mercoledì 31 agosto 2022

Article 15 - Anubhav Sinha

Ayan è il nuovo dirigente di un commissariato di campagna nell'India più arretrata.

Ayan è un illuminista e un illuminato, crede che tutti gli indiani siano uguali, un po' come il Robert Redford di Brubaker, che scopre una realtà che non si aspettava, il mondo delle tenebre.

scompaiono tre ragazze, il caso viene trascurato, fino a che Ayan ne capisce la gravità.

e scopre che, aldilà delle belle parole delle Costituzione indiana, il sistema delle caste, il maschilismo, lo sfruttamento del lavoro (semischiavitù), la corruzione di tutti sono fuori controllo.

e sceglie di combattere la guerra per la verità e la giustizia, fantascienza da quelle parti, dove il medioevo più buio non era mai morto.

il film è un thriller, una corsa contro il tempo, è cinema civile e politico, non ti stanchi neanche un secondo di guardarlo, il regista Anubhav Sinha è davvero bravo, dirige gli attori benissimo, con una sceneggiatura perfetta.

peggio per chi non cerca questo film.

buona (indimenticabile) visione - Ismaele


 

 

Article 15 di Anubhav Sinha è un thriller criminale in cui struttura e montaggio sono preposte con un intento provocatorio che arrivi dritto, come un pugno allo stomaco allo spettatore, per diventare una denuncia urgente alle problematiche della società Indiana. Con toni desaturati, con tonalità seppia e con un’ambientazione cupa e oscura ricca di pathos, e grazie anche alla colonna sonora che scandisce la sintassi filmica, Article 15 si dimostra un film di genere ben riuscito sul piano visivo. Quello che ne deriva è una sensazione cupa, grintosa e grigia che spesso porta lo spettatore verso una tensione palpabile.

Il film è implacabile nel suo impegno a disturbare lo spettatore: i cadaveri sono ripresi in scomodi primi piani, la tensione è costruita attraverso una sintassi di sottofondo che procede lenta, ma disturbante. Ecco quindi che il film è intriso di immagini dichiaratamente provocatorie e scomode, come quella in cui un uomo si immerge nudo in una fogna, e dialoghi d’impatto che non lasciano spazio a false interpretazioni…

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Article 15 est un film réussit non seulement de part son écriture brillante mais surtout, je dirais, de part son esthétique atypique pour un film indien qui m’a beaucoup fait penser au style « américain » par moment avec une bande son primordiale et omniprésente, de nombreux plans réalisés au drone et beaucoup de plans séquences. J’ai adoré l’étalonnage dans les tons verts/jaunes/noirs qui allait de mise avec l’enjeu du film et sa géolocalisation.

Comme dit auparavant, j’ai été surtout agréablement surprise par l’usage très intelligent de la bande son qui joue pour beaucoup sur l’ambiance du film. Une bande son omniprésente qui se veut parfois angoissante parfois entraînante allant de pair avec les événements qui se déroulent à l’écran. Un usage d’autant plus intelligent qu’il utilise des classiques de la chanson pour illustrer ses propos. De ce fait, j’ai adoré entendre « Blowin’ in the wind » jouée en arrière plan lors du générique de début du film. Un choix loin d’être anodin car Bob Dylan, interprète de cette chanson, était la voix d’une génération aux Etats-Unis et qu’il était particulièrement doué pour dénoncer les problèmes inhérents aux USA. Blowin in the wind est d’autant plus en accord avec le thème du film qu’elle parle d’une société corrompue. « Yes, ‘n’ how many times can a man turn his head and pretend that he just doesn’t see? » était d’ailleurs une phrase qui allait parfaitement bien avec le sujet du film.

Au final, Article 15 est un jalon cinématographique pour le cinéma indien de part sa mise en scène nouvelle pour le genre. C’est un très bon thriller dont le but est avant tout de critiquer le système de caste en Inde et non pas de résoudre l’affaire principale qui est un peu mise de côté, malheureusement, dans la seconde moitié du film. Un film porté par des très bons acteurs, une bande son omniprésente et brillante et un rythme qui ne faillit jamais du début à la fin. Un film robuste qui vient s’ajouter au très bon palmarès pour l’année 2019 dans le cinéma hindi.

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Il n’y a pas de doute, Article 15, faisant référence à l’Article 15 de la Constitution de l’inde qui interdit toute sorte de discrimination sur la base de religion, de race, de caste, de sexe ou de lieu de naissance et l’une des plus belles propositions cette année en provenance de ce pays. Par le biais de la fiction, Sinha et Gaurav Solanki (première co-écriture) signent un récit d’une emprise infernale mené par un groupe de comédiens remarquables, y compris les seconds plans.

Mais tout particulièrement Ayushmann Khuranna, acteur bollywoodien dont c’est ici son plus grand rôle. À la fois absolu, déterminé, critique envers les coutumes ancestrales qui font défaut et empreint d’un humanisme rare de nos jours, il crève l’écran à chacune de ses présences.

Avec Article 15, Bollywood se transforme, à moins qu’il n’agisse d’une « nouvelle vague » cinématographique indienne représentée par des cinéastes indignés par les maux sociaux, politiques et de sexes qui secouent le pays. Puissant!

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martedì 30 agosto 2022

Cane delle Fiandre (Barking Dogs Never Bite) - Bong Joon-ho

un'opera prima sorprendente, con personaggi veramente azzeccati.

un aspirante professore, che vive a carico della moglie, ha un odio verso i cani domestici, che in quel palazzo fanno una brutta fine, poi la moglie ne prende uno, e allora cambia tutto.

un'impiegata (Bae Doona) capisce, per caso, cosa succede e fa di tutto per salvare i cani.

film un po' thriller, un po' animalista, un po' giallo, un po' slapstick, coi tempi perfetti,

Bong Joon-ho poi farà carriera, delle più splendenti, seguitelo.

buona (canina) visione - Ismaele

 

 

…il titolo originale del film è un riferimento a Il cane delle Fiandre , un romanzo ottocentesco di Ouida sugli animali domestici molto popolare in alcuni paesi dell' Asia orientale…

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Yun-ju è un nullafacente che non ha i soldi per corrompere il suo preside e diventare professore; frustrato, si sfoga con i cani del vicinato, cercando goffamente di eliminarli. Di contro Hyun-nam, giovane svampita ma di buon cuore, decide di indagare per scovare il rapitore di cani.
Mascherato sotto i panni della commedia surreal-demenziale, Barking Dogs Never Bite lavora sottopelle e insinua più di un dubbio sulla sua reale natura. Commedia bizzarra o riflessione tutt'altro che banale e tutt'altro che ottimista sul quotidiano?...

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Un aspirante professore infastidito dall'abbaiare dei cani del vicinato decide di farli sparire; un'ingenua ragazza indaga sulle sparizioni. Dal romanzo inglese Il cane delle Fiandre, l'esordio nel lungometraggio di Bong Joon-ho "si avventura ai limiti più eccentrici del cinema coreano più dei film successivi del regista, pur mitigandoli con la leggerezza della commedia" (Scott Tobias). In questo doppio registro già riconosciamo la poetica dell'autore: "è negli anfratti della vicenda che si coglie l'amarezza dell'analisi di Bong. Nell'assurdo della superficie, invece, pullula una fauna variegata di psicosi umane" (Emanuele Sacchi).

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Una commedia basata su un umorismo paradossale, sulla satira sociale e sulla descrizione della banalità e dei piccoli orrori che accompagnano la quotidianità dell'uomo comune contemporaneo, Barking Dogs Never Bite fa ridere, a volte anche risate amare, e riflettere sul carattere delle persone più ‘normali’, sulle loro aspirazioni e sulla vita che invece fanno in realtà. Tutti i personaggi qui rappresentati sono il vicino e il conoscente di tutti, per niente speciale, che come tanti si lascia trascinare dalle regole vigenti nei grandi conglomerati urbani della Corea moderna.

Il cane è il motivo portante che unisce le storie che compongono il film, tanto semplici da non sembrare nemmeno storie vere e proprie, in una trama che si snoda con piccoli colpi di scena, spesso sarcastici, ironici e derisori dei piccoli avvenimenti che ritmano la lenta e noiosa vita dell'uomo comune. Una commedia insolita, che ripropone l'assurdo come la regola per la normalità, in una pungente satira sociale divertente e seria allo stesso tempo.

Nonostante l’argomento che può ad una prima occhiata apparire futile, Bong in questo film realizza un’estetica complessa e ben eseguita. Interessante anche la caratterizzazione dei ruoli femminili, che scavalca la tipica immagine di donna ingenua, dolce e curata, tanto frequente nel cinema coreano. I personaggi maschili sono dipinti nei loro difetti e nella loro 'umanità' (Yun-ju rapisce il cane per poi sentirsi in colpa, il portiere con non chalance si permette stufati di cane nei sotterranei del condominio), e le situazioni più paradossali risolvono vari problemi (come una disputa risolta srotolando rotoli di carta igienica)…

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E' vero che tutto il film è trattato con il tono da commedia, altrettanto vero che l'esordiente Bong Joon-ho evidenzia l'aspetto tragico del microcosmo condominiale. Un protagonista frustrato e senza lavoro dopo anni dedicati alla ricerca universitaria, mantenuto a sua volta dalla compagna incinta. Ma sono un po' tutti i personaggi che muovono in tale contesto a soffrire di egoismo e di fronte alle avversità, si rifanno sempre sui più deboli, simboleggiati dai cani. Personaggi coinvolti in situazioni divertenti ma cui è difficile provare un minimo di empatia proprio per la loro sgradevolezza. Unica eccezione è la giovane Hyeon-Nam, giovane ragazza ingenua a cui non manca spirito d'altruismo nei confronti degli altri.

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lunedì 29 agosto 2022

Crimes of the Future - David Cronenberg

il film è girato in Grecia, Cronenberg, un grande del cinema, ha trovato solo lì un po' di soldi per poter girare Crimes of the Future.

gli edifici e gli ambienti sono sgarrupati, quelli di un mondo che sta finendo ma non si vede il nuovo.

Caprice e Saul esplorano, in un mondo nel quale il dolore è sparito, le potenzialità del corpo, con tagli e nuovi organi che vengono creati all'interno dei corpi degli esploratori.

Saul è vestito come un frate, si muove spesso di notte, al buio, e c'è anche una storia di indagini e informatori, su come un gruppo segreto di uomini riesce a integrare nei propri corpi la plastica, un nutrimento che sembra impossibile (eppure tutti noi abbiamo all'interno microplastiche), un crimine che potrebbe cambiare il dna umano.

in quel mondo si svolgono delle performances, pubbliche, ma anche private, nelle quali artisti "lavorano" sul proprio corpo.

esiste anche un ufficio per la registrazione di nuovi organi, in uffici scrostati, e senza computer, solo faldoni cartacei, con due impiegati curiosi oltre i doveri d'ufficio.

preparatevi a vedere un film che non vi aspettate, e non abbiate pre-giudizi, entrate in sala e vedrete un gran bel film, siate curiosi anche voi.

buona (speciale) visione - Ismaele


 

  

Una profonda riflessione universale, umana e scientifica, che coniuga la bellezza esteriore della performance art e la ricerca introspettiva dell’apparato cinematografico fino a trascendere in un pubblico atto politico eversivo, in un’(auto)autopsia collettiva che scopre escrescenze tumorali esplodendo in un’esperienza orgiastica tanto catartica quanto sacra.
Viggo Mortensen/Saul Tenser s’aggira sofferente per vicoli bui e luoghi fatiscenti, incappucciato come un frate (s)perduto che ancora s’interroga sul/i sé con l’aria ascetica di chi ha una missione ma non sa bene a chi o cosa rispondere.
È un’entità infiltrata in una realtà che progressivamente disvela la sua natura complessa e in divenire, un agente patogeno che produce nuovi organi come sintomo e causa di una ribellione che non (si) comprende, è l’espressione esposta di un’equazione, insana e seminale, che vede nella sua partner, Léa Seydoux/Caprice, il complemento (im)perfetto.
Uno è la star, tormentata e magnetica; l’altra è l’artefice, la mano armata (di un game pod chirurgico), colei che incide pelli, carni, tessuti, asportando nuova carne e creando nuove forme di bellezza interiore

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Iniziando si metta la potenza della (pre)-visione di Cronenberg. Si aggiunga la sensibilità di leggere l’umanità largamente in anticipo (la storia risale al 1998).
Si usi un attore collaudato, algido, asettico: Viggo Mortensen, suo feticcio. 
Venga tutto infarcito con una musica penetrante, ma analgesica.
Così gli ingredienti per il rapimento ci sono già tutti. 
A quel punto basta una poltronissima prescelta del cinema, molti pop corns e lo stare assorti in un perfetto silenzio. Così facendo si va a colpo sicuro per quasi due ore di perfezione e atterrimento visivo. 
Come questa, dopo otto anni di assenza dagli schermi, ogni uscita di Cronenberg, dovrebbe diventare un rito. Modifica il DNA. Altro che vaccini transgenici. 
Non solo per quello che si va a vedere, partorito da una mente olistica e insalubre, ma anche per gli effetti postumi che produce il suo cinema. Infetta. 
E’ come se Cronenberg piantasse un seme che poi continua a germogliare per giorni ed ore. Si ripensa a quelle visioni estreme, scoprendone pezzi ulteriori, di minuto in minuto. E forse è proprio questa la definizione massima di opera d’arte: uno svelamento continuo e perenne. Anche incontrollato o inconsapevole…

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Crimes of the Future è un film spiazzante e morbosamente accattivante, che spesso fa di tutto per respingerti e tuttavia non si sfugge alla sua cattura. Porta tutti segni essenziali dello stile inconfondibile che l'autore canadese ha sviluppato ed affinato durante decenni, continuando la ormai lunga galleria degli incubi di Cronenberg (sarà casuale il ronzio di mosche che si ode in molte scene?). Il regista ha preventivamente messo in guardia il pubblico dalle immagini forti che non ha avuto paura di utilizzare, prevedendo che alcuni lasceranno la sala entro i primi cinque minuti (ma al Theatre de la Licorne di Cannes dove l'ho visto l'abbandono iniziale è un fenomeno che inspiegabilmente avviene pochi minuti dopo l'inizio di ogni film proiettato e in questo Crimes of The Future non si è distinto dagli altri in maniera particolare). Va piuttosto sottolineato come sia finora l'unico film visto a Cannes che mostri l'ardire di creare un suo mondo da scoprire e di portarci in viaggio tanto inquietante quanto affascinante, filosofico e a tratti repellente, verso un possibile futuro distopico.

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Film scabro e di poche azioni, dialogato, concettuale, per molti aspetti respingente, Crimes of the Future incredibilmente sottolinea se non l’ottimismo di sicuro il vitalismo ammirato del regista per questa mutazione che è l’umanità. Forse l’uomo che chiede a Saul di eseguire l’autopsia su suo figlio è un pazzo, un delirante, un terrorista da fermare. Eppure l’idea che ha avuto, potenzialmente letale, potrebbe essere una rivoluzione: ma poi, quando mai una rivoluzione non è potenzialmente mortale? (“Forse la prossima volta” sussurra la coppia di Crash dopo la collisione finale) Sembrerà strano che Cronenberg decida di aggiungere un tassello così importante in cui il corpo è al centro del discorso in un periodo storico in cui il corpo è quasi assente, evaporato in una tecnologia fatta di schermi e interazioni virtuali che lo estromettono: ma a ben vedere in Crimes of the Future e nei suoi corpi in cui anche la sessualità è stata superata (dalla chirurgia, dalla generazione spontanea, dalla pulsione monadologica), l’organico è proprio il tramite anestetizzato attraverso cui poter far tentativi ed errori, quindi evolvere. È dunque proprio il corpo del contemporaneo. In un film che mostra operazioni, tagli, lacerazioni, organi tatuati, organi mai visti prima e in cui la società è però sempre articolata in “creatori/controllori/rivoltosi” (proprio come in eXistenZ del resto), il regista porta in scena un “miracolo” perché – questo il suo pensiero, che in ogni caso attraversa la sua intera filmografia – siamo animali sorprendenti, tragici, purulenti, ma incredibilmente generativi. Otto anni di silenzio per tornare al cinema con un film che elabora in maniera ancora una volta differente e creatrice i temi, le ossessioni, la teoresi di un regista/intellettuale che da oltre mezzo secolo continua ad affascinare il pubblico con una costruzione filosofica lucida, analitica, costruzionista e non riduzionista, arrivando qui a immaginare la nuova nascita confermando allo stesso tempo l’eterna irriducibile morte. Un film fondamentale per chi ama il cinema del genio di Toronto.

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The Tunnel - Arash Ashtiani

 


domenica 28 agosto 2022

Drishyam - Nishikant Kamat

un film alla Agatha Christie, un meccanismo a orologeria nel quale i potenti e i prepotenti trovano pane per i loro denti.

Vijay, un piccolo imprenditore, cerca di proteggere la sua famiglia dalle minacce esterne.

la polizia usa metodi molto duri, e non è facile resistere.

alla fine ci saranno diverse e inattese sorprese.

buona (ottima e divertente) visione - Ismaele




Dans Dryshyam, les apparences sont trompeuses. La quête de la vérité n’est plus une affaire de coupables et de victimes, mais une lutte effrenée entre le mensonge et la morale. Suspense haletant, se prenant au sérieux avec un naturel bouleversant, soutenu par une performance d’acteurs remarquables, dont un Ajay Devgn, extraordinairement palpable dans ses différents registres et Tabu, souveraine, remarquée l’an dernier dans le remarquable Haider (2014), illustre adaptation du Hamlet de Shakespeare. Ces deux vedettes bollywoodiennes illuminent l’écran peur leur aplomb, leur grâce, leurs moments de pure prouesse, conscients d’une caméra qui les capte à chaque moindre geste.

C’est aussi un film sur les affres malsains des nouvelles technologies, les cellulaires qui non seulement envahissent nos vies, mais sont souvent l’objet de captations intimes, de vies gâchées. La nouvelle dynamique sociale dominée par l’image perpétuelle n’est plus l’apanage d’un groupe particulier, mais s’est étalé à l’ensemble de la société.

C’est là le thème principal du film, en plus d’être un regard sur le cinéma, sur sa puissance à la fois rédemptrice et dans le même temps vulnérable. Les cinéastes indiens, conscient des divers mouvements sociaux et politiques de leur pays en constante transformation et occidentalisation, agissent souvent comme des philosophes envers le peuple, amoureux fou du cinéma qu’ils voit comme une sorte d’alternative thérapeutique à leurs problèmes quotidiens.

De tous les cinémas nationaux, le bollywoodien ose se permettre de diffuser un cinéma à message, chose presque totalement taboue dans les sociétés occidentales. Ici, dans Drishyam, le manichéisme n’est pas un tort parce qu’abordé avec toutes ses nuances, ses subtilités et ses vélleités, tout en s’assurant que l’individu, l’humain, demeure le principal objectif filmé. Sur ce point, le fim de Kamat est brillamment abouti.

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Alla fine, però, il film tiene. Nel modo in cui ci svela l'intelligenza di strada di un uomo quasi analfabeta intento a proteggere la sua famiglia ad ogni costo, e come il perdono possa, a volte, portare a una sorta di accettazione. E nel modo in cui offre la pungente svolta al racconto.

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Certainly in this extended contest Vijay has his work cut out for him.  Among other things he has to somehow dispose of Sam’s car, which Sam drove to his fateful clandestine meeting with Anju.  And he also has to try and find a way to convince the authorities that on the day of Sam’s death, Oct 2nd, he and his family were all away in the city of Panjali, attending the spiritual teachings of Swami Chinmayanand. 
Moreover, Vijay’s efforts of evidential obfuscation will be considerably hindered by the surveillance recordings that Meera can dig up and consult.  These surveillance records include purchase receipts, phone records, security camera films, and witness reports.

Because this extended struggle between Meera and Vijay is involved and is what makes this film interesting, I will leave it to you to discover what transpires.  I will say, though, that the ending comes out a little different from what you might expect.
Overall Drishyam is a well-made production that is worth watching.  The coda that comes at the very end doesn’t seem to resolve anything, but that doesn’t deter me from recommending the film to you.

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sabato 27 agosto 2022

A Girl at My Door – July Jung

splendida opera prima di July Jung, con una sceneggiatura a orologeria e due protagoniste bravissime.

una poliziotta (la bravissima Bae Doona), esiliata in un commissariato di campagna, per motivi che si scopriranno, prova a difendere una ragazzina dalle violenze del padre e dall'ignavia di tutto il paese.

quel paese è un postaccio, prepotenza e alcool sono diffusi oltre ogni dire, e la vita per una ragazzina è impossibile, ma non per sempre.

cercatelo e godetene tutti.

buona (sorprendente) visione - Ismaele


 

 

 

Un monstruo en mi puerta es una historia de amor basada en la búsqueda desesperada de cariño entre una adolescente, marcada por un cruel pasado y un presente desolador, y una mujer que se niega a sí misma para no caer en un abismo. Una conexión llena de ternura absoluta. Una historia llena de humanidad y esperanza.

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Omaggiando il suo produttore con ambientazioni che ricordano le sue migliori opere, July Jung ha il grande pregio di aver costruito con attenzione e meticolosità due figure femminili efficacissime, come raramente capita per mano di una regista, due donne in lotta disperata per la sopravvivenza: una per riacquistare la sua dignità personale e professionale, l’altra per potersi regalare un futuro lontano da violenze e soprusi, entrambe che tentano di galleggiare tenendo la testa fuori dal letame che le sommerge, generato da pregiudizi e da situazioni brutali. E se Lee sembra quasi avviata verso la rassegnazione, nascosta dietro le bottiglie piene di soju, la ragazzina ha ancora un soffio di vitalità, un ultimo sussulto di voglia di vita che la porta ad essere il deus ex machina del film, decisa a dare luce alla sua esistenza: quello che dice il giovane poliziotto verso la fine del film appare come una verità assoluta: “Doo-he è una ragazzina problematica ma con tutta la comprensione possibile non si può non dire che sia un piccolo mostro”…

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July Jung es una de las contendientes a la Cámara de Oro con su debut en la dirección con A Girl at My Door, cinta coreana cercana al melodrama de telenovela sobre una agente de policía lesbiana que decide acoger en su casa a una niña que sufre abusos físicos por parte de su padre. Jung aborda temas tabú de su país como son la homosexualidad y la xenofobia poniendo el punto de mira en cómo su sociedad desvía la mirada ante la problemática de los abusos infantiles mientras aquellos que se comprometen acaban salpicados por un sistema poco justo. No carga las tintas más de la cuenta pero sí aporta escenas —y sobretodo una muy concreto en el clímax— que ayudan a que el resultado no sea demasiado débil. Doona Bae, más conocida por encarnar al androide de El atlas de las nubes, dibuja a su personaje con hermetismo y reservas. Su pasado en Seúl condiciona el presente en su trabajo hasta que se vuelve incontenible. La relación que establece con la niña le crea una dependencia afectiva a esta última que se vuelve parte clave de la trama y aunque ofrece un relato que se aprecia en sus intenciones, también está plagado de elementos desubicados; en concreto el de un emigrante extranjero que se percibe impostado en el discurso sólo para marcarlo todo con un rotulador aún más llamativo. Es un filme que se queda en zona media, como muchos hemos visto estos días. Interesante y con ese toque contemplativo y pausado que caracteriza a parte de las producciones asiáticas que retratan el costumbrismo rural de su país.

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venerdì 26 agosto 2022

Aloners - Hong Sung-eun

Jin-ah è un'ottima lavoratrice, al call center.

fa una vita solitaria, non ha rapporti con nessuno, sempre sotto il minimo necessario, al lavoro, nel palazzo dove vive, e poco altro.

mangia sola, vive sola, con computer o tv sempre accesi.

l'incarico di fare una minima formazione a una ragazzina la mette in difficoltà, lo fa controvoglia, e si vede.

piccoli movimenti nella sua vita, la ragazzina, un vicino sconosciuto morto, segnali che scalfiscono la sua corazza.

a decide di cambiare vita, con moderazione.

ottima opera prima, merita molto.

buona visione - Ismaele



 

 

Come in un quadro di Edward Hopper, in Aloners la giovane regista coreana crea dei piccoli scorci urbani, dove a regnare è la staticità e anche un certo senso di inadeguatezza. Jina si sente inadeguata nel momento in cui deve uscire dal suo guscio, preferisce mettere una videocamera per controllare suo padre (per poterlo così osservare in solitudine tramite il suo telefonino) al parlarci direttamente. Dopo l’incontro scontro con Suijin e due morti nella sua vita, quella di sua madre e quella del suo vicino di casa, morto schiacciato da una pila di materiali porno che aveva collezionato in casa sua (altro grande Aloner, la cui morte, oltre a sortire un’inevitabile effetto comico, dovrebbe essere di monito a Jina), la giovane inizierà delle riflessioni su questa sua solitudine. Quanto in realtà questo suo sentirsi a suo agio da sola è dovuto soltanto ad una sua inclinazione caratteriale e quanto invece (come sottolinea il meraviglioso personaggio del “matto” che cerca di tornare indietro nel tempo) è la società attorno a lei a portarla a questa condizione?

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La solitudine di Jin-ah, innescata da un padre che aveva abbandonato la propria famiglia e costruita con la propria indipendenza, trova terreno fertile nel suo lavoro. Non è un caso che Jin-ah sia l’operatrice più performante, al pari di un’intelligenza artificiale più consona alla mansione svolta, ad alto livello di alienazione. Tanto è schiva nei rapporti con i conoscenti, quanto è impeccabile nella gestione di clienti disumanizzanti (al limite del patologico) e disumanizzati, che sente ma non vede. Tramite finte scuse, frasi di cortesia e condiscendenza si estranea da conversazioni che potrebbero coinvolgerla emotivamente e renderla empatica. Così come invece accade a Soo-jin, giustamente turbata dal doversi scusare per non aver fatto niente, ma capace anche di instaurare un vero dialogo con chi è dall’atra parte della cornetta.

Il metodo di lavoro di Jin-ah si riflette nella sua vita (a)sociale, mediata da supporti tecnologici che le fanno ordinare il pranzo senza interagire con un cassiere o le consentono di spiare il padre. Inoltre, abita in una casa vuota, in cui concentra tutta la sua vita in un’unica stanza. Cucina, mangia e dorme in una camera da letto in cui la televisione è sempre accesa per distrarla dalla solitudine…

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Aloners descrive un microcosmo claustrofobico ma anche la sua uscita, la fuga di Jina che passa per tante piccole cose, senza che ci sia stato un unico motivo scatenante. Prima di tutto quella sua nuova giovane collega che le viene assegnata come tirocinante, e che comincia così a invadere e condividere il suo spazio vitale, la sua postazione dell’ufficio. Una ragazza un po’ pasticciona, non inquadrata, tant’è che la sua professionalità si rileverà fallimentare. Jina darà un calcio a quella vita, rassegnerà le dimissioni alla capa incredula che riconoscerà che i ritmi di lavoro avrebbero potuto essere allentati. L’accettazione della morte della madre e la riconciliazione col padre passano attraverso la rivelazione al genitore di averlo spiato, e ancora con una modifica tecnologia: la sostituzione del none mamma con padre nella rubrica telefonica del cellulare. Ma la cesura tra le due parti del film, la prigione e la ribellione, avviene con un’immagine apparentemente normalissima ma che, in quel contesto diventa dirompente: la passeggiata di Jina in una strada viva, piena di gente. Una scena collettiva, all’aperto come ancora non si era vista nell’atmosfera asfissiante che aveva, fino a quel momento, governato il film.

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Sung-eun hace un excelente uso de los elementos técnicos para acentuar la soledad de su protagonista. La cámara de Choi Young-ki siempre retrata a Jina de frente a partir de abundantes planos medios y primeros planos, permitiéndonos observar a detalle su rostro y lenguaje corporal, mismos que una fenomenal Gong Seung-yeon controla con precisión para comunicar en momentos clave los cambios en su estado de ánimo. Jina comienza a mostrar cada vez con mayor desesperación ganas de salir de su miseria y Seung-yeon lo plasma con excelencia en pantalla.

Los movimientos de cámara en mano gradualmente aumentan su fuerza para representar la creciente ansiedad que experimenta Jina, mientras que la abundancia de azules en la paleta de colores añade frialdad a su vida. Una astuta mezcla de sonido es utilizada para  exacerbar el forcejeo de Jina con la creciente soledad, además de destacar la paradoja de no tener conexiones reales a pesar de estar en constante comunicación con personas en el call center. Y a esto le agregamos un hermoso y sutil score musical de Lim Min-ju que aparece en los momentos perfectos para brindar un elegante toque de emotividad.

“Aloners” es un filme solemne y emocionalmente poderoso que comprende a la soledad y la manera en cómo la utilizamos para intentar protegernos del dolor. Hong Sung-eun entrega un trabajo sobresaliente que desteje las complejas redes del fenómeno del aislamiento a través de un inteligente estudio de los hilos que las conforman.

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Hong Sung-eun’s remarkable debut feature exposes with extraordinary subtlety what Jina is feeling (she is not the only lonely one in the story), in front of that game of mirrors that speak to her of her present and perhaps of her future and those interactions who lives as intrusions in his world dominated by efficient and dispassionate work and permanent connection to screens. The story is not content with sticking to the drama, but rather adds some disturbing elements and few but accurate touches of humor, creating a climate that captures the viewer. And always with what I call the «elegance» of South Korean fiction.

All of this could not work without the extraordinary performance of Gong Seung-yeon as Jina, who owns a mask of infinite shades that perfectly describe what she expresses and suggest what she hides.

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Kalo Pothi - Min Bahadur Bham

un film sull'amicizia di due bambini, Prakash e Kiran, nel mezzo della guerra fra i maoisti e l'esercito del re.

i due bambini sono alleati per salvare una gallina e ci riescono, contro tutte le aspettative.

un bel film che arriva dall'altra parte del mondo.

buona visione - Ismaele


 

“I maoisti sono una minaccia per i nostri figli.” Il Nepal per circa dieci anni è stato sconvolto dalla guerra civile. Si sono fronteggiati l’esercito e i guerriglieri maoisti. Nel 2006 si è raggiunto un accordo e lentamente è iniziato il disarmo delle popolazioni armate. Ci sono stati circa tredicimila morti dei quali molti civili. Il regista nepalese Min Bahadur Bham ci racconta un frammento della guerra nel film Kalo Pothi – The Black Hen. Il cinema nepalese è sconosciuto. Il regista ci racconta dell’amore dei nepalesi per il cinema: “In questo momento in Nepal si producono più di 150 film all’anno, come in Europa e in India, ma nessuno di essi è veramente buono.” Centocinquanta film sono tanti per una nazione di circa trenta milioni di abitanti e povera. L’autore ci presenta la guerra incrociando un linguaggio realistico con quello sognatore e visionario. Il legame della storia è fantastico, è una gallina nera che passa di mano in mano: “Nella storia la gallina è un elemento molto importante, è il personaggio principale e una sorta di metafora.” S’inizia con l’inquadratura dell’animale portata in un cesto da un vecchio. Siamo in un villaggio rurale nel nord del paese. Due ragazzini, Prakash e Kiran, amici nonostante le differenze di casta, arrivano in possesso della gallina per poi perderla. I due ragazzini sono molto vivaci. Subiscono la guerra, la sorella di Prakash è entrata nell’esercito maiosta, mentre i parenti di Kiran sono i capi del villaggio, fedeli al governo. Sono loro a raccontare la guerra, a mostrarci le disuguaglianze effimere, inesistenti nella loro ingenua giovinezza e amicizia. La ricerca assidua, e perfino pericolosa della gallina, è la ricerca della pace, che tarda ad arrivare. Il regista si sofferma sul rosso comunista, sulla falce e martello, sulle immagini di Mao. Tutti i maoisti vestono rigorosamente in rosso: “saluto rosso.” L’altro aspetto è la vita quotidiana di una nazione sperduta del Nepal. Un mondo sconosciuto. Il regista indugia sui particolari umani e sociali, non solo la grande problematica della guerra civile. Mostra la povertà, nel paese uomini e animali vivono insieme, in una promiscuità scarsamente igienica. Non hanno il bagno in casa e si lavano fuori. Mangiano cipolle crude con il sale e ingoiano uova intere. Gli uomini camminano avanti e le donne qualche passo indietro. Ma c’è pure divertimento: la gara al tiro della fune, l’arrivo del cinema, la buffa danza in tuta militare per cercare delle reclute. Il posto è bellissimo, un luogo sospeso sopra il mondo, dove è possibile vedere l’infinito. Questa bellezza è accentuata dal tono irreale su cui punta l’autore: la paura per i fantasmi, per l’orso nero. “Hai il singhiozzo, tuo nonno ti pensa” e riusciamo a comprendere il valore della memoria. Nel film la fisicità della natura è notevole, mischiata con il fantastico, la crudeltà del conflitto, i sogni dei bambini, le tradizioni ataviche. Il risultato è una storia potente, girato con passione. I bambini, in una foresta, rimangono invischiati in uno scontro fra una pattuglia governativa e quella dei ribelli. Il sangue è tanto e i morti sono ovunque. Fuggiti, entrano nudi nel fiume, e l’acqua intorno a loro si macchia di rosso. Il sangue non ha risparmiato nulla, forse solo la gallina che continua il viaggio.

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Le Népal, pays méconnu que notre imaginaire renvoie essentiellement aux sommets himalayens qui le bordent, fut il y a peu le théâtre de graves troubles intérieurs opposant les milices Maoïstes rebelles et le gouvernement. C’est dans ce climat de tension que Min Bahadur Bham déploie son Kalo Pothi , une jolie chronique villageoise qui n’est pas sans rappeler un certain cinéma social iranien. Pris dans les filets de multiples endoctrinements, familiaux, religieux ou militaires, deux gamins tentent de conserver envers et contre tout une poule pondeuse. L’animal offre à Bham le contrepoint idéal pour illustrer les espoirs de ces enfants dans un futur que les adultes du village semblent eux avoir sacrifié au profit immédiat ou aux simulacres de relations sociales.

Sans verser dans le drame excessif et parvenant à contourner l’exotisme du lieu, le jeune réalisateur imprime dans le regard de ses bambins la force et la résilience d’un pays que l’on sent démuni face aux drames qui se nouent en toile de fond. Mais si le réalisateur garde intact le rêve de jours meilleurs, il n’en oublie pas moins de souligner les drames de familles déchirées et de vies brisées par les antagonismes présents. Notamment dans les deux scènes de rêve, filmées avec la délicatesse du ralenti, et dans une finale qui illustre de belle manière la prise de conscience de ces deux petits amis, immergés dans un monde ou l’enfance n’est pas vraiment synonyme d’insouciance.

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Nel viaggio finale di Prakash e Kiran per ritrovare la gallina, trovano infatti l’impatto duro con la rivolta: i corpi a terra, le ferite. Per sfuggirvi si sporcano i visi del sangue di quegli innocenti, fingendo si essere cadaveri, un po’ come si fa per ingannare un orso in agguato. Poi c’è il bagno purificatore nel fiume,fonte di espiazione e sollievo, per Prakash e Kiran, per il Nepal. Il film dunque non spezza la catena di morte che realisticamente è ancora troppo forte, ma lascia il segno della speranza nei simboli, disseminati qua e là, sino a quell’epilogo: una collana di pelle e una piuma di gallina, oggetti senza importanza caricati di un significato importante e della grande responsabilità di proiettare lo sguardo oltre.

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La película vencedora de la última edición de la Settimana Internazionale de la Crítica del Festival de Venecia –y que se convirtió en el primer film nepalí exhibido en la Historia de la Mostra– fue escogida para inaugurar la competición de óperas primas del Festival de Tarragona. Kalo Pothi (traducido como ‘La gallina negra’) nos sitúa en el corazón rural de Nepal, devastado y empobrecido a causa de una guerra civil que enemistó al ejército oficial con un grupo de guerrilleros afines a las ideologías maoístas, entre 1996 y 2006. El relato (fechado en 2001) arranca con una retransmisión radiofónica de los atentados a las Torres Gemelas de Nueva York. En dicha escena, los campesinos de la pequeña aldea ensayan una danza para futuras ceremonias, haciendo caso omiso al conflicto extranjero. Su reacción ante el affaire estadounidense es un reflejo de su negativa por entender y asimilar su contexto bélico. Un niño sin madre, llamado Prakash, que será abandonado por su hermana cuando ésta se escape para unirse al enemigo, es el encargado de representar la peligrosa indiferencia de todo un pueblo. Mientras él y su mejor amigo, Kiran, se desviven por encontrar una gallina que sustituya a la que perdieron por un mal trato, el horror de la guerra está interfiriendo en sus libertades. Min Bahadur Bham filma los juegos y las artimañas de los chicos con un toque neorrealista, que recuerda al mejor Abbas Kiarostami. Pero el estilo costumbrista no será el único que predomine en la ficción. El realizador novel mezcla la cotidianidad etnográfica con estilizadas escenas ralentizadas. En ellas percibimos los sueños del protagonista, que ponen de manifiesto la pérdida de la inocencia del muchacho como metáfora de la perversión de su país; por ejemplo, el recuerdo de la muerte de su madre o militares interfiriendo en un acto sacro.

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Kalo Pothi, Un Pueblo De Nepal nos enseña un canto a la amistad a pesar de las diferencias y visto a través de los ojos de unos niños que no comprenden porque resulta tan difícil que puedan ser amigos por pertenecer a castas diferentes. Descubrimos como una simple gallina puede ser vital para el subsistir de una familia cuando para otra es solo eso, un ave. Una película donde el director cuenta una historia de amistad teniendo la Guerra Civil como telón de fondo pero que según avanza la película se convierte en tema principal mostrando los horrores que crea cualquier guerra y esta no va a ser menos. Para mi gusto esa última media hora es lo mejor de un film que en ningún momento pierde el interés pero que si es verdad tarda un poco en arrancar, eso si una vez dentro el espectador disfrutará de un film muy didáctico sobre un país Nepal, lejano y desconocido para la mayoría de nosotros.
Con un maestría nada propia de un novel Min Bahadur Bham consigue crear una película en la que narrativamente-casi-nada es reprochable y tiene la virtud de no tomar partido sobre ningún bando demostrando que, las verdaderas victimas de cualquier guerra es la gente del pueblo que tiene que soportar la barbarie de cualquier bando. Una historia mínima y sin apenas fisuras que acompañada de una estupenda fotografía hace de  Kalo Pothi, Un Pueblo De Nepal una película para comprender y entender a un país del que no sabemos nada .Todo ello a través de la amistad de dos niños.

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giovedì 25 agosto 2022

The Staircase - Una morte sospetta – Antonio Campos

una serie con (almeno) tre grandi attori/attrici, un caso giudiziario senza troppe prove, una morte "accidentale" che diventa omicidio, il tentativo di Michael per salvarsi, e la verità non è poi una cosa oggettiva.

si va avanti e indietro nel tempo, e alla fine la verità è un concetto difficile da credere, da provare, da capire.

merita, anche per i grandi attori, e un regista che evidentemente sa come si fa.

buona (ingarbugliata) visione - Ismaele

 

 

Digressioni temporali. Sembra essere questo l’ingrediente speciale che riesce ad accendere la narrazione di The Staircase. Similare alle atmosfere miniseriali di The Undoing nel raccontare della crisi di valori dell’upper-class statunitense, l’opera di Campos e Cohn parte da eventi conclamati nell’immaginario criminale per rielaborarne il contenuto in forma romanzata su di un doppio piano temporale tra passato e presente. L’espediente è efficace. E ci gioca tantissimo la narrazione di The Staircase, specie nel mostrarci il prima e il dopo nella vita dei Peterson. Nel riavvolgere il nastro dai giorni nostri sino ai giorni antecedenti/successivi all’evento luttuoso, The Staircase vede come dischiudersi segreti scabrosi e solitudini dell’anima, sino al graduale disfacimento di un’unità familiare tenuta in piedi per puro miracolo…

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…The Staircase es más fascinante de lo que pensaba. Sus capítulos duran una hora y te los pondrías en una maratón. Tiene ritmo, tiene gracia, tiene suspense y tiene buenas interpretaciones. Es suficientemente inteligente para saber cuándo pegar giros a lo "true crime" pero no deja de ser una serie ficcionada. En serio digo que engancha mucho. Si fuera una serie de Netflix sería de esas series que la gente ve de una o dos sentadas sin ningún tipo de culpabilidad. Una de las obligatorias del año.

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Miniserie crime in otto episodi basata sul vero caso di cronaca giudiziaria dello scrittore Michael Peterson, che ha appassionato gli Stati Uniti per circa un ventennio e continua ad esercitare un profondo fascino mediatico nel tempo, attraverso una narrazione sublime tra dubbi, sguardi ed espressioni ed interpretazioni magistrali dei suoi protagonisti The Staircase sfida l’indicibile, sotto le pressioni dell’esistenza e fino al momento della rivelazione finale.

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mercoledì 24 agosto 2022

Il tocco del peccato - Zhangke Jia

della Cina non sappiamo quasi niente.

per esempio che 18 delle prime 50 città più popolate del pianeta stanno in Cina, e i loro nomi sono quasi tutti ignoti alle nostre orecchie eurocentriche.

il film si compone di quattro episodi, comune denominatore è la violenza, senza freni, definitiva.

un mondo che si trasforma alla velocità del fulmine e nel film troviamo la registrazione del cambiamento, non troppo condiviso da tutti.

Zhangke Jia è una sicurezza.

buona (spietata) visione - Ismaele

 

 

 

 

Jia Zhangke racconta di una Cina lacerata dall’avvento di un capitalismo spietato ed esasperato, basato su corruzione, sfruttamento e sopraffazione, eppure ancora legata a un passato complesso, variegato la cui identità culturale pesa ancora come un macigno che produce scintille e dissociazione con il nuovo. E lo fa con uno stile esemplare, coerente e multiforme, attento alla grande tradizione del cinema marziale nelle esplosioni della violenza ma anche al naturalismo documentaristico della sua produzione recente, viaggiando attraverso lo spazio e il tempo, sfruttando i gradi di separazione tra gli angosciati protagonisti delle quattro vicende principali.

A Touch of Sin, carico di simbolismi eppure essenziale e rigoroso, della Cina e dei cinesi di oggi cattura la vastità geografica e la multiformità etica, senza sforzi apparenti; rifuggendo da ogni strumentalizzazione estetica o morale del dolore e dell’ira che racconta e che mantiene come filo rosso, cullando lo spettatore in una narrazione fluida e incessante come lo scorrere del grande fiume che fa da sfondo ad una delle storie. Quella di Zhangke, elegante ed austera al tempo stesso, è una dolenza sconsolata che entra sottopelle, che cattura e accompagna, che pesa dentro senza annichilire ma sollecitando riflessioni e reazioni.

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Le quattro storie che Jia, con impeccabile maestria e bravura tecnica, tratteggia sono prototipi di un malessere che in Cina, ma estrapolando si potrebbe dire ovunque, serpeggia pericoloso: l'economia selvaggia che chiude le miniere e arricchisce pochi furbetti descritta nel primo segmento, il malessere per una vita ai margini delle luci della ribalta nel secondo, la protervia e la violenza che porta il denaro col quale si crede di poter comprare tutto nella terza storia e il disagio giovanile per una società che destabilizza sia economicamente che sentimentalmente nella tragica quarta parte.

Vagando dall'innevata natale regione dello Shanxi al clima quasi equatoriale del Guandong, dalla selva di grattacieli della metropoli più popolosa del pianeta Chongqing all'Hubei, Jia racconta quasi fosse un unico corpo narrativo le storie di ingiustizia , di soprusi e di prevaricazione ; spazia tra i minatori senza lavoro alle prostitute siano esse in servizio in squallide saune o in lussuosi bordelli travestiti da club esclusivi, tutte situazioni nelle quali pian piano emerge quella che per Jia è una porzione oscura della natura umana: la violenza che esplode come colpo di fucile a pallettoni o come coltellata o ancora come insulto alla propria vita…

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Il film è in realtà un’operazione cinematografica molto astuta. Jia Zhangke traveste con il genere – “un wuxia contemporaneo”, ripete in più e più interviste – questo apologo contro la deriva umana del Paese, narrando 4 storie liberamente ispirate a fatti di cronaca nera occorsi in differenti regioni della Cina. La vendetta, Kitano docet, è il filo rosso del film: contro la privatizzazione selvaggia di una miniera, contro una sconosciuta coppia neoborghese, contro laidi businessman in cerca di sesso mercenario, contro se stessi in quanto amanti non corrisposti. Fossimo in Giappone, la vendetta sarebbe esibita nella sua essenza più profonda, percorso iniziatico di un novello Prometeo che cerca il sé e ciò che gli appartiene. Qui siamo in Cina, la vendetta è un paravento, il deus ex machina di tutta l’opera è il denaro nella sua più cartacea materialità: rotoli di banconote usati, branditi (come in Still Life per farsi vento) per picchiare donne non compiacenti. Sbagliato pensare che l’adorazione materica del denaro sia fenomeno di recente importazione, la ricchezza è sempre stata onorata nella tradizione taoista cinese come favore degli/agli Dei. L’attacco al denaro, per il tramite di esso l’attacco alla ricchezza e alla brama di potere, significa attacco alle radici culturali e religiose della Cina, alla gerarchia delle classi sociali di presunta origine divina, e la scelta di location sperdute e di ancor più sperduti protagonisti rende il messaggio più radicale, rivoluzionario quasi…

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Nel movimento circolare che fa incrociare le quattro storie in cui il film si divide, a prevalere è la condanna ad una sofferenza e a un dolore primigenio che si trasmette agli uomini attraverso un peccato originale che Zhang-Ke sembra attribuire alle colpe di un sistema dominato da egoismo e sopraffazione a cui i personaggi del minatore e quello della receptionist di una sauna rispondono in egual misura e con la medesima violenza; il primo pareggiando i conti con i notabili del villaggio che si sono arricchiti affamando la gente e professando il malaffare, la seconda vendicandosi di chi ha tentato di approfittarsi di lei. Ma non solo, perché nel film del regista cinese non tutto è giustificato da un rapporto di causa-effetto derivato da ragioni sociali, ed alcuni comportamenti rimangono celati da un malessere oscuro (per esempio quello dell’uomo che percuote senza motivo il suo cavallo), difficilmente prevedibile, come accade negli inserti dedicati all’operaio in cerca di lavoro ed all’immigrato tornato a casa, mossi da pulsioni che rimangono ignote ma che producono lo stesso male…

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martedì 23 agosto 2022

Yocho (Foreboding) - Kiyoshi Kurosawa

arrivano gli extraterrestri, e sono cattivi.

Etsuko capisce tutto e fa quelo che può, ma anche di più, per salvare Tatsuo (il marito), diventato un burattino nelle mani e nella mente dell'extraterreste nei panni del dott. Makabe, in preparazione dell'invasione, una volta che avranno imparato a capire e manipolare le emozioni degli umani.

è un'opera minore di Kiyoshi Kurosawa, dicono, ma a me non è dispiaciuta per niente.

buona visione - Ismaele

 

 

 

 

 

 

Foreboding è un progetto interessante, diretto da uno dei massimi autori del cinema giapponese contemporaneo ovvero Kiyoshi Kurosawa, che ha deciso un po’a sorpresa di realizzare una sorta di spin-off/prequel del suo film precedente Before We Vanish, sempre del 2017. Detto questo però è doveroso spiegare brevemente la genesi dell’opera, in quanto nasce come serie televisiva divisa in 5 puntate da 28 minuti l’una, visibile su Wowow (rete satellitare giapponese) e solo in seguito rimontata e riadattata con l’intento di trasformarla in un lungometraggio cinematografico presentato al Festival di Berlino (Sono Sion ha fatto l’opposto con Tokyo Vampire Hotel).

 

Il motivo di tutto questo tran tran è abbastanza semplice, sfruttare la vetrina di Berlino -unita al nome dell’autore- e piazzare sul mercato estero un prodotto nato essenzialmente per il settore televisivo locale. Detto questo molti potrebbero interpretare il tutto in chiave negativa e onestamente l’opera è lontana dai capolavori quali Cure o Kairo tuttavia dietro la macchina da presa non troviamo un novellino bensì un regista che da quando è salito agli oneri della critica internazionale (fine anni Novanta) porta avanti con forza una personalissima poetica stilistica e contenutistica lontana dal cinema mainstream, in grado di riflettere sulla società attuale offrendo un approccio quasi avanguardistico…

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Extraterrestri ma pure fantasmi: una operaia di nome Etsuko, avverte che in fabbrica qualcosa non funziona come il solito: aleggia un'atmosfera strana, una inquietudine di cui solo lei e pochi altri possono realmente rendersi conto. Quando la sua amica del cuore le rivela che da giorni in casa avverte la presenza di un'anima errante, un essere spaventoso che la terrorizza, Etsuko decide di accompagnare la collega da uno psichiatra, che, visitandola, si accorge che la donna ha rimosso il concetto di parentela: non sa cosa sia la famiglia, né comprende il significato dei vari ruoli all'interno della stessa.

Come se non bastasse il marito della nostra, che lavora come custode nel medesimo ospedale, viene in contatto con un nuovo, affascinante giovane medico che, in qualche modo, lo ipnotizza, fino a renderlo succube della sua figura: si tratta, capiremo, di un extraterrestre che ha individuato nell'uomo, la sua guida per imparare ed assimilare cognizioni, sensazioni e concetti tipicamente umani, che a occhio nudo e con la semplice osservazione è impossibile maturare, percepire, assimilare…

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in Yocho – Foreboding, infatti, gli alieni hanno bisogno di adottare una guida terrestre che fornisca loro le cavie cui sottrarre le emozioni col tocco di un dito. Questa volta il film si concentra su Etsuko, una giovane moglie il cui marito Tatsuo è stato scelto come guida dall’alieno impossessatosi del corpo di un medico dell’ospedale dove lavora. L’invasione è sempre più imminente e con essa la fine del mondo, ma Etsuko si rivela una sorta di anticorpo, in possesso di una qualità umana che la rende impermeabile all’invasione psicologica degli alieni. Nella lotta della donna per liberare Tetsuo dalla dipendenza dell’extraterrestre e opporsi all’invasione, Kiyoshi Kurosawa individua la forma di un dramma in cui si gioca la sospensione dell’angoscia di una perdita che riguarda prima di tutto l’invisibile della coscienza. La fine del mondo (qui figurata in una pioggia dirompente che si abbatte sull’intero pianeta) è il topos classico di questo regista proiettato sul rapporto tra sentimento e presentimento, sul sistema rappresentativo di una angoscia che promana dall’indefinito rapporto tra la pienezza dello spirito e la sua perdita. Semplice e immediato, Yocho – Foreboding è di sicuro meno efficace del precedente lavoro ispirato a Tomohiro Maekawa, restando come opera di routine di un autore che del resto sa alternare da sempre i film più necessari a quelli più alimentari, senza perdere il contatto con la sua traccia più sincera.

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Lo spunto di partenza reca con sé le  implicazioni sull’identità tipiche di molto cinema di Kurosawa: gli alieni non si limitano a prendere le sembianze e le vite di persone normali come i canonici body snatcher, ma ne sottraggono le strutture profonde che permettono di comprendere la realtà circostante. Una realtà che sul piano formale non subisce alterazioni ma si sta sgretolando nell’intimo: per ogni tassello che manca alla nostra specie quella avversaria si avvicina di un passo alla vittoria. In questo senso va inteso anche il dolore alla mano di Tatsuo e delle altre «guide», ovvero coloro che hanno scelto di servire gli invasori guidandoli nell’acquisizione dei concetti fondamentali, ottenendo in cambio di venire risparmiati: è un dolore che si esplica sul piano fisico ma radicato nella mente del soggetto, come spiega lo stesso Makabe.

Queste trovate, certo innovative nel panorama della fantascienza di genere, non bastano però a salvare Yocho da se stesso: trattasi di un film caratterizzato da una pessima messa in scena, imputabile all’origine teatrale del soggetto. Per due ore e venti – insostenibili – i personaggi non fanno che ripetersi spostandosi all’interno di una manciata di ambientazioni: la macchina da presa si mette da parte e lascia alla prestazione degli interpreti – altra nota dolente – il compito di far salire la tensione: un’operazione che, se poteva riuscire sul piccolo schermo in 5 puntate più digeribili, al cinema si rivela un fiasco. Senza contare che la premessa più accattivante, quella del riutilizzo delle concezioni, viene affidata interamente al personaggio di Makabe, una sorta di uomo di latta interessato a comprendere le emozioni umane. Insomma tutto il discorso sulle «concezioni» si scopre molto più banale di quanto non lasciasse intendere l’inizio, per non citare la sequela di luoghi comuni sull’amore e sulla forza interiore degli esseri umani che si concentrano nel finale.

Yocho conferma a sua volta la fame di novità di Kurosawa, il quale guardando ora al teatro, ora alla televisione, sembra stia cercando di reinventarsi con l’esplorazione di nuovi territori. Un’idea interessante la cui resa è però tutta da dimenticare.

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