Non accade spesso che un’opera si riveli allo stesso
tempo inedita e classica, innovativa e consuntiva rispetto ad una tradizione
secolare. Forse non è un caso che una simile impresa sia stata realizzata dal
cinema, “arte giovane” ma dalla memoria già così vasta e sedimentata. Melancholia di
Lars von Trier (2011) può certo annoverarsi tra le rare pellicole che, per sola
forza di immagini e suoni, riescono a smuovere in profondità nodi simbolici ed
archetipi di carattere universale, tanto da lasciare visibile traccia
nell’inquietudine che accompagna a lungo lo spettatore una volta riaccese le
luci di sala. Lo fa scegliendo ‒ apparentemente ‒ un tema di grande successo
come quello della minaccia alla vita sulla Terra, che ha di recente al suo
attivo, escludendo il filone catastrofista del cinema di consumo, Another
Earth di Mike Cahill e 4.44 Last Day on Earth di
Abel Ferrara.
La rigorosa partitura del film è scandita in tre
momenti. Abbiamo inizialmente un prologo che presenta una sequenza di immagini
prive di una narrazione unificante, in un ralenti dal
carattere onirico, in cui il principio di realtà appare vistosamente
contraddetto; esso ha come protagonisti una donna in abito da sposa (Justine –
Kirsten Dunst), una seconda donna (Claire – Charlotte Gainsbourg) e un bambino
(Leo – Cameron Spurr). Le immagini “terrestri” si alternano ad altre nello
spazio siderale in cui compare il Sole ed un grande pianeta (il suo nome è
Melancholia, come scopriremo) che, alla fine della sequenza, entrerà in mortale
collisione con la Terra.
Ex abrupto si passa alla seconda sezione, intitolata Justine.
Justine è con il futuro sposo su una Limousine troppo grande per poter svoltare
nel viottolo di campagna che porta alla sontuosa villa in cui si terrà il
ricevimento: irradia gioia da ogni sguardo, nonostante i contrattempi. Ma già
durante la cena, dopo i mortificanti monologhi dei genitori, un padre
superficiale e assente e una madre gonfia di terreo livore, e quello del suo
datore di lavoro, comincia ad emergere il lato prevalente di Justine, quello
oscuro e malinconico. La futura sposa si ritira in solitudine, allontanatasi
dalla civiltà ritrova il proprio contatto con la natura urinando
nel campo da golf con lo sguardo rivolto al cielo; poi la spossatezza si
impadronisce di lei, le impone un contegno dilatorio: fa un bagno mentre tutti
la attendono al taglio della torta. Tutto il cerimoniale si scioglie in un
attimo come belletto posticcio: Justine liquida in malo modo il proprio
spocchioso principale, che la licenzia seduta stante; anche allo sposo risulta
chiaro che non v’è alcuna unione possibile, e non resta che andarsene. Il
racconto procede per spezzoni, in sequenze prodotte in steadycam che
ricordano per alcuni aspetti Festen di Vintenberg e
contrappongono l’insensato e rituale movimento degli ospiti alla statica verità
dei primi piani di Justine, consapevole della vanità di tutto quanto si sta
celebrando. Un lungo, indimenticabile primo piano è pure la sequenza di
apertura del film: come le grandi dive del muto, la Dunst riesce a reggere la
difficile sfida di inquadrature trattenute che sono vere e proprie anatomie del
personaggio.
Terza ed ultima parte, intitolata Claire.
Claire è la sorella razionale e attiva che, nonostante le resistenze del
marito, continua a prendersi cura di Justine, completamente svuotata di forze
dopo il tentativo fallito di matrimonio. La presenza del pianeta Melancholia,
dopo aver fatto capolino già nella prima parte (quando era stata scambiata per
la stella Antares, la più luminosa della costellazione dello Scorpione ‒
gigante rossa‒) comincia ad emergere minacciosa: tam tam dalla rete parlano di
una sua collisione con la Terra, in una fatale “danza della morte”: ipotesi
nettamente smentita dal marito di Claire, Jack, che invoca la certezza dei
calcoli scientifici in base ai quali il pianeta le passerà solo accanto. Nel
rapporto tra le sorelle si assiste ad un progressivo rovesciamento di ruoli:
man mano che i segni della presenza affascinante ma funesta di Melancholia si
fanno più concreti, Justine prende forza (anche fisicamente: ricomincia ad
avere appetito), mentre Claire appare smarrita e impotente. Il pericolo della
collisione, durante la notte, sembra fugato: Melancholia si allontana; ma sarà
dopo il sorgere del sole che Claire, addormentatasi, scopre la terribile verità
che Justine ha sempre saputo: il pianeta si riavvicina irrimediabilmente. Il
marito non ha retto e si è nel frattempo sucidato ingerendo dei barbiturici.
Spetta a Justine, non per nulla chiamata «Steelbreaker» dal nipotino Leo (il
figlio della sorella Claire) affrontare il momento cruciale della fine con
coraggio, senza patetiche finzioni: lo farà costruendo, in una sorta di rituale
magico, una piccola capanna con pochi rami intagliati e ricongiungendo sotto il
suo fragile tetto sorella e nipote: l’esplosione finale troverà però solo
Justine e Leo con le mani strette l’una nell’altro.
Che il tipo del malinconico presenti, nella sua storia
secolare, uno sguardo sulla devastazione del mondo e una vocazione ad
interrogarsi sul male, sulla vanitas e sulla fine è un dato
culturale a cui Melancholia riesce ad attingere in modo
penetrante. «We are […] bad by nature, bad by kinde, but farre worse by art»,
aveva detto Robert Burton nella sua Anatomy of Melancholy (1621);
e Justine ripeterà davanti alla sorella, incredula di fronte all’imminente
apocalisse: «La Terra è cattiva». Il malinconico, già a partire dal Medioevo,
si augura spesso che il mondo sprofondi, che il destino della fine, inscritto
nella vita di ogni uomo, diventi accadimento collettivo e universale. Come dirà
Freud in Trauer und Melancholie (in cui, peraltro, uno degli
esempi citati è quello della sposa abbandonata), la malinconia, generata dalla
perdita dell’oggetto d’amore, appare in costante attesa di una punizione
vissuta come risarcimento. Un nesso, quello tra malinconia ed attesa
dell’apocalisse, confermato dalle considerazioni, tra antropologia e
psicopatologia, di Ernesto De Martino ne La fine del mondo. Sulla
scelta di Justine come protagonista, va notato, anche se ovvio, che tutte le
personificazioni della Malinconia sono femminili: così anche nella
celeberrima Melancholia I di Dürer, in cui peraltro compare un
astro celeste che sta precipitando in mare: la cometa che, secondo la più
diffusa interpretazione, rappresenta il sole nero, simbolo della
fase alchemica della nigredo (ma che alcuni mettono in
relazione con la caduta di un grosso meteorite a Ensisheim, in Alsazia, nel
1492, evento che attirò l’attenzione collettiva).
L’elemento del malinconico è la terra, il suo sguardo
è da un lato rivolto verso il basso, il profondo; la patologia si caratterizza
come Schwermut, trascina verso il basso: in una delle sequenze
della prima parte vediamo Justine nel suo abito da sposa che tenta
faticosamente di camminare, mentre rami e radici le allacciano polsi e caviglie
rallentandola. La vediamo anche galleggiare sulle acque con un bouquet di
mughetti proprio come l’Ofelia dell’Amleto shakespeariano, secondo
il modello iconografico del dipinto di John Everett Millais che viene mostrato
nella seconda sezione del film, in una scena metanarrativa che rivela le sue
suggestioni pittoriche principali: Justine sostituisce nello studio della sorella
le riproduzioni dei suoi dipinti preferiti, tutti di arte astratta, con quelle
de Il ritorno dei cacciatori di Pieter Brueghel il Vecchio,
dell’Ophelia di Millais, de Il paese di cuccagna dello
stesso Brueghel, del Davide con la testa di Golia di Caravaggio.
Dalla scena è freudianamente rimosso il quadro a mio avviso più importante:
la Malinconia di Lucas Cranach il Vecchio, di cui esistono
varie versioni, una delle quali esposta allo Statens Museum di Copenhagen:
alata e con una veste rossa (come appare Melancholia alle
prime osservazioni), la figura intaglia un ramo (come fa Justine nella scena
finale della costruzione della capanna), ai suoi piedi delle pernici (che
precipitano a terra dietro il primo piano iniziale del film). Nella versione
del Museo di Unterlinden di Colmar si aggiunge un particolare: un puttino si
dondola su un’altalena; forse proprio quella che vuole montare il promesso
sposo nel terreno coltivato ad alberi da frutto che ha acquistato per alleviare
l’angoscia di Justine. Ma ciò che rende il dipinto così prezioso per
l’interpretazione del film è che, in tutte quante le versioni, dalla grande
finestra sullo sfondo si erge minacciosa una nuvola nera con i quattro
cavalieri dell’Apocalisse che si stanno rapidamente approssimando.
La malinconia è però non solo pesanteur e
senso tragico della fine, ma anche potenza fantastica, Schwärmerei,
dona una sensibilità e una preveggenza, come aveva dichiarato una lunga
tradizione (dallo Pseudo-Aristotele a Tommaso Campanella), che gli individui
normali non posseggono. Il malinconico-saturnino è l’uomo di genio: poeta,
artista o profeta che sia; l’influsso astrale si aggiunge a quello
temperamentale, secondo una logica che congiunge il microcosmo (corpo umano) al
macrocosmo (universo). E così è pure nella bipartizione delle due sezioni
principali del film, che mettono una di fronte all’altra l’imporsi della malinconia di
Justine da un lato e del pianeta Melancholia dall’altro.
Justine sa cosa accadrà, così come conosce il numero esatto
dei fagioli contenuti nel vaso che gli invitati al banchetto nuziale avrebbero
dovuto indovinare: 678. È un caso che nella ghematria cabalistica, la quale
assegna un valore numerico ad ogni lettera ebraica, il numero 678 corrisponda
al sintagma Het ra, traducibile come «Temutissimo male»?
Lo scenario del film non muta mai: un piccolo cosmo,
sostanzialmente neutro sul piano spaziale e temporale, racchiuso in una villa
sontuosa, un campo da golf e una boscaglia circostante, con un ponte che
conduce verso l’esterno che le protagoniste non riescono mai a varcare: forse
(il regista lascia qui volutamente indeterminate le possibili interpretazioni)
non tanto per la presenza del sacro, come accade ad esempio nella
leggenda della regina di Saba, quanto per l’influsso di Melancholia, che le
trascina verso il centro del loro mondo. Jack, il marito di Claire, chiede ad
un certo punto a Justine: «Quante buche ha il nostro campo da golf?»; una volta
ottenuta come risposta ovvia «Diciotto» si sente rassicurato. Tutto ciò che Jack
può vedere e concepire è racchiuso in quel perimetro. Non è un caso che, di
fronte al bizarro contegno di Justine e della madre durante la festa di
matrimonio, egli continui a ripetere: «Incredibile»; quando realizza che il
pianeta entrerà in collisione con la Terra e la sua cieca fiducia nella scienza
va in pezzi, egli non è più in grado di sopportare la situazione e, disperato,
si dà la morte. Si potrebbe anche dire che questo è un film sulla sospensione
dell’incredulità: tutti i segni “inverosimili” sparsi nel prologo onirico del
film trovano puntuale realizzazione nel finale: le scariche elettriche che
lievitano verso l’alto (prima a partire dalle dita di Justine, poi dai pali
della luce), gli insetti che abbandonato a frotte il terreno, l’albero in fiamme
ma soprattutto, nella scena della fuga di Claire col figlio in braccio (nel
prologo con le gambe affondate nel terreno, nel finale sotto una grandine
fittissima), il paletto che segnala vistosamente la buca numero 19,
l’impossibile al di là che non si può in ogni caso varcare:
«andare alla buca 19», nel gergo dei golfisti, significa uscire dal
campo a fine partita per bere qualcosa.
Nonostante i frequenti riferimenti allo schema
ternario (tre sezioni, tre corpi celesti, tre personaggi principali), a cui del
resto von Trier ci ha abituati con le sue trilogie, il film è percorso da una
vera ossessione per la dualità che trova la sua incarnazione più efficace nella
complementarità di Claire e Justine. Una delle sequenze iniziali mostra il
prato davanti alla villa con la grande meridiana e gli alberi ai lati che
gettano un’impossibile doppia ombra, data dal sole e da Melancholia .
L’apollinea Claire è mora ed ha le unghie laccate di nero; l’atrabiliare
Justine, vocata inflessibilmente alla verità, bionda. Anche l’onomastica non
pare casuale: Justine sembra impersonare il mito di Astrea, dea della giustizia
fuggita nella costellazione della Vergine durate l’età del ferro perché
disgustata dalla malvagità umana; Claire tiene fede nel proprio nome a quegli
ideali di razionalismo “illuminato” che ha assunto, in simbiosi col marito,
soprattutto per timore del lato oscuro del reale. A titolo di pura curiosità ho
tentato, non senza qualche inquietudine, di anagrammare la somma dei loro nomi,
e uno dei risultati, che non pretendo certo ricondurre alla volontà del
regista, è «real injustice» (la fine dell’umanità?). Pur così differenti, le
due sorelle non possono stare l’una senza l’altra: insieme potrebbero anche
rappresentare i lati contrapposti dell’animo umano, visto che i ruoli maschili
(il promesso sposo, il padre e il principale di Justine, il marito di Claire)
sono condannati alla marginalità, all’impotenza o alla sconfitta: un fatto di
cui i detrattori del regista, spesso accusato di misoginia, saranno obbligati a
tenere conto. È alle prime luci dell’alba che
svanisce l’illusione di felicità di Justine, con la partenza dello sposo, del
principale e degli altri invitati; è al mattino Claire farà la
terribile scoperta della morte del marito e dell’approssimarsi certo della
fine. Ciò, tra l’altro, giustifica con una particolare forza la scelta,
indovinatissima, del preludio del Tristano e Isotta di Wagner
come Leitmotiv sonoro del film: non solo una vicenda in cui
amore e morte si fondono in suprema apoteosi, ma anche una riscrittura
post-romantica del tema provenzale dell’alba, in cui gli amanti appunto
maledicono il sorgere del sole perché interrompe la loro notte d’amore.
L’antitesi di cui sono espressione le due sorelle
incarna una più generale tensione paradossale che ha spesso animato il cinema
di von Trier, in cui gli opposti possono invertirsi o coincidere: degradazione
sessuale e santità (Le onde del destino) sottomissione e dominio (Dogville),
umiliazione di sé e controllo dell’altro (Idioti), menzogna e verità (Il
grande capo): Melancholia compendia tutto ciò ad un
livello più universale, presentando il bene e il male, la realtà e la fantasia,
la salute psichica e la malattia come due polarità interdipendenti: la
premurosa Claire dichiara per ben due volte di «odiare» la sorella;
l’intuizione di Justine si rivela più esatta della fiducia della scienza del
cognato; la sua “malattia” la rende più “normale” di lui di fronte alla
catastrofe. Memore della lezione di grandi maestri come Dreyer, Renoir, Tarkovskij, Melancholia si
presenta come il cimento forse più alto e compiuto di von Trier, la sfida più
difficile per un regista sofferente, proprio come Justine, di depressione
cronica: un’opera implacabilmente schopenhaueriana nella sua negazione di
trascendenza, un’apocalisse senza Dio che tuttavia riesce a tenere acceso un
barlume inestinguibile di speranza; levigata nella sua perfezione formale
eppure capace di incidere lo spesso strato della nostra assuefazione e
indifferenza. E forse l’attimo più intenso per lo spettatore è quell’ultimo
fotogramma nero dopo la deflagrazione planetaria in cui, sospeso nel «silenzio
nudo» e «nella quiete altissima» del vuoto cosmico (Leopardi, Cantico
del gallo silvestre), egli si sente davvero postumo a se stesso. Dopo tante
pellicole sulla fine del mondo in omaggio a quella cultura di morte e di oblio
cui il cinema di massa ci ha abituati, Melancholia ci
trattiene al fondo di una meditazione profonda, estetica ed etica insieme,
sull’attesa della fine, sul suo senso: in definitiva ‒ ed è l’ultimo, fecondo
paradosso del film ‒ sulla vita stessa.
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