giovedì 15 settembre 2022

IL SENSO DELLA FINE: “MELANCHOLIA” DI LARS VON TRIER - Stefano Prandi

 

Non accade spesso che un’opera si riveli allo stesso tempo inedita e classica, innovativa e consuntiva rispetto ad una tradizione secolare. Forse non è un caso che una simile impresa sia stata realizzata dal cinema, “arte giovane” ma dalla memoria già così vasta e sedimentata. Melancholia di Lars von Trier (2011) può certo annoverarsi tra le rare pellicole che, per sola forza di immagini e suoni, riescono a smuovere in profondità nodi simbolici ed archetipi di carattere universale, tanto da lasciare visibile traccia nell’inquietudine che accompagna a lungo lo spettatore una volta riaccese le luci di sala. Lo fa scegliendo ‒ apparentemente ‒ un tema di grande successo come quello della minaccia alla vita sulla Terra, che ha di recente al suo attivo, escludendo il filone catastrofista del cinema di consumo, Another Earth di Mike Cahill e 4.44 Last Day on Earth di Abel Ferrara.

 

La rigorosa partitura del film è scandita in tre momenti. Abbiamo inizialmente un prologo che presenta una sequenza di immagini prive di una narrazione unificante, in un ralenti dal carattere onirico, in cui il principio di realtà appare vistosamente contraddetto; esso ha come protagonisti una donna in abito da sposa (Justine – Kirsten Dunst), una seconda donna (Claire – Charlotte Gainsbourg) e un bambino (Leo – Cameron Spurr). Le immagini “terrestri” si alternano ad altre nello spazio siderale in cui compare il Sole ed un grande pianeta (il suo nome è Melancholia, come scopriremo) che, alla fine della sequenza, entrerà in mortale collisione con la Terra.

 

Ex abrupto si passa alla seconda sezione, intitolata Justine. Justine è con il futuro sposo su una Limousine troppo grande per poter svoltare nel viottolo di campagna che porta alla sontuosa villa in cui si terrà il ricevimento: irradia gioia da ogni sguardo, nonostante i contrattempi. Ma già durante la cena, dopo i mortificanti monologhi dei genitori, un padre superficiale e assente e una madre gonfia di terreo livore, e quello del suo datore di lavoro, comincia ad emergere il lato prevalente di Justine, quello oscuro e malinconico. La futura sposa si ritira in solitudine, allontanatasi dalla civiltà ritrova il proprio contatto con la natura urinando nel campo da golf con lo sguardo rivolto al cielo; poi la spossatezza si impadronisce di lei, le impone un contegno dilatorio: fa un bagno mentre tutti la attendono al taglio della torta. Tutto il cerimoniale si scioglie in un attimo come belletto posticcio: Justine liquida in malo modo il proprio spocchioso principale, che la licenzia seduta stante; anche allo sposo risulta chiaro che non v’è alcuna unione possibile, e non resta che andarsene. Il racconto procede per spezzoni, in sequenze prodotte in steadycam che ricordano per alcuni aspetti Festen di Vintenberg e contrappongono l’insensato e rituale movimento degli ospiti alla statica verità dei primi piani di Justine, consapevole della vanità di tutto quanto si sta celebrando. Un lungo, indimenticabile primo piano è pure la sequenza di apertura del film: come le grandi dive del muto, la Dunst riesce a reggere la difficile sfida di inquadrature trattenute che sono vere e proprie anatomie del personaggio.

 

Terza ed ultima parte, intitolata Claire. Claire è la sorella razionale e attiva che, nonostante le resistenze del marito, continua a prendersi cura di Justine, completamente svuotata di forze dopo il tentativo fallito di matrimonio. La presenza del pianeta Melancholia, dopo aver fatto capolino già nella prima parte (quando era stata scambiata per la stella Antares, la più luminosa della costellazione dello Scorpione ‒ gigante rossa‒) comincia ad emergere minacciosa: tam tam dalla rete parlano di una sua collisione con la Terra, in una fatale “danza della morte”: ipotesi nettamente smentita dal marito di Claire, Jack, che invoca la certezza dei calcoli scientifici in base ai quali il pianeta le passerà solo accanto. Nel rapporto tra le sorelle si assiste ad un progressivo rovesciamento di ruoli: man mano che i segni della presenza affascinante ma funesta di Melancholia si fanno più concreti, Justine prende forza (anche fisicamente: ricomincia ad avere appetito), mentre Claire appare smarrita e impotente. Il pericolo della collisione, durante la notte, sembra fugato: Melancholia si allontana; ma sarà dopo il sorgere del sole che Claire, addormentatasi, scopre la terribile verità che Justine ha sempre saputo: il pianeta si riavvicina irrimediabilmente. Il marito non ha retto e si è nel frattempo sucidato ingerendo dei barbiturici. Spetta a Justine, non per nulla chiamata «Steelbreaker» dal nipotino Leo (il figlio della sorella Claire) affrontare il momento cruciale della fine con coraggio, senza patetiche finzioni: lo farà costruendo, in una sorta di rituale magico, una piccola capanna con pochi rami intagliati e ricongiungendo sotto il suo fragile tetto sorella e nipote: l’esplosione finale troverà però solo Justine e Leo con le mani strette l’una nell’altro.

Che il tipo del malinconico presenti, nella sua storia secolare, uno sguardo sulla devastazione del mondo e una vocazione ad interrogarsi sul male, sulla vanitas e sulla fine è un dato culturale a cui Melancholia riesce ad attingere in modo penetrante. «We are […] bad by nature, bad by kinde, but farre worse by art», aveva detto Robert Burton nella sua Anatomy of Melancholy (1621); e Justine ripeterà davanti alla sorella, incredula di fronte all’imminente apocalisse: «La Terra è cattiva». Il malinconico, già a partire dal Medioevo, si augura spesso che il mondo sprofondi, che il destino della fine, inscritto nella vita di ogni uomo, diventi accadimento collettivo e universale. Come dirà Freud in Trauer und Melancholie (in cui, peraltro, uno degli esempi citati è quello della sposa abbandonata), la malinconia, generata dalla perdita dell’oggetto d’amore, appare in costante attesa di una punizione vissuta come risarcimento. Un nesso, quello tra malinconia ed attesa dell’apocalisse, confermato dalle considerazioni, tra antropologia e psicopatologia, di Ernesto De Martino ne La fine del mondo. Sulla scelta di Justine come protagonista, va notato, anche se ovvio, che tutte le personificazioni della Malinconia sono femminili: così anche nella celeberrima Melancholia I di Dürer, in cui peraltro compare un astro celeste che sta precipitando in mare: la cometa che, secondo la più diffusa interpretazione, rappresenta il sole nero, simbolo della fase alchemica della nigredo (ma che alcuni mettono in relazione con la caduta di un grosso meteorite a Ensisheim, in Alsazia, nel 1492, evento che attirò l’attenzione collettiva).

 

L’elemento del malinconico è la terra, il suo sguardo è da un lato rivolto verso il basso, il profondo; la patologia si caratterizza come Schwermut, trascina verso il basso: in una delle sequenze della prima parte vediamo Justine nel suo abito da sposa che tenta faticosamente di camminare, mentre rami e radici le allacciano polsi e caviglie rallentandola. La vediamo anche galleggiare sulle acque con un bouquet di mughetti proprio come l’Ofelia dell’Amleto shakespeariano, secondo il modello iconografico del dipinto di John Everett Millais che viene mostrato nella seconda sezione del film, in una scena metanarrativa che rivela le sue suggestioni pittoriche principali: Justine sostituisce nello studio della sorella le riproduzioni dei suoi dipinti preferiti, tutti di arte astratta, con quelle de Il ritorno dei cacciatori di Pieter Brueghel il Vecchio, dell’Ophelia di Millais, de Il paese di cuccagna dello stesso Brueghel, del Davide con la testa di Golia di Caravaggio. Dalla scena è freudianamente rimosso il quadro a mio avviso più importante: la Malinconia di Lucas Cranach il Vecchio, di cui esistono varie versioni, una delle quali esposta allo Statens Museum di Copenhagen: alata e con una veste rossa (come appare Melancholia alle prime osservazioni), la figura intaglia un ramo (come fa Justine nella scena finale della costruzione della capanna), ai suoi piedi delle pernici (che precipitano a terra dietro il primo piano iniziale del film). Nella versione del Museo di Unterlinden di Colmar si aggiunge un particolare: un puttino si dondola su un’altalena; forse proprio quella che vuole montare il promesso sposo nel terreno coltivato ad alberi da frutto che ha acquistato per alleviare l’angoscia di Justine. Ma ciò che rende il dipinto così prezioso per l’interpretazione del film è che, in tutte quante le versioni, dalla grande finestra sullo sfondo si erge minacciosa una nuvola nera con i quattro cavalieri dell’Apocalisse che si stanno rapidamente approssimando.

 

La malinconia è però non solo pesanteur e senso tragico della fine, ma anche potenza fantastica, Schwärmerei, dona una sensibilità e una preveggenza, come aveva dichiarato una lunga tradizione (dallo Pseudo-Aristotele a Tommaso Campanella), che gli individui normali non posseggono. Il malinconico-saturnino è l’uomo di genio: poeta, artista o profeta che sia; l’influsso astrale si aggiunge a quello temperamentale, secondo una logica che congiunge il microcosmo (corpo umano) al macrocosmo (universo). E così è pure nella bipartizione delle due sezioni principali del film, che mettono una di fronte all’altra l’imporsi della malinconia di Justine da un lato e del pianeta Melancholia dall’altro. Justine sa cosa accadrà, così come conosce il numero esatto dei fagioli contenuti nel vaso che gli invitati al banchetto nuziale avrebbero dovuto indovinare: 678. È un caso che nella ghematria cabalistica, la quale assegna un valore numerico ad ogni lettera ebraica, il numero 678 corrisponda al sintagma Het ra, traducibile come «Temutissimo male»?

 

Lo scenario del film non muta mai: un piccolo cosmo, sostanzialmente neutro sul piano spaziale e temporale, racchiuso in una villa sontuosa, un campo da golf e una boscaglia circostante, con un ponte che conduce verso l’esterno che le protagoniste non riescono mai a varcare: forse (il regista lascia qui volutamente indeterminate le possibili interpretazioni) non tanto per la presenza del sacro, come accade ad esempio nella leggenda della regina di Saba, quanto per l’influsso di Melancholia, che le trascina verso il centro del loro mondo. Jack, il marito di Claire, chiede ad un certo punto a Justine: «Quante buche ha il nostro campo da golf?»; una volta ottenuta come risposta ovvia «Diciotto» si sente rassicurato. Tutto ciò che Jack può vedere e concepire è racchiuso in quel perimetro. Non è un caso che, di fronte al bizarro contegno di Justine e della madre durante la festa di matrimonio, egli continui a ripetere: «Incredibile»; quando realizza che il pianeta entrerà in collisione con la Terra e la sua cieca fiducia nella scienza va in pezzi, egli non è più in grado di sopportare la situazione e, disperato, si dà la morte. Si potrebbe anche dire che questo è un film sulla sospensione dell’incredulità: tutti i segni “inverosimili” sparsi nel prologo onirico del film trovano puntuale realizzazione nel finale: le scariche elettriche che lievitano verso l’alto (prima a partire dalle dita di Justine, poi dai pali della luce), gli insetti che abbandonato a frotte il terreno, l’albero in fiamme ma soprattutto, nella scena della fuga di Claire col figlio in braccio (nel prologo con le gambe affondate nel terreno, nel finale sotto una grandine fittissima), il paletto che segnala vistosamente la buca numero 19, l’impossibile al di là che non si può in ogni caso varcare: «andare alla buca 19», nel gergo dei golfisti, significa uscire dal campo a fine partita per bere qualcosa.

 

Nonostante i frequenti riferimenti allo schema ternario (tre sezioni, tre corpi celesti, tre personaggi principali), a cui del resto von Trier ci ha abituati con le sue trilogie, il film è percorso da una vera ossessione per la dualità che trova la sua incarnazione più efficace nella complementarità di Claire e Justine. Una delle sequenze iniziali mostra il prato davanti alla villa con la grande meridiana e gli alberi ai lati che gettano un’impossibile doppia ombra, data dal sole e da Melancholia . L’apollinea Claire è mora ed ha le unghie laccate di nero; l’atrabiliare Justine, vocata inflessibilmente alla verità, bionda. Anche l’onomastica non pare casuale: Justine sembra impersonare il mito di Astrea, dea della giustizia fuggita nella costellazione della Vergine durate l’età del ferro perché disgustata dalla malvagità umana; Claire tiene fede nel proprio nome a quegli ideali di razionalismo “illuminato” che ha assunto, in simbiosi col marito, soprattutto per timore del lato oscuro del reale. A titolo di pura curiosità ho tentato, non senza qualche inquietudine, di anagrammare la somma dei loro nomi, e uno dei risultati, che non pretendo certo ricondurre alla volontà del regista, è «real injustice» (la fine dell’umanità?). Pur così differenti, le due sorelle non possono stare l’una senza l’altra: insieme potrebbero anche rappresentare i lati contrapposti dell’animo umano, visto che i ruoli maschili (il promesso sposo, il padre e il principale di Justine, il marito di Claire) sono condannati alla marginalità, all’impotenza o alla sconfitta: un fatto di cui i detrattori del regista, spesso accusato di misoginia, saranno obbligati a tenere conto. È alle prime luci dell’alba che svanisce l’illusione di felicità di Justine, con la partenza dello sposo, del principale e degli altri invitati; è al mattino Claire farà la terribile scoperta della morte del marito e dell’approssimarsi certo della fine. Ciò, tra l’altro, giustifica con una particolare forza la scelta, indovinatissima, del preludio del Tristano e Isotta di Wagner come Leitmotiv sonoro del film: non solo una vicenda in cui amore e morte si fondono in suprema apoteosi, ma anche una riscrittura post-romantica del tema provenzale dell’alba, in cui gli amanti appunto maledicono il sorgere del sole perché interrompe la loro notte d’amore.

L’antitesi di cui sono espressione le due sorelle incarna una più generale tensione paradossale che ha spesso animato il cinema di von Trier, in cui gli opposti possono invertirsi o coincidere: degradazione sessuale e santità (Le onde del destino) sottomissione e dominio (Dogville), umiliazione di sé e controllo dell’altro (Idioti), menzogna e verità (Il grande capo): Melancholia compendia tutto ciò ad un livello più universale, presentando il bene e il male, la realtà e la fantasia, la salute psichica e la malattia come due polarità interdipendenti: la premurosa Claire dichiara per ben due volte di «odiare» la sorella; l’intuizione di Justine si rivela più esatta della fiducia della scienza del cognato; la sua “malattia” la rende più “normale” di lui di fronte alla catastrofe. Memore della lezione di grandi maestri come Dreyer, Renoir, Tarkovskij, Melancholia si presenta come il cimento forse più alto e compiuto di von Trier, la sfida più difficile per un regista sofferente, proprio come Justine, di depressione cronica: un’opera implacabilmente schopenhaueriana nella sua negazione di trascendenza, un’apocalisse senza Dio che tuttavia riesce a tenere acceso un barlume inestinguibile di speranza; levigata nella sua perfezione formale eppure capace di incidere lo spesso strato della nostra assuefazione e indifferenza. E forse l’attimo più intenso per lo spettatore è quell’ultimo fotogramma nero dopo la deflagrazione planetaria in cui, sospeso nel «silenzio nudo» e «nella quiete altissima» del vuoto cosmico (Leopardi, Cantico del gallo silvestre), egli si sente davvero postumo a se stesso. Dopo tante pellicole sulla fine del mondo in omaggio a quella cultura di morte e di oblio cui il cinema di massa ci ha abituati, Melancholia ci trattiene al fondo di una meditazione profonda, estetica ed etica insieme, sull’attesa della fine, sul suo senso: in definitiva ‒ ed è l’ultimo, fecondo paradosso del film ‒ sulla vita stessa.

da qui

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