sabato 29 febbraio 2020

American Honey – Andrea Arnold

Andrea Arnold si sposta negli Usa, per girare un film dei suoi, protagonisti ragazzi e ragazze senza futuro.
lavorano per una schiavista, Krystal (l'attrice è Riley Keough, vista recentemente in The lodge), che muove una truppa di disadattati di città in città, per fregare il prossimo, vendendo abbonamenti a riviste.
i giovanotti/e fregano anche nelle case, quando possono, e il tempo libero dalla schiavitù (una schiavitù moderna, peggio di quella antica, illudendo gli schiavi di essere liberi) lo passano sballandosi con qualsiasi sostanza che si possono permettere.
il caporale della truppa è Jake (un bravissimo LaBeouf), intermediario fra la comandante e la truppa.
fra le schiavette, ma non domata, c'è Star (un'indimenticabile Sasha Lane) che entra nel gruppo lasciando i due bambini che trattava come figli, stregata da Jake.
lei capisce che fa schifo quello che fanno, ma resta per amore di Jake, che a sua volta la protegge e la taglieggia insieme.
ma Jake non fuggirà per lei, ormai è fregato.
e Star sarà sola, in un futuro sconosciuto.
verso la fine della storia Star sembra Bess (l'eroina dell'immenso Le onde del destino, che si vende per amore). e poi incontra anche dei bambini disperati.
questo sono gli Stati Uniti d'America, questo noi vediamo, ricchi pochi e poveri moltissimi, illusi di stare nel migliore dei mondi possibili, tra sfruttamento, consumismo e distruzione della natura, e Star crescerà.
un film da non perdere, non potrà lasciare nessuno indifferenti, forse i morti soltanto, forse.
buona visione - Ismaele














…Arnold opta por realizar una particular road movie, para hacer un intenso retrato de la América de Trump, poblada por jóvenes que se integran en un mercado laboral sin derechos, sin seguro médico. Donde la pobreza no entiende de si posees un puesto de trabajo o no. Una clase pobre trabajadora que parece invisible a los ojos del resto de la sociedad. Aun así, Jake y Star tienen un sueño, que el espectador acabará descubriendo al final del filme. Otro tema es hasta dónde estás dispuesto a dar para alcanzarlo. Porque la cruda realidad se impone a los protagonistas. Como en cualquier empresa los trabajadores se verán explotados. Estos harán uso de múltiples triquiñuelas para intentar alcanzar su sueño. A la par que la empresa hará todo lo posible para engancharles literalmente a un modo de vida, supuestamente más libre, porque irónicamente es mucho más esclavizador en todos los sentidos, porque al que rinde menos se le castiga físicamente.
El espectador se verá inmerso en el seno de ese particular grupo de trabajo gracias a la narrativa empleada por Arnold, marcada por unos primerísimos y primeros planos, que dotan de gran intensidad al relato. Invita al espectador a compartir este hermoso y duro viaje con estos grandes personajes que rebosan vida y verosimilitud, gracias al magnífico trabajo de Sasha Lane y Shia LaBeouf. Por eso, podríamos decir que lleva un paso más allá la narrativa de “Fish Tank”. Sigue jugando con los mismos elementos, la música, el realismo, pero fotográficamente se ha vuelto más estética y costumbrista. Busca en la fotografía, con encuadres perfectos, los colores vivos, fuertes, que rebosen esa vida que quiere analizar. En cierta medida es una revisitación del espíritu hippie en el buen sentido, esos personajes que se comen la vida a bocados, que tienen como bandera la libertad, que poseen una mirada dulce, inocente y pura de la realidad, parafraseando la canción que da título a la película.

“American Honey” es un largometraje de imprescindible visionado. Está entre las diez mejores mejores películas de este año que está a punto de acabar, porque es una interesantísima revisitación del Sueño Americano. Dará mucho que hablar porque la veremos en premios como los Globos de Oro o los Oscars, porque es una obra lúcida, cautivadora, honesta y cargada de sentimientos. Sus imágenes cautivadoras nos invitan a viajar al núcleo del verdadero drama estadounidense que nos será revelado al final del largometraje.

…La cinepresa di Andrea Arnold trova il paragone più adeguato nel cinema di Kechiche e in particolare ne La vita di Adele. Teoricamente lontane nelle loro parabole, Star e Adele di fatto abitano lo stesso spazio cinematografico e ottengono il medesimo trattamento: una vita e un amore iscritti dentro un naturalismo. Alla domanda «Qual è il tuo sogno?», Star risponde: «Avere un posto tutto mio». E questo posto dov’è? Non nella comunità dei venditori in cui Star resta altalenante e non avrà un amore felice, non nella società che l’ha esclusa in partenza. Lo spazio cercato, forse, è nello stesso movimento, nelle riprese a spalla, nelle ombre e nelle luci. Arnold cattura un insetto sul vetro sporco, un ragno sul muro, nel finale delle lucciole che volano al buio in una chiusura visiva circolare che fa rima con l’inizio nel sole. Eccolo, il suo posto: impossibile da trovare tra gli uomini perché è già dentro l’inquadratura. Lo struggente modo di girare le offre una collocazione che non esiste di fuori: è l’immagine l’unico luogo che Star può davvero abitare.

la referencia a Trump cobra sentido y realidad casi desde el comienzo del metraje, cuando el personaje interpretado con gran emoción por Shia Labeouf, de nombre Jake, describe su atuendo como Donald Trumpish. Y es que la cineasta británica se desplazó a Estados Unidos el año pasado para rodar esta cinta (antes de estrenarla en Cannes este verano, donde se hizo con el premio del jurado), cuando el nuevo presidente norteamericano ya se había consolidado en las primarias y su visibilidad ya de por sí considerable se había vuelto omnipresente. Pues bien, en ese momento Jake se dirige a la protagonista Star, a cargo de la novata y prometedora Sasha Lane, a quien le despierta curiosidad ese individuo que trata de vestir con algo más de elegancia que el resto de la banda white trash que le acompaña, en un negocio de venta de suscripciones a revistas al que casi sin dudarlo se une la propia Star, dejando atrás a una familia pobre y rota. A partir de ahí asistiremos a un recorrido episódico por la América profunda, la de las mujeres evangelistas, trabajadores de la tierra y vaqueros anacrónicos, mientras la camioneta en la que viajan estos personajes, liderados por la maquiavélica amante de Jake, Krystal (Riley Keough), no revela tantas expectativas profesionales como obstáculos que les impiden salir de un bucle presente. La persistente imagen que presenciamos entonces, la de unos jóvenes a la deriva mejor o peor vestidos, o incluso sin ropa alguna, reformula la interpretación que adelantábamos: esta muestra de la especie white trash como potenciales votantes de Trump en realidad no es tal si la contraponemos con sus futuribles clientes, de las antedichas categorías sociales, que son los que sí encajan entre tales electores, aún cuando su background sea casi opuesto. Si con estas elecciones se ha querido dibujar la geografía de este país como dividida en dos, siguiendo unos clivajes campo/ciudad o laicidad/confesionalidad, Arnold se encarga de darle la vuelta con este fuerte contraste entre sus personajes principales y secundarios…

Non è oro tutto quel che luccica: tutto il gruppo, Jack compreso, è dominato da Krystal (Riley Keough), una bionda dalla bellezza fredda che si sposta su un’auto sportiva. A lei tutti, Jack compreso, portano i proventi della giornata. In termini di sfruttamento non siamo molto lontani dal gruppetto di ragazzi usati da Fagin in Oliver Twist. Occupano temporaneamente case vuote, e vanno in cerca di lettori a cui vendere abbonamenti a ogni tipo di rivista, dal porno alla pesca. L’attività, rispetto al romanzo di Dickens, è senz’altro legale, ma sulle modalità ci sarebbe da discutere. Il film infatti è ispirato da un’inchiesta del New York Times che denunciava questo tipo di sfruttamento.
Lo spettatore è trascinato on the road. Ma i paesaggi e i grandi spazi, cosi tipici della mitologia di questo tipo di viaggio, sono sostanzialmente lasciati fuori campo: all’America dei villini della classe medio-alta, magari obnubilata dalla destra fondamentalista, succede più spesso ancora quella suburbana, le aree di parcheggio dei grandi camion, gli impianti petroliferi. La fauna umana incontrata, in genere maschile, è varia, talvolta degna, talvolta meno, nessuno è ignobile veramente.
Filmato camera a spalla con un ritmo irrefrenabile ma non faticoso, accompagnato da una straordinaria colonna sonora dominante ma non fastidiosa (Arnold sa usare molto bene anche le pause, o forse sarebbe meglio dire le stasi, i silenzi), questo ritratto dell’America dimenticata appassiona dall’inizio alla fine.
Una ricerca di vita, una bellezza colta nel suo movimento in quanto tale, al fine di sottrarsi alla sporcizia, alla palude, alla bidonville non dichiarata. Star come tutti cerca l’amore, ma quando capita in una casa di bambini chiassosi e adorabili e poi vede la loro madre sdraiata sul divano con accanto una siringa, si rende conto di esser tornata alla casella di partenza, e fugge via. Per riprendere la sua ricerca dell’amore. Con Jack o senza.
Quello che differenzia American Honey dai precedenti lavori di Andrea Arnold è la ricerca estetica. Fantastico il lavoro nel montaggio e nel sonoro, ma a sbalordire è soprattutto la fotografia sfolgorante dello scozzese Robbie Ryan. Il formato a 4:3 serve forse a ricordarci che quella che abbiamo davanti è la generazione di Instagram e degli smartphone, ma questo film non è un selfie, anzi questi ragazzi degli smartphone fanno per lo più a meno; probabilmente perché non se li possono permettere, ma forse anche perché non ne sentono il bisogno. American Honey, con il limite forse di non osare più di tanto, di non essere abbastanza provocatorio, non racconta i millennial con la freddezza raggelante di Sofia Coppola di Bling Ring. Non mostra il vuoto cosmico di un party senza fine come Spring Breakers - Una vacanza da sballo di Harmony Korine. Racconta la bellezza nonostante tutto, la speranza abbandonata sul fondo del vaso di Pandora. O nelle braci di un fuoco intorno al quale ballare fino all'alba.
da qui


E’ però proprio l’aspetto visivo, la parte migliore di American Honey, perché campagne, strade e città sono riprese senza artifici (nemmeno quelli legati al formato dell’immagine) e per questo colpiscono maggiormente. La Arnold è brava anche a non farsi prendere troppo la mano dagli ambienti, evitando così un effetto turistico che sarebbe stato davvero fastidioso. Il suo sguardo è anzi molto asettico, quasi documentaristico, che non tradisce affetto né astio ma solo interesse e curiosità. Come detto, però, il viaggio si dipana troppo lungamente per le poche cose che vuole illustrare ed è veramente incredibile pensare che manchi ancora più di un’ora quando tutto sembra essere arrivato alla sua conclusione. La conclusione vera, invece, è quanto di più banale e telefonato si poteva pensare. Proprio per questo è perfettamente coerente, certo, ma contribuisce a dare l’impressione di non aver visto nulla che meritasse il tempo speso per vederlo.




qui uno straordinario cortometraggio di Andrea Arnold, premio Oscar nel 2005:

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