in un villaggio cinese di montagna, lontano da tutto, vivono i poveri veri, come lo siamo stati anche in Italia, poche generazioni fa (Ermanno Olmi insegna).
un padre lavora in qualche fabbrica di città, forse, e ha lasciato le tre bambine al nonno (e anche alla comunità del villaggio).
tutti sono poveri, e dignitosi, e solidali, le tre bambine crescono nella natura, precarie, nella misera, con pochi bambini e molti animali.
il babbo parte, poi arriva, poi riparte, non si dimentica delle bambine, ma la vita è difficile, tutti sono precari della vita.
un film da non perdere (anche per sapere, o ricordare, come eravamo anche noi).
buona (rurale) visione - Ismaele
…un'opera
dura, che vuole mostrare senza mediazioni quella Cina che non è sotto i
riflettori, quella dimenticata dalle autorità e dai media occidentali, che
contrasta in modo stridente col volto industrializzato e dal vorticoso sviluppo
che caratterizza le aree urbane del paese. Lo spettatore a digiuno di nozioni
sulla storia e sulle attuali condizioni (e contraddizioni) del colosso cinese
può restare shockato di fronte a un documentario come quello di Wang; la vita
delle tre ragazzine, ripresa dal regista nel suo svolgersi, in modo diretto e
senza mediazioni, è esemplificativa di una situazione sociale difficile da
concepire per chi sia nato e cresciuto nella modernità, e talmente stridente
con l'immagine della Cina che, nel corso dell'ultimo decennio, siamo stati
abituati a interiorizzare, da risultare addirittura straniante. Vediamo
scorrere l'esistenza di Yin, Zhen e Fen nella sconcertante realtà sociale in
cui sono immerse, tra miseria e abbandono, in uno stato che quasi le accosta
alla vita animale; ma che mantiene tuttavia una dignità che le immagini
restituiscono in modo chiaro e preciso.
Wang ha seguito la vita delle tre sorelle (e delle
persone con cui di volta in volta sono entrate in contatto) nel corso di sei
mesi, mantenendo sempre la discrezione del documentarista, con un frequente uso
della macchina fissa e limitando al minimo gli interventi di regia; alla luce
del risultato, e della forza con cui il suo documentario restituisce la
concreta realtà in cui vivono le tre protagoniste, la sua scelta si è rivelata
vincente. Una presenza più pesante delle marche di enunciazione cinematografica
avrebbe probabilmente limitato l'immediatezza e l'impatto di una realtà che è,
in sé, autoesplicativa; la vita delle tre ragazzine è talmente caratterizzata,
informata in ogni aspetto dalla necessità e dalla quotidiana lotta per la
sopravvivenza, che la chiave migliore per rappresentarla è semplicemente quella
del racconto diretto, del documento, dell'osservazione puntuale ma distaccata.
La scelta del regista non impedisce, tuttavia, ai caratteri delle tre ragazzine
(e degli altri personaggi) di venir fuori in modo chiaro: la consistente durata
del film (153 minuti) e soprattutto la scelta dei momenti da raccontare, con i
rituali minuti della vita quotidiana e i momenti più intimi dell'interazione
tra le protagoniste, restituiscono un quadro preciso di una realtà umana e
sociale che viene colta nei suoi molteplici aspetti.
Non ha velleità di documento etnografico, Three
Sisters, concentrato com'è sul particolare, sul microcosmo della casa delle
tre ragazzine e sui suoi immediati dintorni, con uno sguardo che raramente si
allarga a comprendere la comunità nel suo complesso; tuttavia, l'aspetto
politico è sempre presente, non solo quando viene esplicitamente richiamato
(con la riunione dei capi di villaggio) ma nelle stesse scelte di racconto, che
sottolineano con insistenza le conseguenze di un abbandono e di un volontario
oblio, da parte delle autorità, di quello che è un vero e proprio dramma umano.
La chiusura, con la sottolineatura di una mancanza finora taciuta (quella della
madre) aggiunge un tocco malinconico, e squisitamente cinematografico, a un
documentario caratterizzato da uno spietato realismo; la componente psicologica
si fonde infine, con efficacia, con quella del resoconto sociale. Il risultato,
per chi avrà avuto la costanza (e la forza) di seguirlo fino in fondo, è
qualcosa il cui valore va oltre il puro prodotto cinematografico.
…Alla radicalità dei presupposti, il filmmaker sa
trovare una forma ripetitiva e laconica, segnata dalla durezza di un'infanzia
che resiste, nonostante tutto, in piccoli guizzi e tenere occhiate. Il
pedinamento dei personaggi e la fisicità del suo sguardo sono cifra (mai
esibita) del suo cinema, in grado di gettare un ponte umano tra chi filma e chi
è filmato, che scavalca ogni trappola pietista. Non cerca mai l'inganno della
trasparenza, scegliendo di appartenere a un cinema della difficile messa in gioco,
della relazione partecipata, del fuoricampo presente: il suo esserci è
addirittura sancito questa volta da una quota di denaro, un biglietto pagato
per poter prendere un autobus che porta il padre e le due sorelline più piccole
verso la città. Nel costante impegno politico, prima ancora che artistico, Wang
Bing sa che filmare, ridare un volto agli invisibili, vuol dire partecipare
della loro fatica, scalare le montagne al passo veloce e leggero delle bambine,
senza poter trattenere il fiatone. Consapevole, anche durante la rampicata,
della sua ricerca di una posizione emblematica e potente, in grado di
restituire epicità agli uomini delle montagne, stagliati su orizzonti degni di
John Ford. Bambini inconsapevoli che stanno attraversando il crinale periclitante
di un'epoca.
…Wang Bing prende alla lettera il termine
"documentario", intendendolo proprio come una raccolta di documenti.
Il regista si limita a rare didascalie strettamente informative, nessuno
spiegone o commento accompagna il filmato, né tantomeno i personaggi vengono
invitati a parlare di sé o di quel che loro accade. Il racconto emerge
spontaneo dalla mera ripresa delle situazioni quotidiane delle bambine, mentre
i soli mezzi per intervenire nel racconto sono quelli filmici, propri della
sintassi cinematografica: montaggio, movimenti e posizionamento della camera,
fotografia.
Wang dimostra così un'incrollabile fiducia
nell'immagine pura: di solito nei documentari la parola, spiegando ciò che si
vede, indica un solo significato tra i possibili e cancella tutti gli altri,
sottraendo senso all'immagine. L'immagine senza logos, slegata dalla parola,
fluisce viva, lenta e imperturbabile, in una dimensione fuori dalla storia, in
un mondo arcaico che non conosce le epoche e che ad ogni epoca è sopravvissuto
resistendo in un eterno presente al corso del tempo.
Quando invece la parola entra in scena, ecco che
dai dialoghi si avverte minaccioso l'incombere della storia: da quello fra il
padre e il nonno delle bimbe si desume il fenomeno di abbandono delle campagne
dei figli dei contadini per raggiungere le città dove lavorare in fabbrica; nel
conciliabolo tra i rappresentanti dei vari villaggi c'è tutta l'impotenza
dinanzi a quel processo di urbanizzazione cinese che ha tutta l'intenzione di
cancellare l'identità e le tradizioni delle minoranze etniche e culturali.
Sebbene il termine "identità" possa risultare a volte urticante
(specie se strumentalizzato dai fondamentalisti del provincialismo, come accade
anche da noi) non si può provare un profondo senso di ingiustizia nei confronti
di un potere economico-politico che, attribuendosi i crismi della modernità
civilizzatrice, distrugge tutto ciò che gli si oppone…
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