Tutti i film sono politici*, nelle mani di chi li scrive e/o negli occhi di chi li guarda.
Il film è stato, secondo me giustamente, premiato a Venezia, sia il regista del film Matteo Garrone (Leone d'Argento per la miglior regia) che Seydou Sarr (Premio Marcello Mastroianni al miglior attore esordiente) sono stati premiati.
La storia è semplice, due ragazzi senegalesi vogliono andare in Europa, per curiosità, come capita ai giovani, raccolgono i soldi, lasciano le famiglie, e fanno il viaggio.
Ne vedranno di tutti i colori, rischieranno la vita tutti i giorni, nel deserto, in Libia, in mare, senza perdere la tenerezza (per usare le parole di Paco Ignacio II Taibo riferite a Che Guevara)
E ci riescono, salvando la vita di tutti i migranti sul barcone.
La grandezza del film è che è raccontato con gli occhi di Seydou, senza prediche né teoremi, in un mondo in cui le migrazioni sono diventate un problema di ordine pubblico, e chi è contro la narrazione del potere viene emarginato, sequestrato, zittito, a volte messo in galera, come sarà capitato a Seydou, eroe per tutti, ma scafista da mandare in prigione, come Pinocchio (ascolta QUI).
Non perdetevi Io capitano, il cinema vi aspetta.
Ps: segnalo due film che raccontano la migrazione con gli occhi dei ragazzi e delle ragazze:
14 kilómetros, di Gerardo Olivares (si può vedere QUI)
e
La gabbia dorata(La jaula de oro) di Diego Quemada Diez (si può vedere QUI)
e Nana (si può vedere QUI), un cortometraggio José Javier Rodríguez Melcón (Premio Goya al mejor cortometraje de ficción nel 2005)
...Il film è
scritto da Matteo con Massimo Gaudioso, Andrea Tagliaferri e Massimo
Ceccherini. “Ceccherini mi ha aiutato tantissimo in Pinocchio e qui. Questo è
un grande racconto d’avventura, un racconto popolare senza grosse
sovrastrutture intellettuali e Massimo, che viene dal popolo, conosce bene
queste dinamiche drammaturgiche, ha la semplicità necessaria”. Altro apporto
fondamentale è quello di Mamadou Kouassi, che spiega: “Il film racconta noi
giovani africani che vogliamo un futuro migliore. Lo stesso viaggio l’ho fatto
io 15 anni fa, dall’Africa subsahariana attraversando il deserto, la Nigeria,
la Libia. Sono stato in prigione, ho visto persone vendute e altre morte in
mare. Ringrazio lo Stato italiano se oggi sono inserito, vivo a Caserta. Ma
penso che dovremmo poter viaggiare liberamente, come diceva anche il presidente
Sergio Mattarella e questo potrebbe frenare il traffico di esseri umani”.
Non manca
per Garrone una domanda sulla mancata presenza a Cannes. “Cos’è Cannes? Un
festival?”, scherza. E prosegue: “Ho ricordi meravigliosi di Venezia, dove sono
venuto la prima volta a 20 anni per giocare a tennis. Quella volta incrociammo
Nanni Moretti. Sono tornato a 28 anni con Ospiti, dormendo tre giorni
all’Excelsior e tre giorni in un furgone scassato. Nel frattempo ero diventato
un appassionato di cinema e mi godevo questo bellissimo festival. Ma questa è
la prima volta in concorso, una partecipazione che può dare un grande aiuto al
nostro film per arrivare al pubblico”. E sugli Oscar, dove potrebbe approdare
nella categoria del film straniero, risponde laconicamente: “Se mi invitano…”.
Matteo
spiega ancora le ragioni di questo lavoro: “Non c’è solo la migrazione legata
alla disperazione assoluta, l’Africa è formata da 52 Stati e c’è anche una
migrazione interna. Non tutti hanno i soldi per venire in Europa. L’importante
per me era raccontare i riflessi della globalizzazione, così anche chi vive una
povertà dignitosa cerca un futuro migliore, magari col sogno di diventare
calciatore o cantante ma anche per conoscere il mondo. Ci sono ragazzi – e la
popolazione africana è composta al 70% da giovani – che non hanno paura di
rischiare la propria vita, qualcuno non crede negli avvertimenti di chi dice
che il viaggio è pericoloso e potrebbe essere mortale”.
“Nella parte
iniziale abbiamo creato dei personaggi che mettessero in guardia i nostri dai
pericoli e abbiamo cercato di scrivere seguendo i canoni del racconto di
avventura. E’ un film accessibile ai giovani delle scuole che potranno
identificarsi e prendere coscienza dei loro privilegi”.
Su eventuali
strumentalizzazioni politiche Garrone risponde: “Il tema che tocco è un
archetipo, il viaggio verso una terra promessa da un paese più povero a uno più
ricco, e noi siamo italiani lo sappiamo bene cosa significhi. E poi c’è come
una domanda che loro si pongono: perché i nostri coetanei possono venire
liberamente in vacanza in Senegal e noi se vogliamo andare lì dobbiamo
rischiare la vita? C’è un tema di libertà, di libertà di circolazione e di
giustizia e questo va al di là della politica sui migranti in Europa”.
…L’architettura sottostante ricalca quel Viaggio dell’eroe che è il titolo di un arcinoto manuale a uso
degli aspiranti sceneggiatori, libro che abilmente volgarizza certo
strutturalismo e la morfologia della fiaba di Propp per svelare il presunto
eterno schema alla base di tanta letteratura e tanto cinema intorno a quelle
figure superomistiche che si autorealizzano attraverso l’avventura e
l’esplorazione. Io capitano di quello schema sembra l’applicazione, e
però tutt’altro che pedissequa. Nel suo scheletro narrativo si possono scorgere
infinite matrici (nel ragazzo Seydou qualcuno ha visto, e non a torto, Ulisse,
Enea, Gilgamesh). Ma la parte migliore è l’ultima, è la traversata in mare con
il sedicenne Seydou al comando, una responsabilità che gli è stata imposta dai
trafficanti. E nella sua paura di non farcela, di mandare a morire i
passeggeri, donne, bambini, uomini, vecchi, si sentono gli echi del rimorso e
del senso di colpa di Lord Jim, l’antieroe conradiano che mandò a morire per
irresponsabilità i pellegrini verso la Mecca trasportati sula sua nave. Racconto
fondamentale che divenne anche nei primi Sessanta un meraviglioso e oggi
dimenticato film di Richard Brooks con Peter O’Toole. Tutta l’ultima parte di Io capitano è pervasa di memorie di altre avventure
marinare, dall’Isola del tesoro a Moby Dick. Una traversata che porta a complimento il
percorso di formazione di Seydou, perché il film è anche questo, la cronaca di
un passaggio all’età adulta. Garrone resta fedele al proprio cinema di sempre,
al suo senso per il racconto fantastico e onirico e per la faccia oscura,
sordida e violenta dell’umano (la parte nella prigione libica). Qualche eccesso
estetizzante (l’abbandono dei poveri migranti in pieno Sahara avviene tra dune
bellissime da fotografare), qualche concessione all’esotismo-orientalismo
nell’osservazione della vita negli slums di Dakar. Ma sono peccati veniali che
non mettono a rischio la riuscita dell’impresa.
… La scena finale
del film è stata molto al di sopra delle aspettative dello stesso regista. “Mi
ha sorpreso, mentre la giravo. Quasi tutta la troupe piangeva, perché Seydou è
riuscito a fare vedere il viaggio: ride, piange, è sorpreso, è incredulo. Tutti
gli stati di animo passano negli occhi del ragazzo in quel momento. Per me il
cinema è questo: creare dei momenti unici. Ho avuto quella sensazione, che in
quel momento fosse accaduto qualcosa che mi sopravanzava”.
I film
sull’immigrazione possono essere molto brutti: paternalistici, privi di
autenticità o didascalici. Il rischio è di rimanere intrappolati dentro a una
qualche retorica o di rappresentare le persone in maniera macchiettistica o
ancora di usarle come specchio. Matteo Garrone non è caduto in nessuna di
queste tentazioni ed è riuscito a fare un film quasi impossibile: raccontare
una storia presente – consumata dalla continua rappresentazione mediatica – e
trasfigurarla in un archetipo.
Io capitano è il viaggio epico di due ragazzi, una favola sul
passaggio all’età adulta e l’incontro traumatico con la separazione dalle
origini e dagli affetti, il pericolo di perdersi e la morte. “A me interessava
fare un film che in parte fosse epico, ma allo stesso tempo che fosse un road movie e insieme un romanzo di formazione.
Pensavo all’Odissea, ma anche a Pinocchio. All’Isola del tesoro di Robert Louis Stevenson e
a Cuore di tenebra di Joseph Conrad”, racconta
Garrone.
“Mi sembrava che
mancasse un racconto in forma visiva del viaggio, soprattutto della parte del viaggio
che si svolge dall’altra parte del mare. Volevo fare un controcampo, ribaltare
la prospettiva, guardare a cosa succede prima”, aggiunge.
Nessuna povertà
estrema, nessuna guerra, nessuna disperazione spingono i due “Huckleberry Finn”
senegalesi a partire. È solo la loro sfrontatezza che gli fa sottostimare i
pericoli e sopravvalutare se stessi. Ma anche il desiderio di somigliare di più
ai loro sogni, a una certa idea di sé, frutto di fantasticherie e proiezioni…
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