la conquista dell'America da parte degli emigrati europei oltre le proprie inospitali frontiere verso la nuova Frontiera non fu una passeggiata.
gli indiani erano già emarginati, ma era la loro terra, e danno una mano a quella povera gente sui carri, con solo le lacrime per piangere.
erano quelli che rubavano loro le terre, quegli europei, ma non capivano, forse, che lo stavano facendo.
una traversata durissima verso l'Oregon, con le donne che prendono in mano la situazione, verso la salvezza.
un film senza vincitori, solo con molti vinti.
Kelly Reichardt è una sicurezza, si astengano i fans di Tarantino, troppo poco sangue e poco rumore, per loro, per noi tante piccole cose, sguardi, movimenti, relazioni, conflitti, per un gran film.
buona visione - Ismaele
…Il senso
di Meek's Cutoff va ricercato nella
dialettica implicita dei protagonisti con gli spazi, i vuoi, i silenzi; nella
lenta emersione delle figure femminili del film, che da silenziose figure
dedite solo all'ascolto dei loro uomini si fanno, nel personaggio di Michelle
Williams, vere protagoniste attive e coagenti; nella testarda volontà
della regista di accettare e abbracciare l'ignoto. La dilatazione del tempo e
dello spazio assume in questo contesto un valore da un lato sovversivo e
dall'altro di accesso ad una dimensione poetica e ideologica nella quale le
posizioni dei personaggi trascendono la loro evidenza: e Meek's Cutoff diviene
un lucido trip metafisico, dove la mancanza di riferimenti certi costringe a
ripensare e ripensarsi. Ben oltre un finale sospeso ed enigmatico che dilata il
film oltre i suoi spazi fisici.
Bollato da alcuni come punitivo o noioso, Meek's
Cutoff è in realtà un film di enorme fascino e di inusuale
spessore, che oltre a questo ha anche il merito di "assicurare una
selezione darwiniana dello spettatore", per dirla con le parole di un
collega.
E' il 1845, sono i primi giorni dell'Oregon
Trail e una carovana di tre famiglie ha assunto Stephen Meek perché li
accompagni fino alle montagne di Cascade. Affermando di conoscere una
scorciatoia, Meek guida il gruppo su un sentiero non tracciato, attraverso un
deserto sugli altipiani. Quando un nativo americano incrocia la loro via, i
pionieri si troveranno a dover decidere se riporre ancora fiducia nella loro
guida oppure, affidarsi al "nemico". Firmato da una poetessa del
cinema indipendente statunitense, Meek's Catoff è una
singolarissima rivisitazione del mito della frontiera che ne scardina alcuni
elementi costitutivi, per creare invece un West tutto al femminile, composto di
silenzi e spazi vuoti.
Significativa, a tal proposito, nelle prime battute della pellicola, la lettura
da parte di una coppia di coloni del brano sulla cacciata di Adamo ed Eva.
Rovesciando l'immaginario di una sorta di Eden terrestre, vagheggiato dai primi
pionieri che si avviavano verso le "terre promesse", armati di
Bibbia, Kelly Reichardt, ispirandosi alla figura realmente esistita di un uomo
che condusse una carovana di duecento carri in una zona priva di acqua, sceglie
un paesaggio desertico…
…Tre coppie – ci sono Michelle Williams e
Paul Dano per l’appeal commerciale, si fa per dire… – sono chiamate
ad ascoltare la voce di uno che grida nel deserto: Meek, che guida senza
comandi, già perduto ma pronto a perdersi e perdere nuovamente, oppure
l’indiano, il nemico di sempre, quello “che non è come noi”? Dovranno
scegliere, e sceglie pure il film: lo fa Meek, senza mollare le dinamiche
servo-padrone – “Comanda lui”, l’indiano, si rassegnerà a dire – e lo
fanno questi pellegrini per caso. Per eguale necessità e, forse, per
differente, altrui virtù.
Sono questi gli sparuti eventi, che mancano al
film come l’acqua ai personaggi: mancano, ovvero sottraggono,
tolgono stilemi e topoi al genere eccelso del cinema americano, il
western. Scrittura cinematografica e riscrittura dell’immaginario: questo
è Meek’s Cutoff, che conferma come saper eliminare l’inutile
costituisca la forza del genio…
…Più dell’evoluzione dell’esile soggetto
la regista si concentra sui suoni, spesso fissi e prolungati, capaci di
insinuare l’inquietudine, e sui rumori d’ambiente, sia della natura che del
quotidiano (una ciotola lavata nell’acqua, un cucchiaio che raschia un piatto,
un coltello che segna un legno). Tale minimalismo contemplativo entra in
conflitto con le esigenze del racconto. Esigenze lecite, date le premesse che
comunque pongono interrogativi, e disattese alla luce della chiusa che non va
nella direzione che ci si aspetta. Scelta forzata ma incisiva, perché avrebbe
distolto da ciò che evidentemente preme alla regista. Poco importa, quindi, che
l’indiano sia buono oppure no. L’importante è che la sua presenza abbia
comportato un’evoluzione nella percezione dell’altro da parte dei personaggi.
L’acqua potrà essere vicina o lontana, ma nulla, in ogni caso, sarà più come
prima. Ed è da questi piccoli passi, la Reichardt ci fa intendere, più che dai
grandi eventi a essi conseguenti, che ha preso forma l’America come la
conosciamo oggi.
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