sabato 30 aprile 2022

La calda vita - Florestano Vancini

girato fra Villasimius e Cagliari, quando ancora non esisteva il turismo come lo conosciamo, è una piccola storia di due amici e un'amica che vanno in vacanza un paio di giorni in un posto speciale, in un'isoletta, ciascuno dei due ragazzi ha ambizioni carnali sulla ragazza, ma poi c'è una sorpresa.

un'opera minore di Florestano Vancini, ma le opere minori dei grandi registi sono sempre film da non trascurare.

buona visione - Ismaele


 

 

Dramma sentimentale diretto da Vancini sulla base dell’omonimo romanzo di Quarantotti Gambini. La Spaak – in un ruolo per lei classico - è la ragazzina scaltra e crudele, che seduce e provoca i suoi coetanei per poi darsi al solito quarantenne: le conseguenze sono tragiche. Discreto ritratto della gioventù italiana del boom, incerta tra materialismo e sentimenti puri; l’atmosfera sensuale e rarefatta e l’ambientazione isolana risentono dell’ Antonioni de L’avventura. Buone prove degli attori, specie Ferzetti e Capucci.

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“La calda vita” è un film del 1963 di Florestano Vancini, qui più intimista e crepuscolare, lontano dal suo cinema impegnato e politico, con Catherine SpaakJacques PerrinFabrizio Capucci Gabriele Ferzetti.

Era l’estate dei primi anni ‘60, rovente e lunga come solo quelle che quest’isola ci sa regalare. Il cemento ancora non aveva invaso le coste sarde e tra le dune bianche di Villasimius al profumo di ginepri, lentischi e salsedine e una Cagliari che ancora appariva poco o niente al cinema, finisce l’età dell’innocenza di tre adolescenti che si affacciano alla vita adulta…

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La solitudine di un portiere

 

venerdì 29 aprile 2022

giovedì 28 aprile 2022

Finale a sorpresa (Competencia oficial) - Gastón Duprat e Mariano Cohn

se esistono i film di attori questo è uno di quelli, attori al meglio con due registi che sanno come si dirigono.

un riccastro vuole lasciare un bel ricordo della sua vita finanziando un film eccezionale.

non sappiamo bene di cosa parla il film girato dalla regista Lola Cuevas, solo che è uno scontro di attori, Ivàn e Félix (e Lola, naturalmente), di livello altissimo, scintille su scintille, in fondo il film è il suo farsi, la classica trama non esiste.

un film da non perdere, nessuno sarà deluso, promesso.

guardatelo al cinema e godetene tutti - Ismaele







Si comincia con un'esilarante sessione di lettura del copione, perfetta introduzione ai caratteri dei personaggi principali: abbronzato, volgarotto, apparentemente vanesio il Félix di Antonio Banderas, che flirta con Hollywood e innamora ogni minuto una femmina diversa; intellettualoide, moralista, cultore della parola anziché dell'immagine, l'Ivàn Torres di Oscar Martinez, vecchia gloria del teatro (il sipario è spesso lo sfondo delle inquadrature che lo riguardano) oggi convertitosi alla pratica frustrante ma necessaria della trasmissione del suo sapere artistico tramite l'insegnamento. Ivàn e Félix non si stimano e non si sopportano, ma hanno una cosa in comune: si prendono entrambi esageratamente sul serio. Il loro ego è senza fine. Ammezzerebbero per primeggiare. La ciliegina sulla torta? Lola, la regista, non è da meno: per tirar fuori dai suoi due modelli la performance migliore che sono in grado di offrire è disposta a tutto, e li provoca e li manipola in ogni modo, gettando benzina sul fuoco della loro già incendiaria rivalità…

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L’antagonismo giocato attorno alle figure centrali, chiamati ad interpretare due fratelli che si detestano, è il modello finito di un tema ideale sul mondo dell’arte, diviso tra una realtà fatta di riflettori e riconoscimenti pubblici, misurata dal successo economico, ed una strada di abnegazione sopra ideali irrinunciabili, ed il soldo considerato nemico della creatività. Un dilemma tanto più notevole nel cinema spaccato da slanci autoriali ed una natura produttiva industriale al quale fare rapporto. Finale a sorpresa ovviamente gioca le sue carte migliori dal lato delle ottime performance attoriali, sulla mimica dei corpi sorretta da battute da un repertorio comico fuori controllo, di genere macchiettistico, si affida in prevalenza alle parole, mentre concede poco dal punto di vista visivo. Poco conta. L’affiatamento recitativo è evidente, la flessione semmai arriva al momento di prendersi sul serio, legata probabilmente ad un’amarezza inevitabile, ad una risata destinata a morire in gola.

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mercoledì 27 aprile 2022

La casa dalle finestre che ridono - Pupi Avati

un film che resiste e che inquieta ancora.

una storia orribile, un qualche diavolo è all'opera, tutti sanno, chi non ci sta muore.

servono sempre nuovi cadaveri e alla fine si conoscerà l'inattesa verità.

bravi attori nelle mani di un regista che forse  allora non sapeva di aver girato un gran bel film, un piccolo e imperfetto capolavoro.

parte lento, poi è un crescendo inesorabile.

guardatelo e soffritene tutti - Ismaele

 

 

 

QUI il film completo

 

Capolavoro di Avati e, con buona pace degli estimatori di Argento, miglior horror italiano di sempre. Geniale fin dalla scelta dell'ambientazione placida e solare, assolutamente non convenzionale, angoscioso come pochi per la capacità di creare, con una economia di mezzi encomiabile, un senso di oppressione crescente attorno al protagonista, fino al finale, scioccante e davvero inaspettato. Interpreti tutti adeguati (ottimo Capolicchio), colonna sonora efficace e fotografia funzionale contribuiscono alla riuscita di un film tuttora disturbante.

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Autentico capolavoro di Avati, forse il suo miglior film insieme a "regalo di natale".
siamo sul finire degli anni cinquanta nella provincia di Ferrara, Stefano "pittore fallito" e restauratore sta riportando alla luce un affresco del martirio di san Sebastiano nella chiesa di un piccolo paesino nel ferrarese. cominceranno ad accadere strani avvenimenti, telefonate anonime, l'amico di stefano che cade dalla finestra misteriosamente, i paesani che sembrano sapere qualcosa ma che taciono
le voci che corrono sul pittore dell'affresco Buono Legnani, si verrà poi a scoprire delle misteriose sorelle del pittore che sembrano non essere scomparse del tutto.
il film pur cavalcando la cresta dell'onda di un altro capolavoro ovvero profondo rosso di Dario Argento, (notare le diverse similitudini le vecchie assassine,il dipinto che nasconde un fatto avvenuto anni prima, la villa, il cadavere nascosto,il registratore) il film riesce a vivere di natura propria , nel caso di argento il film è più' un thriller/horror mentre nel caso di Avati è un gotico horror. qui non esiste l'assassino alla Mario Bava con il capotto nero e il borsalino sulla testa. nel film di Avati il tutto è molto piu' rustico e antico dal punto di vista degli omicidi e delle due donne assassine . vengono affrontati temi come superstizione contadina, presunta stregoneria delle sorelle che avrebbero imparato in Brasile. i personaggi secondari hanno tutti dei lati oscuri per dare la confusione su chi sia il presunto omicida. la regia si muove per lo più' su brevi carrellate e campi lunghi che rendono alcune inquadrature dei veri e propri quadri, la fotografia alterna una notte scura con la calda luce del sole cocente e fastidioso . questo mi ricorda molto "non si sevizia un paperino" di Lucio Fulci dove anche li gli omicidi avvenivano sotto la luce del sole, dando quindi una aria molto realistica e in contrasto con l'atmosfera solare del luogo. tra le parti migliori del film ci metto il finale aperto, i flashback dell' infanzia di Coppola, la soffitta della villa , il casolare con le finestre ridenti, la canzone della vecchia. che dire capolavoro assoluto se ci riesco faccio la recensione degli altri horror di Avati.

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Sfiora la perfezione: musiche, ambientazione, attori, intreccio. È un puzzle con tutti i tasselli al posto giusto. Già l'inizio è stupendo (la voce roca, le immagini sgranate, le urla, il coltello lucente). Quando il protagonista giunge col battello, chi lo aspetta sembra uscito da un quadro (uno alto, uno basso e dietro un'auto rossa). Il posto e alcuni individui sono già piuttosto inquietanti senza bisogno di spargere sangue. Personaggi a dir poco felliniani in trattoria. Ovviamente, con un tale quadretto il povero restauratore avrà parecchi problemi. Dialoghi da gustare e bel finale.

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…ancora oggi, a distanza di più di quarant’anni dalla sua realizzazione, il film rimane a suo modo insuperato.
La casa dalle finestre che ridono resiste al passare del tempo grazie alla sua onestà, all’assenza di espedienti narrativi, allo “scavo” psicologico che porta ognuno dritto al centro delle proprie paure negandogli ogni certezza sublimata negli stereotipi, nei luoghi comuni: non esiste alcuna sicurezza, non si è mai completamente in salvo. Nulla è come sembra.
Inappuntabile, da ultimo, la scelta di un finale aperto, sospeso, che sembra voler invitare lo spettatore a spingersi al di là delle proprie inquietudini, laddove la paura stessa diventa motore dell’immaginazione e genera – per dirla con lo stesso Avati – “un’educazione al fantastico, all’immaginare che la realtà strabordi continuamente nell’irreale”.

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lunedì 25 aprile 2022

Lunana: A Yak in the Classroom - Pawo Choyning Dorji

capita che miracolosamente un film che arriva da Lunana, nel Bhutan, arrivi ai premi Oscar, e che arrivi anche nei cinema italiani, addirittura in più di 40 sale.

spegnete i telefonini, tanto non c'è l'elettricità per ricaricare le batterie, e guardate solo il film.

è un film piccolo piccolo che tutto il mondo può capire, come quando il bambino era bambino.

è la storia di un maestro che viene mandato a insegnare a Lunana (non in Sardegna), e scopre che un altro mondo è possibile, più vero, più sincero, più umano, più rispettoso, dove c'è un posto per tutti, dove gli yak ritornano.

chi lo vede capisce che il premio Oscar se lo meritava Lunana, non privatevene, Lunana è un dono all'universo.

buona (yakkesca) visione - Ismaele



 

 

 

 

Affidandosi a pochissimi attori, ma soprattutto alla reale popolazione del villaggio di Lunana (ivi compresi i bambini, che interpretano se stessi) il regista Pawo Choyning Dorji confeziona con Lunana – Il villaggio alla fine del mondo un film piccolo ma tutt’altro che inconsistente, che schiva anche quel rischio di retorica che, con un soggetto del genere, risulta sempre in agguato. Non c’è enfasi, nella descrizione del rapporto tra il protagonista e i suoi piccoli allievi, ma solo una naturalezza che aderisce efficacemente (pur liricizzata dal mezzo) a tempi e modi della vita reale. Una vita reale i cui contorni, tra i monti della catena himalayana, ci vengono restituiti in tutti i rituali, evitando sia le tentazioni puramente documentaristiche – il carattere narrativo del film non è mai in discussione – sia qualsiasi tendenza elegiaca. Il tutto è all’insegna di una spontaneità narrativa e recitativa, e di un’”invisibilità” di un mezzo che tuttavia, proprio laddove riesce a riportare con efficacia il contatto con l’alterità, ribadisce con forza la sua presenza. I paesaggi, utilizzati in modo funzionale e senza strafare dalla regia, fanno il resto, insieme alla presenza di un saggio yak, silenziosa presenza aggiuntiva nella classe: un curioso attore in più per il film, vecchio testimone di un modello di vita di cui il cinema ci ha restituito, con disarmante naturalezza, un significativo frammento.

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Gradualmente il protagonista, e noi con lui, dimentica le sue abitudini per trovarne di nuove. A conquistarlo è l’umanità che incontra, un’attenzione alla sua persona e al suo ruolo di insegnante che probabilmente non ha mai avuto in modo così disinteressato e genuino. Anche i sentimenti sono trattati con molto pudore, come un bene prezioso che non ha bisogno di iperboli per poter essere compreso, ma che necessita di essere riconosciuto. 

Nessun lieto fine come potremmo essere indotti a credere, o, meglio, nessun lieto fine come siamo stati abituati a dover credere che sia un lieto fine. La vicenda non si conclude infatti, ma trova quella connessione karmica tra uomo e natura più volte evocata. Quale punto di arrivo migliore di una consapevolezza in grado di comprendere il valore della esperienza vissuta che diventerà per sempre, ovunque ci si troverà, una parte di sé a cui attingere?

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Lunana non è un luogo di finzione. È effettivamente un villaggio sul tetto del mondo situato lungo la catena dell'Himalaya al confine tra Bhutan e Tibet. Tutti gli abitanti sono stati coinvolti nelle riprese di una storia che potrebbe ad ogni sequenza precipitare nella retorica. Perché i bambini sono tutti simpatici e ubbidienti, perché Ugyen viene attratto dalla fanciulla più carina che ogni giorno si colloca su un'altura per offrire il suo canto all'ambiente che la circonda, perché la povertà del luogo è estrema. Il rischio viene però ampiamente superato grazie ad un elemento che si rivela fondamentale: la sincerità.

Non c'è nulla di artefatto in questo film che merita la candidatura all'Oscar perché evita il documentarismo etnografico pur calandosi con estrema naturalezza in una comunità e in uno spazio che non lasciano margini a dubbi.

A Lunana si vive davvero così e, nonostante la corrente elettrica quasi sempre in blackout e le stufe che prendono vita grazie allo sterco degli yak, la vita è possibile ed ha una qualità specifica che non si può trovare altrove. Senza facili ammiccamenti ma con uno sguardo che sembra essere depurato da qualsiasi volontà dimostrativa la camera si cala in quello spazio.

Per chi conosce il cinema di Khyenste Norbu sarà facile capire che Pawo è stato suo assistente e ne ha assorbito un modo di fare cinema in cui la naturalezza non è pura improvvisazione ma, al contempo, non si lascia sopraffare dalle esigenze delle riprese. Si osservi la presenza di Pen Zam, la piccola capoclasse che vive una vita non facile come quella del suo ruolo nel film. Basta guardarla negli occhi o vederla correre via con i suoi passettini per comprendere che non recita. Vive con semplicità il suo personaggio e vivendolo ce ne trasmette la purezza e la spontaneità.

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El relato enfatiza también en una tradicionalidad atípica en ciudades. Aunado a ello, resalta de manera sutil la amabilidad en tiempos en que predomina la indiferencia. Ugyen comienza a sentir respeto hacia los habitantes y el entorno de Lunana. El yak que acompaña al protagonista muestra atisbes espirituales relacionados con el destino, el descubrimiento espiritual y el linaje.

Con un aborde que irradia carisma y encanto, ahonda en la inevitabilidad de la existencia de las tradiciones y la modernidad en el mundo actual.

Lunana: A Yak in the Classroom maneja una narrativa convencional sobre el autodescubrimiento y las tradiciones. No obstante, es una película carismática y noble que reflexiona sobre la amabilidad y la enseñanza educativa sincera en medio de la adversidad y los ancestros.

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Pawo Choyning Dorji se las ingenia para trasladar lo local hacia lo universal, convirtiendo a los carismáticos habitantes de Lunana en protagonistas incidentales de una ficción-no-ficción amplia como la propia vida: la música, la vocación y los yaks como elemento catártico con el que conectar con la propia tierra adquieren una dimensión amplia pese a la constricción de estilo, y es gracias a esos rostros y ese modo de encuadrarlos, respetuoso y al que se le intuye una admiración sincera, que tiene la capacidad de transformar la simpleza en virtuosismo narrativo, sin medias tintas ni búsquedas subrepticias de mensaje. Lunana: A Yak in the Classroom es una película amable y cristalina, conmovedora y cándida, de inusitada embestida emocional y rodeada de un trasfondo de responsabilidad ecológica y humana de primer orden, de búsqueda de la médula del ser humano. Y eso es algo que nunca acabamos de aprender lo suficiente.

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domenica 24 aprile 2022

Parigi, 13Arr (Les Olympiades) - Jacques Audiard

Emilie, Camille, Nora e Amber Sweet sono i protagonisti.

alla fine ognuno è solo con se stesso, quando si guarda allo specchio della sua anima; fanno cose, vedono gente, ma alla fine ognuno deve fare i conti da solo.

poi magari, se si è fortunati, le persone sole, senza maschere, si trovano, e possono fare un pezzo di strada insieme.

un film che vale molto, addirittura in otto sale, buona caccia al tesoro, e poi 

buona (olimpica) visione - Ismaele




Tra stazioni della metro e centri commerciali, giardini e spianate, ristoranti e commerci che si sognano prosperi, una fauna di tutte le origini (soprattutto cinese), si muove, si urta, si infiamma, si ferisce. Il poliamore regna sovrano fino a quando i sentimenti rimangono sigillati. Due donne hanno una relazione con lo stesso uomo mentre cercano l'amore vero sulla mappa della stagione post-romantica.

Le nuove tecnologie, onnipresenti nel film, servono gli incontri online, il porno virtuale, le molestie, il pubblico ludibrio, soffocando la voce umana che tuttavia si fa largo negli incontri vis-à-vis, nel confronto corpo a corpo e nella sessualità sfrenata.

Audiard gira un film che cancella le frontiere dell'orientamento sessuale come quelle del colore. Il bianco e nero sublima le etnie, che non definiscono mai i personaggi. È uno dei miracoli di questo racconto di destini in divenire che fanno vibrare un quartiere parigino senza bellezza.

Il piacere che offre Les Olympiades nasce soprattutto dai dialoghi e dai suoi personaggi, che palpitano di vita e di speranze fragili. Lucie Zhang, Makita Samba, Jehnny Beth e Noémie Merlant sono i volti di una nuova generazione di attori che rifiuta il pessimismo di ambiente e corregge la ruvidità del regista. Per Jacques Audiard non si tratta solamente di trovare nuovi corpi ma di restituire un sentimento, una sensazione sullo schermo. Il 'gusto di ruggine' o il sapore di 'baci rubati', ravvivando la fiamma olimpica dei maratoneti di domani

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La pellicola è girata in bianco e nero, e questo le dona una forza che altrimenti non avrebbe potuto avere: l`assenza di colori aiuta a cercare di catturare i particolari dei protagonisti e delle loro interazioni, particolari che Audiard non ha paura di mostrare nella loro interezza. Nella storia sono pieamente mostrate scene di sesso anche forte, ma non disturbano assolutamente, risultando anzi necessarie a raccontare uno dei 2 aspetti principali del rapporto maschio/femmina, quello dell`immediatezza, del bisogno fisico e corporale di cui tanti di noi sono e/o sono stati vittima durante almeno un periodo della loro vita. L`altro è quello legato ai rapporti di forza tra le anime delle persone, che anche qui il regista non teme di mostrare anche in modo duro ma mai esagerato, legandolo a quello corporale in maniera (in parte) indissolubile, per far capire chi comanda. Ne viene fuori, quindi, un racconto unico nel quale chiunque potrebbe realmente riconoscersi. Qui viene rappresentata sia la superficialità dell`uomo medio e come questo vive in modo separato il sesso e i sentimenti, che il legame indissolubile che invece queste due cose hanno per la maggior parte delle donne. Allo stesso modo, si apre una finestra su stupro, omosessualità, droghe, dipendenza dai porno e tanto altro ancora. Tra gli attori, emergono per la loro bravura la coppia Noémie Merlant e Jehnny Beth, che difficilmente dimenticherete per quanto saranno capaci ad entrarvi dentro, con tutta la loro freddezza che maschera qualcosa di ben diverso. Belle le luci e l`uso degli spazi, che in un prodotto senza colori emergono in modo ancora maggiore. Da non perdere. 

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“Parigi, 13 Arr.” è un film che racconta lo smarrimento, la ricerca, il ritrovamento e poi il nuovo perdersi. La volontà costante di tutti e quattro di rimettersi in gioco dopo ogni ripartenza è affrontata in modo diverso. Con grinta per Emilie, con naturalezza per Camille, con ansia per Nora e con concretezza da parte di Amber Sweet.

Età simili ma diverse con approcci simili ma diversi ai problemi della vita. Il problema in più per Nora è rappresentato dal web, perchè essere scambiata per una nota webcamgirl è allo stesso tempo un dramma ma anche un punto di partenza, un’opportunità per conoscere lati della propria personalità che non erano stati ancora affrontati.

Il film è quindi il racconto di una ricerca di 4 ragazzi della propria identità, del proprio colore in quella vita fatta di grigi che il regista dipinge. Quel distinguersi dalla massa soprattutto per riconoscersi allo specchio, nella vita, nelle proprie aspirazioni, desideri e sogni.

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París, Distrito 13 también sobresale por sus aspectos más modernos. La banda sonora le aporta dinamismo y variedad, reforzando así la idea de actualidad. Donde unos protagonistas treintañeros pragmáticos que no quieren estar donde están, pero tampoco saben a donde quieren ir. Los sueños se han roto y parece que no importa. Y aún así, nos sentimos atraídos hacia su magia.

Esta película francesa posee muchas capas. Todo a su alrededor se romantiza. La juventud, las azoteas parisinas, incluso su propio trabajo fotográfico. Y es que el blanco y negro no sólo simboliza esa dualidad centrada en los intereses amorosos, sino que evoca al recuerdo, la nostalgia y por consiguiente, tendemos a romantizar su visión. Un blanco y negro que tapa la historia pesimista que se nos está contando, endulza el dolor y lo hace deseable.

Es posible que París, Distrito 13 podría haber explorado más esa ciudad donde la vida se pausa mientras paseas por la orilla del Sena. Pero la historia no va de ella, sino de ellos. Así, la dirección plasma sus cuerpos, sus miradas, sus palabras y los rodea de una atmósfera clásica.

París, Distrito 13 dulcifica la visión pesimista que reside en los ojos de quién se atreve a encontrar su lugar. Un París testigo de los caminos de quién la pasea, nos hace rememorar aquello que Woody Allen podía provocarnos en su visión más clásica.

Pretendiendo ser realista, pero dándonos el placer de sentir esa magia que seguro que el espectador querrá volver a sentir.

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giovedì 21 aprile 2022

Ali & Ava – Clio Bernard

una storia d'amore complicata e semplice insieme.

Ava e Alì hanno storie difficili alle spalle, ma bisogna pensare al qui e adesso, per quanto possibile.

amano la musica e, potenza dell'amore, riescono ad amare le musiche dell'altro/a.

entrambi sono segnati come adulti, ma hanno un cuore da bambini, e come bambini sono indifesi.

e noi facciamo il tifo per loro, senza nessun dubbio.

buona (musicale e amorosa) visione, se riuscite a trovare uno dei 17 cinema che lo programmano - Ismaele



 

 

se Ava è una donna dolce e nervosa, dai modi gentili e sempre accoglienti, Ali ha lo sguardo spiritato di chi sa farsi stupire dagli altri, con la sua aria distaccata e la sua volontà tenace: insieme sono a loro modo perfetti.
L'amore fra queste due figure autentiche e al tempo stesso ideali è così impedito dalle circostanze sociali, ma esaltato dalla loro unicità: nessuno è come Ali e Ava, nessuno possiede la loro forza, la loro resistenza. Lo sguardo della regista è spoglio e diretto come loro, e trova per questo una perfetta sintonia capace di raccontare una storia d'amore sbilenca ed entusiasmante, simile a un sogno che prende vita dalle spigolosità della vita vera.

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Nella sua Via del Campo, Fabrizio De Andrè ci ricorda come “dal letame nascono i fior”. Un piccolo verso che va a completare una canzone dalla natura e dal fraseggio poetico in cui si dà spazio ai cosiddetti ultimi. Ma chi sono questi? Con ultimi s’intende tutti coloro che vivono delle esistenze piccole, quasi invisibili. Un giudizio che viene attribuito loro da chi, invece, è convinto di trovarsi all’interno di una realtà migliore e meglio definita. Sono uomini e donne caratterizzati da una normalità che rasenta l’assenza. Non troppo belli né particolarmente sgradevoli, sembrano non aver nessun elemento caratteristico in grado di far guadagnare loro la scena dell’attenzione sociale. Eppure, nonostante questo, sono spesso al centro di racconti, versi, canzoni e, ovviamente, anche film. Cosa li rende, dunque, così speciali nonostante la loro omologante normalità? A trasformarli nel soggetto preferito di osservazione di tanti e diversi sguardi artistici sono proprio le loro imperfezioni. Tutti quegli elementi peculiari che, pur trovandosi al di fuori dei canoni stabiliti dalla società, li definiscono come delle creature uniche, quasi magiche nella loro quotidianità…

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Una storia di antieroi o di sopravvissuti: alla morte di un figlio lui, alle violenze dell'ex marito lei. La regista lascia che a parlare siano i loro corpi e i piccoli dettagli del microcosmo in cui si muovono: la comunità multietnica di Ali, il quartiere bianco e ultranazionalista di Ava, le case dai tetti bassi, lo skyline della città caratterizzato dalle ciminiere che sputano fumo, le cuffie con cui ascoltano la loro musica preferita. Clio Barnard la sfrutta soprattutto nella sua dimensione squisitamente diegetica e ne fa una comprimaria straordinaria. La musica accompagna i due protagonisti sin dal loro primo incontro e li definisce: Ali è un appassionato di rap e elettronica, la balla spesso all'alba quando nella nebbia mattutina con il cappuccio tirato sulla testa sale sulla cappotta della macchina e si abbandona ai ritmi electro in un rito quasi liberatorio, Ava invece la ascolta sulla strada che da scuola la porta a casa, ma predilige altro, in particolare il folk di Sammi Smith o Karen Dalton o le ballate irlandesi.

Si incontrano sulle note punk rock dei Buzzcocks, si seducono condividendo brani, imparano a conoscersi cantandoli a gran voce schiena contro schiena e scambiandoseli. Lei finirà per apprezzare l'electro-pop, lui si ritroverà a suonare con un ukulele Mama You Been On My Mind di Bob Dylan. Ali & Ava è un film stratificato, parla di integrazione, identità nazionale, cultura e classi sociali, a tratti ha il sapore del musical e lo spessore del racconto sociale. In chiusura risuonano le note di Grace, una ballata popolare irlandese sulla storia di Grace Gifford, che sposò il suo fidanzato Joseph Plunkett poche ore prima che fosse giustiziato per aver partecipato alla Rivolta di Pasqua del 1916 contro gli occupanti inglesi. Quasi una nenia a suggello dell'amore e della libertà ritrovata.

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mercoledì 20 aprile 2022

Le stagioni del nostro amore - Florestano Vancini

il film racconta la storia di Vittorio, un bravo giornalista in un mondo che non è quello sognato da ragazzo, 

è un film ricco di temi e situazioni, e non delude mai, è una storia d'amore, di padri e figli, del tempo che passa, e anche, o sopratutto, della Resistenza, e di come quelle speranze e quegli ideali siano evaporati.

il film, ambientato a Mantova, ha avuto problemi con la censura, era il 1966.

Enrico Maria Salerno è il bravissimo protagonista, sulle sue spalle si regge il film, ci sono anche altri attori bravissimi, in piccole parti, ma indimenticabili.

Florestano Vancini è un regista di serie A.

insomma, un gioiellino da recuperare - Ismaele



ps: Le stagioni del nostro amore è il titolo di un disco di Franco Battiato

 

 

Vittorio Borghi, un giornalista quarantenne, è giunto ad un momento di crisi, o meglio di ripensamento, di riflessione su una vita di cui è ormai trascorsa la parte migliore. L'occasione della crisi è un'avventura sentimentale: Vittorio è legato ad una ragazza, Elena, molto più giovane di lui, ma questa è una relazione ormai giunta alla fine. Ed è proprio l'addio con la ragazza assieme alla rottura definitiva con la moglie, Milena, a spingerlo nei luoghi della giovinezza in cerca di ricordi e di amicizie quasi dimenticate. Vittorio ritorna a Mantova, incontra gli amici del padre - un postino di campagna, vecchio socialista all'antica - i compagni di scuola, della resistenza, delle lotte politiche, del dopoguerra. Se i ricordi degli avvenimenti sono vivi e presenti, le persone sono invece mutate, lontanissime. Anche Vittorio è profondamente cambiato: è deluso, non crede più agli ideali per cui ha lottato durante e dopo la resistenza, e, ferito nei sentimenti, non riesce a trovare un punto di contatto con chi gli era stato vicino in gioventù. Il pellegrinaggio ai luoghi del tempo trascorso terminerà in una balera lungo il Po, dove un gruppo di ragazzi e ragazze è riuscito a far funzionare un juke-box. E' un’altra gioventù che non ricorda in alcun modo quella di Vittorio, allegra, senza problemi, ma forse con un più esatto senso della vita.

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Un lavoro interessante quello di Vancini , che accarezza i temi politici, raccontando una difficile presa di coscienza. Enrico Maria Salerno riesce a dar corpo a tutte le insicurezze di un uomo alla deriva, con una recitazione di ritmo che si esalta nelle parti più drammatiche. Dopo essere tornato a cercare un passato scomparso, il giornalista termina la sua corsa osservando dei ragazzini aggiustare il juke box di una balera improvvisata. Un film per chi accetta le cose che finiscono.

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Giornalista di sinistra attraversa un periodo di crisi esistenziale. Pianta la moglie e torna ai luoghi della sua gioventù. Scritto con Elio Bartolini, il film spinge fino al grottesco la critica ai cedimenti morali e politici della sinistra, in una chiave viziata da autoindulgenti concessioni ai tormenti interiori. "Sarebbe ingiusto negare qualche fascino agli scorci di Mantova né si può trascurare la toccante verosimiglianza degli incontri tenuti nella chiave più allusiva. Ma i pellegrinaggi sentimentali sono difficili nella vita e nell'arte" (T. Kezich). Girato a Mantova e Sabbioneta. Fotografia di Dario Di Palma. Premio Fipresci a Berlino.

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Le stagioni del nostro amore (1965) from Surf Film on Vimeo.

martedì 19 aprile 2022

Storia di mia moglie - Ildikó Enyedi

finché Ildikó Enyedi era una grande regista ungherese era perfetta, poi quando si aprono le porte della grande produzione internazionale non tutti riescono a tenere tutto sotto controllo, magari la produzione mette bocca troppo spesso, il/la regista perde il filo, magari i fili sono troppi, chissà.

secondo me qualcosa è andato male, capita.

non che Storia di mia moglie sia un brutto film, né che gli attori (e la regista) non siano bravi, solo che mi è sembrato un film perfettino, ma senz’anima; è un film freddo, anche gli altri lo erano, è una cifra stilistica di Ildikó Enyedi, ma non sembravano finti, un’anima l’avevano, eccome.

buona (fredda) visione - Ismaele

 

qui e qui due bei film di Ildikó Enyedi

 

 

…Le colpe del film però non vanno ascritte agli attori, quanto a un approccio cinematografico polveroso, che sembra guardare a un orizzonte di valori e a una platea di spettatori scomparsi da molto tempo. Corpo e anima era un film sentimentale delicato ma capace di toccare il pubblico, al contrario The Story of My Wife risulta artificioso e distante, anche nelle sue scene più appassionate…

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La historia de mi mujer es un interesante drama romántico de época que destaca por la maravillosa interpretación de Léa Seydoux. Una actriz capaz de atrapar ella sola al espectador (y a su marido en la ficción) con su despliegue expresivo. Sin olvidar la asombrosa fotografía y diseño de producción, dos armas que la cinta utiliza de forma un tanto desmesurada. Por un lado, resulta plenamente placentero disfrutar de la belleza compositiva de cada plano, pero al mismo tiempo su excesivo metraje (casi tres horas) y su frialdad pueden alejar al público mayoritario. Aunque su mensaje plenamente actual, sobre el desconcierto masculino ante un poder en riesgo y la imperiosa necesidad de un cambio, debe ser reivindicado.

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El problema es que la película no está diseñada para que atendamos solo a la perspectiva del marido (tampoco ayuda su escaso carisma), para justificar que una escena u otra puede ser así objetivamente o variar según él la conciba, sino que también debe imponerse la perspectiva de la mujer.

Sin embargo, esta permanece en los límites de la objetificación a la que es sometida por el capitán, y en ningún momento su comportamiento, partiendo de esa aceptación inicial y precipitada del matrimonio, queda plenamente justificado desde su punto de vista. En otras palabras, la historia quiere jugar con los distintos tópicos del matrimonio, algo reforzado por su división en capítulos temáticos, pero no sitúa a la mujer en una posición lo suficientemente interesante u original para dar una verdadera réplica al hombre. Enyedi ofrece esta visión sesgada conscientemente. Ahora bien, y esto no parece intencionado, lo hace a costa de incurrir en una narración de lo más sosa y convencional, repleta de lugares comunes. Estos van desde la manera en que casi todo se reconduce a la obsesión por el adulterio hasta detalles como la escena en que el marido destruye el mobiliario de su apartamento. Asimismo, las conversaciones de la pareja o con personas de su entorno son de lo más básicas, casi burdas a veces, lejos de la sutileza y sofisticación que exigía este melodrama…

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Storia di mia moglie è un lavoro esteticamente pregevole, da vedere al cinema, godendo di tutte le potenzialità del grande schermo. È adatto a chi ama le storie in costume – con un’ambientazione anni Venti. È ricco di riferimenti interessanti e tenta un viaggio intrigante nella mente dei due protagonisti, soprattutto di Jacob, alla ricerca di un equilibrio difficilissimo in un amore contorto e malato. Forse, però, come il Leopold Bloom di Joyce, il film si perde un po’ nel suo peregrinare, in un dipanarsi lungo e ricorsivo, infine statico, come il suo protagonista, che sembra tornare al punto di partenza, senza una nuova consapevolezza di sé.

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lunedì 18 aprile 2022

Francesca - Bobby Paunescu

l'Italia è sullo sfondo di Francesca, e ha una fama pessima, chissà perché.

Francesca non riesce più a vedere un futuro in Romania e decide di partire verso l'Italia, per fare, forse, la badante.

deve lasciare la mamma e il fidanzato, che era entrato in giri strani, con gente senza troppi scrupoli.

il film non lascia scampo per chi inizia a vederlo, dopo non può smettere di vederlo.

un bel film, se lo trovate - Ismaele

 

 

 

 

Ben dialogato e recitato, scandito sul tempo reale dei lunghi piani-sequenza e delle inquadrature fisse, il film procede senza mai cadere nella trappola della tesi o del messaggio da gridare al mondo, semplicemente diritto verso una fine sempre più prevedibile ma non per questo evitabile.
Il capitale investito ha un nome proprio, Monica Birladeanu: nota (come Monica Dean) negli Stati Uniti, si cala credibilmente nel ruolo di un'ignota (per noi) trentenne rumena divisa tra i sogni e gli affetti. Il resto è cinema di pochi mezzi ma più che sufficienti, che non si segnala per novità ma si fa apprezzare per lo stile sincero e la leggerezza del tocco, nel maneggiare temi di cui è impossibile negare il peso.

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…Se da un lato infatti la decisione della protagonista è il pretesto per mettere in bocca a diversi personaggi la paura dei romeni nei confronti degli italiani e non viceversa (con tanto di citazioni esplicite su fatti di cronaca nera e politica degli ultimi mesi), dall’altro lo è anche per mettere in scena personaggi e situazioni che descrivono un mondo fatto sì di difficoltà, corruzione, criminalità più o meno spinta, ma che non lo è né più né meno di quello relativo ad altre nazioni e che è tutto tranne che esente da umanità e comprensione.

Francesca - che non esalta e non colpisce per particolari guizzi, ma che nemmeno fa lasciare la sala con amaro in bocca o con fastidio – va di sicuro riconosciuta la schietta sincerità con la quale racconta la sua storia, la voluta (e provvidenziale, in casi come questo) scelta di non indugiare nel dramma e nella retorica, nella costante ricerca di un punto di messa a fuoco che non sottraesse nulla senza dire troppo. E il risultato è nel complesso dignitoso, pur senza spiccati tratti identitari, grazie anche all’equilibrio e alla fluida naturalezza della scrittura.

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Dove il film riesce a fare il suo gioco è nella schiettezza dei suoi interpreti e dei dialoghi che recitano (e la vittoria della querela della Mussolini farà vedere il film in versione integrale), con la bellissima Monica Birladeanu a caricarsi, com’è ovvio, l’intero peso emotivo della pellicola. Pellicola che però, nel suo voler raccontare presente e ipotesi di futuro, in realtà non fa un passo avanti.

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Con una regia a dir poco acerba, la storia si sviluppa in tempo quasi reale, registrando passo, passo, i pochi giorni che precedono la partenza per l’Italia, dove il solito anziano attende la sua badante.
Francesca, bellissima ma un po’ legnosa, spolvera la casa, si dipinge le unghie, chiede a tutti un parere, consola un amico gay sull’orlo di una crisi di nervi e ama, incomprensibilmente, Miza, insignificante e codardo ragazzo minacciato da un boss che gli ha prestato una considerevole cifra per portare a termine un affare sporco.
Francesca vuole partire, certa di potercela fare e di poter aiutare Miza.

L’impianto narrativo si presenta con momenti di forte discontinuità, penalizzato ulteriormente da un dialogo di scarsa tenuta, che esplicita noiosamente ciò che si è già abbondantemente visto o che scontatamente si può immaginare.
La macchina da presa si muove come se avesse una vita a sé: si incanta e poi trasale muovendosi in panoramica per seguire un dialogo o un’azione, per poi riassopirsi nel fisso di inquadrature dalla durata inspiegabile.

Francesca è un film che partiva con i buoni propositi di un ritratto dal vero, ma che si è ridotto alla pedante registrazione di una realtà immaginata e di scarso interesse.

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domenica 17 aprile 2022

BELLA CIAO - PER LA LIBERTA' - Giulia Giapponesi

tutto quello che avreste voluto sapere su Bella ciao e non avete mai osato chiedere.

è una canzone che viaggia, vive quando si desidera la libertà, tutto il mondo la canta,  le ragazze curde del Rojava cantano Bella ciao, la canta Yves Montand, la canta Tom Waits, fece scandalo a Spoleto, nel 1964la canta don Andrea Gallo, la cantano i Grup Yorum e mille altri.

è la canzone di chi lotta per la libertà, non per il potere. 

se non avete potuto vedere il film al cinema, e state per pronunciare parole che fanno rima con palazzo o con fontana non fatelo, il 22 aprile lo trasmette Rai Tre.

non perdetevelo - Ismaele

 

 

 

…Forse la migliore definizione del pezzo la dà proprio il primo “Virgilio” di questa lunga storia. Osserva Capossela: «Bella ciao è soprattutto una canzone antifascista. Il fascismo non è un fenomeno collocato e confinato in un preciso momento storico, collegato soltanto a un regime. Come affermava il suo fondatore Benito Mussolini: “Il fascismo non l’ho creato io, l’ho tirato fuori dall’inconscio degli italiani”. Bella ciao credo non sia solo una canzone nata nella Storia della Resistenza italiana, ma come un salvavita che scatta davanti alla privazione di libertà, di un diritto. Come un anticorpo ci soccorre»

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Giulia Giapponesi propone un percorso che si trasforma in una presa di coscienza con una fondamentale connotazione femminile. Troppo spesso (si potrebbe dire quasi sempre) l'articolo 'i' precede il vocabolo 'partigiani' quasi che le donne non abbiano preso parte alla Resistenza in Italia. La regista non si attarda in polemiche passatiste. Fa una cosa molto più utile: fa parlare donne che all'epoca c'erano ma, soprattutto, ci permette di conoscere giovani donne nostre contemporanee che per e con quella canzone hanno lottato o lottano. È il caso di una politica turca che per "Bella ciao" è finita sul banco degli imputati o di una combattente curda che ci mostra come quel canto faccia parte del patrimonio della lotta per la libertà di quel popolo…

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QUI un’interessante intervista con la regista Giulia Giapponesi

 

 

 

sabato 16 aprile 2022

Oscar di cartone

 

Debole, triste, misera. La notte degli Oscar peggiore di sempre – Alberto Crespi

 

Abbiamo trascorso anni gloriosi, all’«Unità», commentando le varie edizioni dell’Oscar. Una volta il commento culturale-politico spettava al nostro glorioso critico, Ugo Casiraghi. Sì, culturale e politico. Perché gli Oscar hanno premiato grandi film e hanno rispecchiato tendenze, mode e momenti sociali importanti: basti pensare alle vittorie di “Platoon”, di “Balla coi lupi”, di “Schindler’s List”. Insomma, per anni è stato interessante commentare gli Oscar. Da un po’ di tempo, lo è molto meno. E quest’anno si è toccato il fondo.

Andiamo per punti

·         Punto 1. È difficile decidere chi, fra Chris Rock e Will Smith, sia stato più buzzurro, volgare e inopportuno. La cosa certa è che mai la cerimonia aveva raggiunto simili livelli di squallore.

·         Punto 2. Il film che ha vinto, remake di un discreto film francese, è fra i vincitori più deboli e insignificanti di sempre. Ma si aggiunge degnamente a una lista di vincitori modestissimi: dal 2011 in poi hanno vinto “Il discorso del re” (2011), “The artist” (2012), “Argo” (2013), “12 anni schiavo” (2014), “Birdman” (2015), “Il caso Spotlight” (2016), “Moonlight” (2017), “La forma dell’acqua” (2018), “Green Book” (2019), “Parasite” (2020) e “Nomadland” (2021). A parte “Argo”, divertente, e il per altro sopravvalutatissimo “Parasite”, una parata di mediocrità sconcertante. L’ultimo film notevole ad aver vinto è “The Hurt Locker” nel 2010. E non sono mancati, in questo decennio, film assai più meritevoli.

·         Punto 3. Siamo tutti contenti per Jane Campion, terza donna (dopo Kathryn Bigelow e Chloe Zhao) a vincere fra i registi, ma speriamo si possa dire che “Il potere del cane” non è il suo film migliore.

·         Punto 4. Siamo contenti (forse non tutti) per l’Oscar ad Ariana DeBose, straordinaria Anita in “West Side Story”, ma il vedere sottolineato dovunque che ha vinto perché portoricana e gay militante fa una tristezza sconfinata.

Drive my car, il film migliore

Potremmo andare avanti. Lasciateci invece dire che il film più bello, fra i candidati, era il giapponese “Drive My Car”. Dispiace per Sorrentino, e dispiace anche per il cartoon danese “Flee” e per il delizioso norvegese “La persona peggiore del mondo” (quest’anno la cinquina dei film stranieri era di altissimo livello).

Ma “Drive My Car” è uno dei grandi film del 2022, nonché di questo inizio di millennio. Una poderosa riflessione sul rapporto fra arte e vita, grazie a una messinscena teatrale di “Zio Vanja” che si insinua in maniera inarrestabile nella dolorosa vita dei protagonisti. Parte lento, “Drive My Car”, ma nell’ultima ora (su tre) vola veramente nello spazio e fa venir voglia di rileggere Cechov, uno degli autori che più ci potrebbero aiutare per superare indenni – almeno psicologicamente – i tempi perigliosi che stiamo vivendo.

E non è un caso che il film si svolga in buona parte a Hiroshima, la città dove il Giappone – ma, diremmo, l’umanità tutta – deve rielaborare il lutto di un’inenarrabile violenza.

da qui

 

 

“Drive my car”, un grande film che doveva vincere l’Oscar – Michele Emmer


Non sono stato spesso d’accordo con Crespi sul cinema. Ma questa volta devo dire che condivido pienamente quanto ha scritto su strisciarossa (leggi qui). Sono d’accordissimo sulla valutazione che “il film CODA che ha vinto, remake di un discreto film francese, (migliore ovviamente, aggiungerei io) è fra i vincitori più deboli e insignificanti di sempre.”

CODA, una sceneggiatura sublime

Aggiungerei che l’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale (sempre a CODA) è sublime. Che non sia originale è ovvio, copia (si dice in modo più raffinato che è il remake di un altro film, a parte il mestiere dei protagonisti che sono pescatori). E’ originale per il linguaggio “diverso” (dal film francese) che usa un altro linguaggio dei segni? Con una grande eccezione: il premio Oscar a Troy Kotsur come attore non protagonista è veramente meritato. Perché è un grande attore senza aggettivi e spero proprio che gli sia stato assegnato “nonostante” il fatto che fosse sordomuto. Direi che il film decolla solo quanto c’è lui presente. E purtroppo non è sempre presente.

Altri candidati erano il film Il potere del cane della Campion, prima donna candidata (si spera che accada così spesso da non doverlo più ricordare che si tratta di una donna, per qualsiasi categoria di premio Oscar) per la seconda volta alla regia e poi Kenneth Branagh (Belfast), Ryusuke Hamaguchi (Drive my car), Spielberg (West side story) e Paul Thomas Anderson (Licorice pizza).

Voglio anche sottoscrivere le affermazioni di Crespi a proposito di CODA: “Si aggiunge degnamente a una lista di vincitori modestissimi: dal 2011 in poi hanno vinto Il discorso del re (2011), The artist (2012), Argo (2013), 12 anni schiavo (2014), Birdman (2015), Il caso Spotlight (2016), Moonlight (2017), La forma dell’acqua (2018), Green Book (2019), Parasite (2020) e Nomadland (2021).”
E’ vero, c’è stata molta enfasi su Birdman e Parasite ma salverei The Artist, oltre a concordare con il giudizio su Argo.

 

Drive my car, un grande film fantastico

La cosa surreale è che tra i candidati c’era il film Drive my Car di Ryusuke Hamaguchi. Forse bisognerebbe evidenziare il fatto che il film che ha vinto era in diretta competizione con questo che ha vinto l’Oscar come miglior film straniero ma non come film senza aggettivi. Scrive Crespi: “Lasciateci invece dire che il film più bello, fra i candidati, (parla dei candidati per film stranieri) era il giapponese Drive My Car. Dispiace per Sorrentino e per il delizioso norvegese La persona peggiore del mondo (quest’anno la cinquina dei film stranieri era di altissimo livello).”

Sono totalmente d’accordo, anche sul film norvegese. Un film che parte alla lontana, va avanti poco a poco, e ci fa arrivare alla consapevolezza tramite gli occhi della straordinaria protagonista. Ci conduce alla consapevolezza della tragicità della vita, che va sempre vissuta ed affrontata.
Drive my car è un film fantastico, costruito su un testo teatrale che dovrebbe essere parte della educazione di qualsiasi persona in ogni parte del mondo, in tutte le lingue conosciute. Con un attore straordinario, una messa a fuoco, una costruzione, un avanzare a piccoli passi su quella macchina rossa, una Saab svedese che non si produce più da anni. Una macchina non giapponese che nel film diventa il luogo dell’incontro, del dialogo, della vita. E certamente non a caso ambientato ad Hiroshima e chiunque abbia visitato il memoriale e visto quello scheletro di edificio rimasto in piedi dove cadde la bomba, resta raggelato, toccato, cambiato per sempre. Non volendo riprendere le cose agghiaccianti che si sono udite di questi tempi. E Hiroshima è nel film solo una scritta su un muro. Non ha bisogno di effetti il film, sono le voci e i volti, le parole, i commenti. E la macchina rossa, non a caso rossa, la vita.

Ha ragione Crespi a scrivere che Drive My Car è uno dei grandi film del 2022, nonché di questo inizio di millennio. Una poderosa riflessione sul rapporto fra arte e vita, grazie a una messinscena teatrale di “Zio Vanja” che si insinua in maniera inarrestabile nella dolorosa vita dei protagonisti. Parte lento, Drive My Car, ma nell’ultima ora (su tre) vola veramente nello spazio e fa venir voglia di rileggere Cechov, uno degli autori che più ci potrebbero aiutare per superare indenni – almeno psicologicamente – i tempi perigliosi che stiamo vivendo.”

E’ anche un film profondamente giapponese. Che ci fa cogliere una vicinanza, grazie a Cechov, con una cultura molte volte inafferrabile, non comprensibile fino in fondo. Un film che però è difficile immaginare non girato in giapponese. Bisogna ascoltarlo in lingua originale (con i sottotitoli, almeno per me), sentire i suoni, i silenzi, le parole sussurrate, quelle dette, quelle lasciate in sospeso, nel teatro, nella vita, nella macchina rossa, la vita. Quest’anno la cinquina dei film stranieri era effettivamente di altissimo livello.

Viene il sospetto che assegnando al film giapponese l’Oscar per il miglior film straniero i giurati abbiano tolto di mezzo un concorrente autorevole anche per il premio del miglior film tout court. Peraltro bisogna ricordare che al non paragonabile Parasite nel 2020 erano stati assegnati sia il premio Oscar come miglior film che come miglior film straniero. Se lo avessero preso in considerazione come miglior film avrebbe dovuto vincere.
Come film d’animazione avevo puntato su Luca, con i suoi rimandi al cinema, alla Vespa nel cinema. Certo, sono forse anche stato influenzato dal fatto che nel film che rese divina la Vespa, Vacanze Romane tutte le scene in Vespa per Roma sono state girate da mio padre Luciano Emmer.

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