Wes Anderson (come Woody Allen, d'altronde) ha un destino: incassare più nel resto del mondo (in Europa, sopratutto) che negli Usa.
non si smentisce in un film che, le altre cose, è un omaggio alla rivista New Yorker (almeno quella della sua gioventù) e al cinema europeo (francese sopratutto), oltre che un ricordo di alcuni scrittori del giornale, James Baldwin il più famoso da noi (visto che Raoul Peck ha girato un bel film su di lui).
gli attori sono di serie A, e si vede, si consegnano nelle mani di Wes Anderson, lui sa cosa farne.
il film è uno spettacolo di fuochi d'artificio, senza effetti speciali, non ce n'e bisogno, è un film speciale per conto suo (come tutti quelli di Wes).
è anche un film un po' triste, visto che si parla dei bei tempi andati, quando ciascuno degli articoli del New Yorker avevano la cura, la profondità, la curiosità, e anche la perfezione, di un bel libro.
naturalmente coloro i quali non sopportano i film di Wes Anderson stano a casa, non sapranno quello che si perdono, per tutti gli altri fate la fila al cinema, non sarete delusi.
buona (wesandersoniana) visione - Ismaele
…Con una struttura
di storie a incastro che rimanda alle favole di Le Mille e una notte, The
French Dispatch (a partire dal titolo) è una perspicua
dichiarazione d’amore nei confronti del cinema francese. Un biglietto di
ringraziamento a registi come Julien Duvivier, Marcel Pagnol, Jean Grémillon,
Jacques Tati, Jean-Pierre Melville, Truffaut, Louis Malle, Godard e soprattutto
Jean Renoir. Ma il film anche un accorato omaggio alla alle pagine della
rivista The New Yorker (che Wes Anderson divorava sin
dalle superiori). Anzi la pellicola tenta l’impresa quasi impossibile di
trasportare sullo schermo lo spirito salace e indipendente del magazine
americano insieme alla verve di Harold Ross, co-fondatore del periodico, e
William Shawn, il suo successore. Ça va sans dire,
assemblare il numero di una rivista in una pellicola è ostico perché una
sceneggiatura non è un menabò e le immagini non sono parole scritte a macchina.
Ma il cinema è, spesso e volentieri, una sfida, il tentativo di rappresentare
l’impossibile…
…Con un cast corale davvero
sensazionale, Wes Anderson ricerca l’umanità in un film che ripercorre, in
parte, la storia del giornalismo. È perciò un atto d’amore, come lo stesso
Anderson lo ha definito, nei confronti di quei giornalisti che hanno lasciato
al mondo cronache e reportage che, seppur incentrati su eventi o persone
terribili, hanno cercato di concludere ogni pezzo nella maniera più dolce
possibile. The French Dispatch è storia del giornalismo ma è anche un tributo
al cinema francese e in generale quello europeo; nell’opera si ravvisano sequenze
già viste, omaggi spesso velati, ed episodi che strizzano l’occhio al Novecento
(l’epoca in cui Anderson sembra essersi fermato).
Ed è proprio nella
contemplazione del XX° secolo che il regista costruisce non enormi affreschi,
ma piccole tavole dagli innumerevoli dettagli, che rasentano i colori accesi
dei pittori fiamminghi e i piccoli frati di Norberto, incastonati sempre in
mezzo agli ulivi e alle mura di una qualche città medievale. Anderson
punta anche al semplice schizzo e al fumetto, mentre in altre scene preferisce
intervallare un bianco e nero che davvero imita i grandi film francesi della
Nouvelle Vague; spesso va ancora più indietro, soffermandosi al Neorealismo o
andando a ricercare l’espressionismo del cinema tedesco degli anni Venti…
…The French Dispatch seems formulated in a lab for my narrative preferences. It’s
not just that Ennui-sur-Blasé stands in for some imagined version of Paris, the
kind that Francophile Americans imagine still exists in some corner of that
storied town, a little seedy but also incredibly cute. It’s that the whole film
is a tribute to the kind of literary magazine that so many writers of my
vintage dream of working for, specifically the New Yorker, whose famed
editors and writers, like Mavis Gallant, Harold Ross, and James Baldwin,
furnish the models for a number of the film’s characters…
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