origine “commerciale” che le rende prodotti confezionati “ad algoritmo”, “a
marketing” dalle grandi piattaforme (effetto “omogenizzato per l’infanzia”,
precotto e pre-digerito), e quindi – tema laterale – l’appiattimento beota sui
canoni del “politically correct” anglosassone. Fast food dell’immaginario, in
cui puoi trovare l’interessante prodotto del mese, tra i quali puoi persino
trovare la catena che non proponga ingredienti surgelati… ma alla fine sempre
fast-food sono: hamburger, pollo fritto, patatine, qualche insalata e bibite
zuccherate.
Questa dimensione catalizza anche se non
origina una problematica affine: la senilità dell’immaginario contemporaneo.
Ebbene sì: abbiamo un problema col fantastico, e questo mi causa un’infinita
tristezza. La fantasia, non un genere espressivo ma IL genere espressivo da
quando l’umanità iniziò ad adunarsi attorno ai primi focolari, non sembra più
essere quella di una volta, signora mia. La mia diffidenza verso le serie TV mi
ha impedito di sottopormi al Trono di Spade; amo troppo Tolkien per sottopormi
a “Gli anelli del potere” o come diavolo si chiama – Tolkien in versione fast
food. Epperò George Martin l’ho letto, Tolkien divorato, e mi sono misurato con
gli scritti di Ursula Le Guin. Tolkien creò un genere, fissò uno standard
(senza dimenticare altri caposcuola come Ende o Howard, quest’ultimo anello di
congiunzione con il mondo horror di Lovecraft). La Le Guin lo ribaltò e lo
innovò, proponendoci nel suo ciclo di Terramare un vero fantastico “al
femminile”, in cui vi è magia ma non spada, spiritualità e parola e non guerra,
ambientato non in un medioevo europeo fantastico ma in una sorta di “età del
bronzo / età del ferro” non definita. Martin, autore abile e furbo, ha capito
che il genere fantasy non bastava “rinnovarlo”, ma serviva adattarlo ai gusti
del pubblico degli ultimi decenni: e quindi intrighi, trame di corte e… sesso.
Fin qui, nulla di male: che cosa ha fatto la penna della Rowling se non
prendere il fantastico e trasporlo nel mondo di oggi e nella dinamica del
romanzo adolescenziale e di formazione, portando il genere ad un pubblico? È
nel solco di una nobile tradizione anglosassone (Paul Stewart, Roald Dahl, a
suo modo Terry Pratchett, tutti maestri del creare mondi).
I problemi iniziano però quando le
trasposizioni cinematografiche – e seriali – portano la fantasia al fast–food,
montando e rimontando cliché a soli fini commerciali. Repetita juvant: cliché
vecchi e nuovi a puri-fini-commerciali, tutto il materiale venendo precotto,
precostituito e assemblato dagli uffici marketing delle major. Per concepire
Star Wars, George Lucas ricorse ai servigi di un filologo del calibro di Joseph
Campbell, intellettuale enorme che fece coi racconti eroico-mitologici quello
che Propp fece con le fiabe. Vi era epos, vi era crescita del suo personaggio,
vi erano caduta e redenzione: questa è la saga di Anakin Skywalker. L’ultima
trilogia di Star Wars? Kylo Ren è un adolescente con le turbe della propria età
che litiga con mammina e papino. Rey un personaggio di insipido piattume. E i
cattivi? Snoke – e l’Imperatore in vitro – non riescono a farci paura o
repulsione nemmeno per dieci minuti consecutivi. Personaggi deboli, piagnoni,
privi di carisma, e cattivi senza profondità. Il tutto per condire una storia
banale, inutile, riproposizione surgelata – per essere scongelata al microonde
– della saga originaria. Il cibo scongelato per microonde serve però a chi non
sa cucinare, a chi non ha gusto, e la grandezza della tragedia e dell’epos
della prima trilogia qui si riduce a storiella familiare, pensata per un
pubblico di adolescenti del tutto ineducati alle Storie, alla Storia. Si
potrebbero fare altri esempi, ma il nadir di tutto questo lo abbiamo visto di
recente al cinema con quella pomposa, irritante e noiosa (ma quanto era lunga?)
truffa di “everything everywhere all at once”. Al di là di qualche trucchetto
estetico e un’ironia di fondo che, ripetuta allo spasmo, diventa stucchevole,
un pappone già visto e rivisto di temi triti e ritriti. La chiamata di un
eletto verso un mondo parallelo? Le altre dimensioni? Le arti marziali
mistiche? Ma dai? Ma davvero? Per evitare di sbadigliare lo spettatore
cresciuto a pane e cinema colleziona citazioni (“questo l’ho già visto … questa
è una trovata… qui si cita quest’altro… questo me lo hanno già mostrato qui”).
Lo spettatore giovane, ignaro, meno scafato si sorbisce un pappone famigliare
di rapporti madre-figlia e madre-nonno, con tanto di pianto sulle pene
coniugali della protagonista fuori dal negozio (ma “Un posto al sole” non lo
davano su Rai3?): e il peggio è che, non conoscendo altro, non avendo mai
gustato cucine migliori, il pappone da fast food gli piace pure. Feuilleton
adolescenziali/sentimentali pensati per quel tipo di pubblico, tanto
politicamente corretto, e soprattutto un particolare inquietante: l’assenza di
un villain, il rifiuto, da parte di questi schemi di esplorare, caratterizzare
e indagare il cattivo, il rifiuto quindi del vero scavo psicologico. Il cattivo
forse c’è, forse non è il vero cattivo, e comunque non si vede, e se si vede è,
perdonate la volgarità, una mezza pippa. Sia mai che poi i bambini non dormano
la notte, e debbano controllare se c’è il mostro sotto al letto.
Ecco, in un contesto già così
culturalmente degradato, il prodotto seriale non fa altro che catalizzare i
problemi. Ho deciso, ad ulteriore esempio, di farmi cavia da laboratorio e di
sottopormi ad una serie TV fantastica scelta a caso, per toccare con mano le
problematiche del prodotto seriale abbinate a quelle del prodotto fantastico
odierno. Ho visto le otto puntate de “La Ruota del Tempo”. Fatelo: sottoponetevi
a questo dolore iniziatico. Non si salva nulla, nemmeno i costumi – che fanno
rimpiangere i film-TV anni ‘80/’90 – forse giusto le musiche. I mali della
serialità: per metà del tempo non accade nulla. La sceneggiatura si avvita su
sé stessa, ora il tempo si dilata e rallenta inutilmente, ora si velocizza e si
comprime – specie verso le ultime puntate. Gli autori hanno però cura certosina
di una cosa: condire questo nulla narrativo di wokismo, aggiungendo questa
solita mania di eliminare, de facto, il villain. Il cattivo di fondo della
trama, il “Tenebroso”, è un’essenza del male, un’entità invisibile che viene
materializzata a fine serie in un personaggio fisico di nessuna
caratterizzazione e interesse, mentre l’altro potenziale villain, uno degli inquisitori,
non viene minimamente sfruttato. Tutti i personaggi in realtà sono
monodimensionali e piuttosto piatti, ma quello che risulta irritante è questa
coazione a ripetere adolescenti piagnoni, i giovani membri raccolti dalla
protagonista. Questa incapacità di scavare nei personaggi e di sfaccettarli è
desolante. Quanto ai mali del fantastico odierno: davvero mi state mostrando di
nuovo una compagnia in viaggio da una terra idilliaca verso il luogo del male,
un ordine magico/cultuale femminile e uno monastico/cavalleresco maschile e una
barriera/fortezza a nord che protegge il mondo dai cattivi? Davvero?
La triste conclusione l’ha tirata uno dei
miei followers col dono della sintesi, scrivendomi: “non è che sono finite le
idee, è che la grande distribuzione non fa arte ma crea prodotti
preconfezionati che servono a vendere (…) oggi Il Signore Degli Anelli non
potrebbe essere pubblicato, è eccessivamente complesso, non viene rispettato il
principio “Show don’t tell” (vedi il Consiglio di Elrond), non vi sono elementi
woke, è pieno di poesie e canzoni e di elementi che non rispettano la pistola
di Chekov… è proprio questo a renderlo unico e complesso, con una profondità
che sarebbe inconcepibile trovare oggi”. Dobbiamo rendercene conto: sarà una
battaglia culturale lunga, da combattersi con buon cinema e buone letture,
educando al gusto i nostri figli e fratelli minori. Un buon inizio è “Il
Signore Degli Anelli” di Ralph Bakshi (1978): e chi ben comincia è a metà
dell’opera.
Amedeo Maddaluno
POST SCRIPTUM L’abrasione del cattivo è
un tema che meriterebbe un libro, non un articolo a parte. Proviamo a
riassumere il tema in un PS. George Lucas infarciva le sue narrazioni di
cattivi straordinari. Darth Veder, il cattivo che si redime, l’Imperatore,
l’essenza irredimibile del male che va solo distrutto, Jabba De’Hutt, il
cattivo malvagio ma goffo e ridicolo – il primo a cadere alla fine della
storia. Paragonateli all’inconsistenza dei cattivi dell’ultima trilogia, o
all’evanescenza dei villain de La Ruota del Tempo. Dove sono finiti i cattivi?
Dove è finito il male? Il male escatologico del Sauron, il male corrotto di
Saruman, il male da tragedia greca di Denethor del Signore Degli Anelli, il
male interiore del Mago della Le Guin, il male incomprensibile e non razionalizzabile
di Lovecraft. Dove sono finiti i grandi villain che danno addirittura il via
alle storie, che giustificano il Cammino dell’Eroe (maiuscoli voluti)?
L’ideologia del Politicamente Corretto non può tollerare la rappresentazione
del male e dei mali: significherebbe doverli definire, indicare, scegliere o
rifiutare e questa sarebbe la fine del buonismo, del “va bene tutto”.
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