un film nel quale un padre cerca di tirare su, da solo, due bambini, facendo lavoretti di merda, e vivendo da homeless negli anfratti bui e abbandonati della metropoli.
appaiono la mamma dei bambini, che non sta con loro, e un'impiegata di un grande supermercato che si affeziona a quei miserrimi bambini.
un film, lento, disperato, dentro l'abisso.
un film estremo e ottimo.
buona (lentissima) visione - Ismaele
il
film completo, con sottotitoli in portoghese, si può vedere qui:
qui la prima parte
qui la seconda
parte
…Tsai, più moderno
di ogni moderno, è una forza del Passato. Solo nella tradizione è il suo
amore. Studio esatto del quadro, della durata e dell’attesa, l’immagine
precipita in una tensione statica che misura la disperante forza di grevità di
un corpo solo, in costante caduta. Una composizione visiva di coerenza perfetta
che controbilancia, nella sua armonia, la disperata eccentricità delle
situazioni. L’ossessione liquida domina, come sempre, una quotidianità vera,
fatta di gesti il cui significato è da rintracciare al di là dello scheletro tramico.
L’immagine acquista durata, fin quasi a immobilizzarsi, per dare allo sguardo
il tempo necessario a decodificare più elementi possibili, per raccogliere
segni, tracce, e per immaginare altre visioni, per dialogare attraverso gli
occhi. Il soggetto vedente si rispecchia nell’oggetto visto; accade ad esempio
che i frantumi dei laterizi di un palazzo in costruzione abbandonato sfumino
fino a diventare parte di un disegno su un muro, pietraglia di un paesaggio
campestre, con tanto di fiume ed alberi: accade che la donna, allora, rapita
dalla visione, si accovacci per terra e inizi ad urinare, come se fosse
arrivata in riva, a tentare una sorta di vicinanza liquida con lo scorrere
dell’immagine.
A mancare è
l’incontro fra soggetti, il dialogo sembra impossibile, se non attraverso la
mediazione dell’immagine. A mancare è l’altro, del quale resta un feticcio, una
testa di cavolo dipinta come il pallone di Cast Away: se nel film
di Zemeckis Tom Hanks, esasperato dalla negazione di ogni possibilità di comunicazione
che non fosse un monologo, non poteva che calciare il feticcio, restituendolo
alla sua funzione primigenia (ed entrando così realmente in rapporto con esso),
allo stesso modo in Stray Dogs Lee Kang-Sheng mangia
disperato il cavolo, fino a provarne nausea, per stabilire una relazione con
l’oggetto, intuendo l’impossibilità di raggiungere il soggetto rappresentato.
Stray Dogs è
un film sull’incanto della visione. L’operazione anticommerciale di Tsai Ming
Liang (o se si preferisce senza retorica politica: il suo grido disperato e
inascoltato – sebbene il grande magazzino sia subito riconosciuto come
territorio nemico, mentre il corpo viene ridotto a palo che sostiene l’insegna
pubblicitaria) cerca di ricondurre l’immagine alla sua temporalità premoderna,
quando un’opera d’arte figurativa veniva contemplata per ore e per quello che
era, ovvero l’epifania del trascendente e non, come nel contemporaneo,
assimilata a prodotto di consumo, preferibilmente vorace, in modo tale da poter
divorare altre figure, altre percezioni. I soggetti vengono ammaliati dalla
visione, come gli spettatori di un film, che guardano i personaggi guardare
qualcosa fuori campo, ma legati dallo stesso incanto.
In Goodbye Dragon Inn era la sala vuota a fissare quella
piena; ora non resta che la visione della visione, in un rimando infinito, un
accumunarsi nella stessa aura visuale, negazione e attestazione dell’unico
abbraccio possibile che si vorrebbe non finisse mai.
…I corpi tra le rovine di una società già post-globale sono
presenti anche in Stray Dogs ma in una forma se si vuole ancora più radicale e
radicata, come se facessero parte di un flusso del tutto interiore, che
scardina anche in questo caso la retorica del racconto temporale: quel vicolo
cieco dentro il cantiere che finisce sulla visione scopica di un orizzonte
disegnato, tanto da far pensare ad una finestra finta, un paesaggio iper-reale
che si apre dall’angustia di molte camere, sembra il simulacro di una sala
Cinematografica, un’immagine del commiato scagliata contro di noi, uno schermo
che riceve immagini da un non tempo, direttamente nella caverna, semplici
riflessi la cui origine risiede oltre il tempo presente di una metropoli in
rovina. Kang-sheng Lee si guadagna da vivere con una serie di espedienti e
passa le giornate a reggere cartelloni pubblicitari in mezzo alla velocità
urbana per due spiccioli e ad accudire i figli nel modo migliore che può.
Taipei è tutt’intorno, città incongrua, città discarica con i cani randagi che
non fanno una vita così diversa da quella di Kang-sheng Lee. Tre donne forse,
la madre, la figura che compare nel giorno del compleanno e la donna del
supermercato che si affeziona ai due bimbi; la più piccola comprerà una grande
verza e truccata come una bambola, la terrà come compagnia immaginaria per il
sonno, “Miss Tette”, la ribattezzerà il fratello. Proprio “Miss Tette” sarà
dilaniata da Kang-sheng Lee completamente ubriaco; prima soffocata con un
cuscino, poi mangiata, con un senso estremo della persistenza che nel primo
cinema del regista Taiwanese apriva molte porte, conteneva più registri, dal
sublime al grottesco, dal tragico allo slapstick, ma che in Stray Dogs ha una
consistenza più feroce, ancora meno mediata se possibile, con gli occhi di uno
straordinario Kang-sheng Lee che si gonfiano nel tempo “presente” del pianto,
oppure il naso, che cola lentamente muco mentre l’uomo è esposto alle
intemperie, durante il suo lavoro quotidiano. In un universo senza dimensione e
senza alcun limite di tempo, il cinema di Tsai Ming Liang, colloca nel presente
della città martoriata, l’aberrazione della sofferenza che si nasconde sotto i
grandi insediamenti urbani, come “grandi cimiteri sotto la luna”; oltre questo
spazio, non era proprio possibile spingersi.
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