sabato 17 settembre 2022

Tre sorelle – Wang Bing

in un villaggio cinese di montagna, lontano da tutto, vivono i poveri veri, come lo siamo stati anche in Italia, poche generazioni fa (Ermanno Olmi insegna).

un padre lavora in qualche fabbrica di città, forse, e ha lasciato le tre bambine al nonno (e anche alla comunità del villaggio).

tutti sono poveri, e dignitosi, e solidali, le tre bambine crescono nella natura, precarie, nella misera, con pochi bambini e molti animali.

il babbo parte, poi arriva, poi riparte, non si dimentica delle bambine, ma la vita è difficile, tutti sono precari della vita.

un film da non perdere (anche per sapere, o ricordare, come eravamo anche noi).

buona (rurale) visione - Ismaele

 

 

 

 

 

 

un'opera dura, che vuole mostrare senza mediazioni quella Cina che non è sotto i riflettori, quella dimenticata dalle autorità e dai media occidentali, che contrasta in modo stridente col volto industrializzato e dal vorticoso sviluppo che caratterizza le aree urbane del paese. Lo spettatore a digiuno di nozioni sulla storia e sulle attuali condizioni (e contraddizioni) del colosso cinese può restare shockato di fronte a un documentario come quello di Wang; la vita delle tre ragazzine, ripresa dal regista nel suo svolgersi, in modo diretto e senza mediazioni, è esemplificativa di una situazione sociale difficile da concepire per chi sia nato e cresciuto nella modernità, e talmente stridente con l'immagine della Cina che, nel corso dell'ultimo decennio, siamo stati abituati a interiorizzare, da risultare addirittura straniante. Vediamo scorrere l'esistenza di Yin, Zhen e Fen nella sconcertante realtà sociale in cui sono immerse, tra miseria e abbandono, in uno stato che quasi le accosta alla vita animale; ma che mantiene tuttavia una dignità che le immagini restituiscono in modo chiaro e preciso.

Wang ha seguito la vita delle tre sorelle (e delle persone con cui di volta in volta sono entrate in contatto) nel corso di sei mesi, mantenendo sempre la discrezione del documentarista, con un frequente uso della macchina fissa e limitando al minimo gli interventi di regia; alla luce del risultato, e della forza con cui il suo documentario restituisce la concreta realtà in cui vivono le tre protagoniste, la sua scelta si è rivelata vincente. Una presenza più pesante delle marche di enunciazione cinematografica avrebbe probabilmente limitato l'immediatezza e l'impatto di una realtà che è, in sé, autoesplicativa; la vita delle tre ragazzine è talmente caratterizzata, informata in ogni aspetto dalla necessità e dalla quotidiana lotta per la sopravvivenza, che la chiave migliore per rappresentarla è semplicemente quella del racconto diretto, del documento, dell'osservazione puntuale ma distaccata. La scelta del regista non impedisce, tuttavia, ai caratteri delle tre ragazzine (e degli altri personaggi) di venir fuori in modo chiaro: la consistente durata del film (153 minuti) e soprattutto la scelta dei momenti da raccontare, con i rituali minuti della vita quotidiana e i momenti più intimi dell'interazione tra le protagoniste, restituiscono un quadro preciso di una realtà umana e sociale che viene colta nei suoi molteplici aspetti.

Non ha velleità di documento etnografico, Three Sisters, concentrato com'è sul particolare, sul microcosmo della casa delle tre ragazzine e sui suoi immediati dintorni, con uno sguardo che raramente si allarga a comprendere la comunità nel suo complesso; tuttavia, l'aspetto politico è sempre presente, non solo quando viene esplicitamente richiamato (con la riunione dei capi di villaggio) ma nelle stesse scelte di racconto, che sottolineano con insistenza le conseguenze di un abbandono e di un volontario oblio, da parte delle autorità, di quello che è un vero e proprio dramma umano. La chiusura, con la sottolineatura di una mancanza finora taciuta (quella della madre) aggiunge un tocco malinconico, e squisitamente cinematografico, a un documentario caratterizzato da uno spietato realismo; la componente psicologica si fonde infine, con efficacia, con quella del resoconto sociale. Il risultato, per chi avrà avuto la costanza (e la forza) di seguirlo fino in fondo, è qualcosa il cui valore va oltre il puro prodotto cinematografico.

da qui

 

Alla radicalità dei presupposti, il filmmaker sa trovare una forma ripetitiva e laconica, segnata dalla durezza di un'infanzia che resiste, nonostante tutto, in piccoli guizzi e tenere occhiate. Il pedinamento dei personaggi e la fisicità del suo sguardo sono cifra (mai esibita) del suo cinema, in grado di gettare un ponte umano tra chi filma e chi è filmato, che scavalca ogni trappola pietista. Non cerca mai l'inganno della trasparenza, scegliendo di appartenere a un cinema della difficile messa in gioco, della relazione partecipata, del fuoricampo presente: il suo esserci è addirittura sancito questa volta da una quota di denaro, un biglietto pagato per poter prendere un autobus che porta il padre e le due sorelline più piccole verso la città. Nel costante impegno politico, prima ancora che artistico, Wang Bing sa che filmare, ridare un volto agli invisibili, vuol dire partecipare della loro fatica, scalare le montagne al passo veloce e leggero delle bambine, senza poter trattenere il fiatone. Consapevole, anche durante la rampicata, della sua ricerca di una posizione emblematica e potente, in grado di restituire epicità agli uomini delle montagne, stagliati su orizzonti degni di John Ford. Bambini inconsapevoli che stanno attraversando il crinale periclitante di un'epoca.

da qui

 

Wang Bing prende alla lettera il termine "documentario", intendendolo proprio come una raccolta di documenti. Il regista si limita a rare didascalie strettamente informative, nessuno spiegone o commento accompagna il filmato, né tantomeno i personaggi vengono invitati a parlare di sé o di quel che loro accade. Il racconto emerge spontaneo dalla mera ripresa delle situazioni quotidiane delle bambine, mentre i soli mezzi per intervenire nel racconto sono quelli filmici, propri della sintassi cinematografica: montaggio, movimenti e posizionamento della camera, fotografia.

Wang dimostra così un'incrollabile fiducia nell'immagine pura: di solito nei documentari la parola, spiegando ciò che si vede, indica un solo significato tra i possibili e cancella tutti gli altri, sottraendo senso all'immagine. L'immagine senza logos, slegata dalla parola, fluisce viva, lenta e imperturbabile, in una dimensione fuori dalla storia, in un mondo arcaico che non conosce le epoche e che ad ogni epoca è sopravvissuto resistendo in un eterno presente al corso del tempo.
Quando invece la parola entra in scena, ecco che dai dialoghi si avverte minaccioso l'incombere della storia: da quello fra il padre e il nonno delle bimbe si desume il fenomeno di abbandono delle campagne dei figli dei contadini per raggiungere le città dove lavorare in fabbrica; nel conciliabolo tra i rappresentanti dei vari villaggi c'è tutta l'impotenza dinanzi a quel processo di urbanizzazione cinese che ha tutta l'intenzione di cancellare l'identità e le tradizioni delle minoranze etniche e culturali. Sebbene il termine "identità" possa risultare a volte urticante (specie se strumentalizzato dai fondamentalisti del provincialismo, come accade anche da noi) non si può provare un profondo senso di ingiustizia nei confronti di un potere economico-politico che, attribuendosi i crismi della modernità civilizzatrice, distrugge tutto ciò che gli si oppone…

da qui

 

 

Nessun commento:

Posta un commento