martedì 16 agosto 2022

Futatsume no mado (Still the Water) - Naomi Kawase

in una specie di paradiso (quando non ci sono i tifoni) Kaito e Kyoko sono due tormentati fidanzatini, Kyoko è più matura, ha la mamma malata, una sciamana, Kaito ha i genitori separati e non lo sopporta.

nel film succedono poche cose, tutte quelle importanti, però, ed è una vita alla quale non siamo più abituati.

un piccolo grande film, da non perdere.

buona (tormentata e incantata) visione - Ismaele


 

 

 

 

Sull’isola di Amami-Oshima la vita segue i ritmi della natura e le tradizioni sono ad essa strettamente collegate. In estate, durante una notte di luna piena, allietata dalle danze tradizionali, il Kaito trova sulla spiaggia il cadavere di un uomo con la schiena tatuata. Kaito ha sedici anni e vive da solo con la madre (il padre, fa il tatuatore a Tokyo), ed è innamorato della coetanea Kyoto, la cui madre, da tempo malata, sta per morire. Entrambi, si interrogano, ognuno a suo modo, sul senso della vita, della morte, assistendo alla nascita del loro amore.
Viene in mente Moe no Suzaku, il film con cui nel ’97 Kawase Naomi vinse la Camera d’or per la migliore opera prima. Da allora il suo cinema, metafisico, spirituale, pànico, femminile e intimamente autobiografico ha visitato angoli remoti dell’animo umano e ha messo in scena il sentire nelle sue più sottili sfumature, il rapporto dell’uomo nell’ambiente in cui abita, l’ebbrezza malinconica dei giorni, la levità dei sentimenti, i fili che si intrecciano per non potersi mai più sciogliere. Lo stare nel mondo. Tutto torna anche in questo splendido Futatsume no mado in cui Kawase si lascia sedurre dalla simbiosi dell’uomo con la natura e racconta il ciclo della vita e la memoria racchiusa nei luoghi. Pare che la famiglia della regista fosse originaria di quest’isola, per questo, dopo tanti film ambientati a Nara, la decisione di cambiare paesaggio e sprofondare in una sorta di sogno ancestrale.
Bellezza ed equilibrio sono il comun denominatore che sottende ogni immagine di questo film dolcemente visionario, dove gli alberi hanno più di 400 anni, sono abitati dalle divinità (e allora come non pensare a Avatar) e ci insegnano a guardare in alto. La madre di Kyoto è una sciamana. Vede cose che gli altri non possono vedere, eppure, attraverso il suo sguardo, possiamo sentire e capirne la complessità. La stessa Kyoto vive in modo più istintivo, nuota nuda o vestita, e si lascia accarezzare dal vento come se le stesse parlando. Però non comprende la morte, soprattutto quella imminente della madre, mentre Kaito non riesce a nuotare nell’acqua del mare, “perché è viva”. Imparano entrambi qualcosa di importante sul mistero dell’esistenza e sulle loro stesse paure. Crescono e scoprono davvero il mondo, come a voler posare per la prima volta lo sguardo su qualcosa che sta cambiando nell’istante irripetibile in cui accade. Ecco spiegata l’irrequietezza che, pure, affiora nei movimenti di macchina, nei lunghi camera car, nelle vibrazioni della camera a mano. In un brevissimo flashback Kyoto rivede in cucina la madre intenta a preparare il pranzo. È un attimo di sbandamento senza spiegazione, ma capace, da solo, di imprimere nel film un senso di nostalgia impossibile da dimenticare.
Raramente il cinema ha saputo lambire con tale grazia gli elementi: aria, acqua, terra vivono nel film di Kawase che, non a caso ambienta questa storia magica in un’isola dove gli abitanti venerano la natura come fosse una divinità. “Si dice che al di là del mare ci sia un paese di nome Neriyakanaya, fonte di ogni abbondanza, dove si rifugia l’anima dopo la morte” spiega Kawase, per questo la morte non può far paura e gli abitanti di Amami la celebrano quasi festosi, con canti e ricordi da condividere insieme. Per questo si osserva l’orizzonte sul mare come a voler cercare traccia di quella terra misteriosa. [Grazia Paganelli]

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Naomi Kawase costruisce un fragile micorocosmo umano incastonato all'interno di un ambiente naturale potente e incontrollabile, raccontando con la sua consueta visione olistica una storia minima ma di grande impatto emozionale. La descrizione intima della famiglia di Kyoko comprende anche un padre surfer di grande profondità filosofica, e uno zio anziano che incita Kyoko e Kaito a rivendicare la propria giovinezza, buttandosi con coraggio nella vita confidando nella certezza che "noi anziani vi raccoglieremo, se cadete". Da molto tempo non si vedeva sul grande schermo un ritratto di armonia domestica così realistico e così profondamente commovente, una testimonianza di interazione amorevole fra genitori e figli così naturale e organica, lontana anni luce dalle innumerevoli descrizioni di famiglie disfunzionali minate da rivalità e rancori che il cinema occidentale dispensa a piene mani. L'intreccio affettivo (e fisico) interno alla famiglia di Kyoko è un esempio di interdipendenza fra esseri umani che vivono con gioia il proprio reciproco potenziamento. E anche il giovane Kaito, che ha perduto questa fonte di energia positiva con il divorzio dei genitori, sarà invitato a ritrovare un equilibrio all'interno della sua nuova geografia famigliare.
Kawase affronta di petto, ma con infinita delicatezza e poesia, il tema dell'accettazione della vita e della morte attraverso la comunione con gli altri esseri viventi (non solo umani) e con l'ambiente. La fotografia luminosa e trasparente di Yutaka Yamazaki, fedele D.O.P. di Hirokazu Kore-eda, contribuisce alla nitidezza del messaggio, veicolato attraverso le immagini e i silenzi molto più che attraverso i dialoghi. Il risultato è una sorta di breviario consegnato agli spettatori per accompagnarci nella difficile impresa di vivere, seguendo il flusso naturale delle cose (l'acqua è l'elemento ricorrente in tutta la cinematografia di Kawase) e riconoscendoci come parte di un "tutto" allo stesso tempo immanente e trascendente, con umiltà e rispetto.

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"Un viaggio alla scoperta di sé e della vita che la Kawase racconta con un occhio sensibile al fascino della natura selvaggia - vento, onde, piogge, neve - e con un incedere meditabondo e ondivago, attenta alla bellezza delle cose quanto ai sentimenti delle persone."(Paolo Mereghetti, 'Corriere della sera', 21 maggio 2014) "Molti applausi (...) per 'Still the Water' di Naomi Kawase, un'altra habituée della Croisette, che ancora una volta sullo sfondo di una remota zona del Giappone, riflette sulla vita, la morte, la necessità di essere in sintonia con la natura. Il film, poetico e contemplativo, segue le vicende di due adolescenti che vedono il loro amore sbocciare. (...) La Kawase ci invita a riscoprire l'incanto dei piccoli gesti quotidiani, il conforto di una comunità che sottolinea con antichi riti importanti momenti di passaggio, la bellezza di sintonizzare il proprio battito del cuore con quello dell'ambiente che ci circonda. Anche se poi sarà necessario un catartico tifone per sbloccare situazioni emotive che rischiavano di sommergere come un violento tsunami i giovani protagonisti." (Alessandra De Luca, 'Avvenire', 21 maggio 2014) "'Still the Water' è quel che Terrence Malick avrebbe voluto intendere con 'The Tree of Life' e 'To the Wonder', ma con una sostanziale differenza: è un film riuscito, un poema visivo e animista che congiunge mare, cielo, terra senza santini new age, l'iconografia massimalista e la programmaticità oleografica dell'americano." (Federico Pontiggia, 'Il Fatto Quotidiano', 21 maggio 2014) ""Still the Water", ripropone ancora gli stilemi cari alla sua autrice (...). La giapponese Naomi Kawase insiste nel fotografare la natura ora dolce ora selvaggia. (...) Poemetto lirico e drammatico declinato con la sicurezza di una messa in scena che però si lascia troppo tentare dai tempi lunghi di una narrativa e di uno sguardo estenuanti." (Natalino Bruzzone, 'Il Secolo XIX', 21 maggio 2014)

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Quest’isola nel film diventa una rappresentazione nostalgica della natura più spirituale, arcaica ed estinta del Giappone; un’isola nelle isole, che guarda con nostalgia a un mondo ciclico in cui è la natura con le sue regole eterne a scandire la vita quotidiana. Siamo lontani dalla verticalità aerea della megalopoli Tokyo in cui viveva prima Kaito, qui la verticalità è piuttosto sottomarina, rappresenta l’ignoto, ma visto più come terreno di scoperta, come tappa di iniziazione, che come cupa minaccia.

Il mare è un elemento decisivo per i giapponesi, in bilico fra il senso di accerchiamento e la necessità di ritrovarsi insieme ai propri vicini per affrontare con maggiore forza le singole insularità. Un Giappone che però ha dimenticato le regole di convivenza con la natura, il rispetto umile che richiede. Inutile pensare di combatterla, se si vuole imparare a convivere con i tifoni o con gli tsunami. Kawase propone una visione ambientalista che ci sembra anche un moto di ribellione nei confronti di un paese ferito dalla tragedia di Fukushima, ma che si ostina a non cambiare il suo approccio nei confronti della natura.

Still the Water è un film sui cicli di vita e morte, di crescita e amore, con due ragazzini che conquistano, spauriti e coraggiosi, timidi e alla ricerca della guida amorosa dei propri genitori. Un film che insegna a cavalcare le onde che la vita ci riserva, a sfruttarne la grande energia per superare le nostre paure affermando la nostra unicità.

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Ciñéndonos a los tópicos sobre el cine oriental, Aguas tranquilas los cumple en cuanto al ritmo, pero también en lo que atañe a su sensibilidad. Y también encaja plenamente en el cine de Kawase, que otras veces ya ha explorado esa dicotomía entre la vida y la muerte. Pero quizá la película pedía romper emocionalmente mucho antes de lo que lo hace. Cuando acelera, convence y conmueve. Antes de eso ofrece mucha belleza, mucha poesía si se quiere y aunque la metáfora no siempre cale, pero que por ejemplo los mejores planos acuáticos estén en sus minutos finales evidencia que otro ritmo era posible también en los tramos más lentos de la historia. Quizá así la película habría llegado con más facilidad a un público más diverso, pero los ya convencidos de antemano saldrán más que satisfechos de la experiencia.

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Aguas tranquilas (Futatsume no mado, 2014) es un filme sencillo a fin de cuentas, muy en la línea de El bosque del luto, pero un poco mejor, más complejo, austero pero sugerente. Vaporoso, discreto en gran parte, pero con sus infaltables ratos de llanto, enfrentamiento y pérdida (sorprendente cómo se maneja fríamente la madre ante el reproche de su mal llamada lujuria, que bien ejemplifican las duras imágenes de cómo se matan animales para comerlos), mientras  volteamos la página, pasamos a otro nivel, aprendemos, superamos, aceptamos, en un deambular tranquilo, donde poco parece pasar (queda en sentir de que la autora suele repetirse en su filmografía, pero es más ser fiel a uno, y ahondar en constantes, nuestra conceptualización), en lo que hay mucha sensación de normalidad, de cariz clásico, aunque se enfrenten a ello. Y en el medio la naturaleza y la sensualidad, como en sus apetitosos simbólicos tomates, y nuestras faltas y carencias puestas a prueba.

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