una ragazza riprende con la sua videocamera quello che vede ad Aleppo.
e quello che vede è la guerra, contro Aleppo, l'assedio, le bombe, i feriti e i morti.
il marito, il padre di Sama, è un medico che lavora come e quanto si può, in ospedali di fortuna, con bombe che piovono in testa.
Waad registra e quello che vediamo è un pezzo di una guerra schifosa, dove muoiono moltissimi civili, bambini compresi.
chi ti lancia le bombe spara sul mucchio, tutto è danno collaterale.
nel film non si vedono soldati, solo sangue.
Sama, che, forse, non capisce, sorride, e diventa l'àncora a cui si aggrappano i genitori.
il film non è un libro di storia, chi cerca di uccidere te e i tuoi amici è il Diavolo, senza aggettivi.
la guerra, la distruzione, l'esodo non hanno mai fine, purtroppo.
come sempre Bertolt Brecht ha le parole giuste:
La guerra che verrà
non è la prima. Prima
ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
faceva la fame. Fra i vincitori
faceva la fame la povera gente
egualmente.
non è la prima. Prima
ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
faceva la fame. Fra i vincitori
faceva la fame la povera gente
egualmente.
non perdetevelo, se riuscite a trovarlo - Ismaele
…il film non si configura solo come un potenziale testamento privato e
collettivo in fieri, ma anche come il racconto urgente e umanissimo di una
crescita personale, accelerata dagli eventi, che trasforma una ragazza in una
donna e madre, e una giovane filmaker in una giornalista coraggiosa e
rispettata, una voce dalla primissima linea, tutto senza pregiudicare
l'intimità del suo obiettivo, inteso nel duplice significato di mezzo e fine.
Al centro di ciò, e dell'immagine e del sentire dello spettatore, c'è la piccolissima Sama, cuore pulsante della rivoluzione, termometro di sopravvivenza, miracolo incastonato nell'orrore della tragedia nella tragedia: il genocidio dei bambini siriani. Della loro sofferenza, ma anche della loro resistenza, Sama è il simbolo toccante e universale.
Al centro di ciò, e dell'immagine e del sentire dello spettatore, c'è la piccolissima Sama, cuore pulsante della rivoluzione, termometro di sopravvivenza, miracolo incastonato nell'orrore della tragedia nella tragedia: il genocidio dei bambini siriani. Della loro sofferenza, ma anche della loro resistenza, Sama è il simbolo toccante e universale.
La camera di Waad inquadra i morti, lo strazio, il lutto,
il terrore, senza censurarsi ma senza indugiare: c'è una bontà dello sguardo,
che il lavoro di editing pensato con Edward Watts incornicia ed illumina, che
fa sì che, laddove la denuncia è necessaria ma la visione intollerabile, sia la
commozione a prevalere infine sull'orrore, il desiderio di vita su quello di
morte, il sogno del futuro sul rimpianto del passato e sull'oscurità del
presente.
Un film destinato a entrare nella storia del documentario e delle colpe collettive di un secolo.
Un film destinato a entrare nella storia del documentario e delle colpe collettive di un secolo.
…Come giornalista, Waad era una fonte molto rispettata
durante l’assedio. Lavorava per il canale britannico Channel 4 per cui ha
prodotto video potentissimi. Quando parla inglese nei suoi video è ancora più
straziante, si percepisce che attraverso l’inglese prova ad attirare
l’attenzione del mondo sull’orrore che stanno vivendo i siriani. Come lei,
molti aleppini credevano che il mondo li avrebbe aiutati se avesse saputo la
verità. Invece, il mondo è rimasto in assoluto silenzio.
Per noi, spettatori di For Sama, c’è però una
consolazione. I membri di questa piccola e bellissima famiglia coraggiosa sono
vivi. Il loro coraggio e la loro speranza fanno ricredere nell’umanità. Come
molti siriani scampati ai bombardamenti ci ricordano quello che in Europa si
ricordano ormai solo pochi anziani, spiega Waad: il solo fatto di essere vivi
ha valore.
…Lo sguardo
di Al-Kateab esce solo raramente da dietro la videocamera, azzerando così il
gioco di specchi della più classica finzione cinematografica. I corpora
Christi delle vittime dei bombardamenti sono scioccantemente reali.
La regista lo sa, e ne evita la trasformazione in feticcio, presentandoli non
come risultato di voyeurismo per accumulazione, ma come simbolo di riconoscenza
per il valore della vita. E affermare, come fa Al-Kateab, che un’esistenza
spesa intrappolati come topi in fatiscenti edifici di calcina abbia un
significato ha la forza rivoluzionaria della verità più appassionata e
impenitente.
Grazie a un voice-over puntuale, mai
petulante, e all’intelligente lavoro di montaggio e rimaneggiamento dei filmati
di Al-Kateab ad opera di Chloe Lambourne e Simon McMahon, Alla
mia piccola Sama fluisce libero al confine tra vlog e diaristica
intima, consegnando alla posterità un complesso, ipnotizzante resoconto dei
mesi di quarantena bellica trascorsi nell’ancor libera Aleppo nella speranza di
un futuro luminoso. E in quel barlume di vita inossidabile danza la fragile,
minuscola figura di un infante. E forse, un giorno, Sama verrà a conoscenza di
essere stata la più assurda tra tutte le ragioni di sopravvivenza, ma anche la
più desiderata; la più azzardata; la più umana.
Se dunque il filosofo tedesco Theodor Adorno
si era solennemente pronunciato contro la possibilità di tornare a scrivere
poesia sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale e dei suoi orrori, Waad
Al-Kateab sembra giunta per aggiornarne la lezione, e dimostrare che non solo
l’arte, nella disperazione, è ancora possibile, per non dire essenziale; ma
anche che l’unica via d’uscita è, come Sisifo, essere un po’ assurdi, e
appassionati. Perché tutto questo, Sama, per dirla alla Jane Austen, è stato
fatto per voi. Che il masso continui a cadere. Ora l’assurdo non fa più paura.
Bisogna immaginare Al-Kateab felice.
…Lo sguardo spaventato ma amorevole di Waad ci racconta il
disperato tentativo di protendersi verso un’esistenza normale in un contesto
agghiacciante e disumanizzato. Difficile non provare un moto di tormento e
commozione nell’assistere a scene di ordinaria vita casalinga interrotte dai
suoni dei raid aerei e delle bombe o nel vedere la semplicità con cui i
genitori, attraverso il classico meccanismo del racconto, istruiscono i propri
figli sulla pericolosità di ciò che li circonda e sulla necessità di mettersi
al riparo il prima possibile in caso di attacco. Come difficile è del resto
pretendere dalla regista e dal collega Edward Watts, che l’ha
aiutata nell’assemblaggio dei suoi filmati, uno sguardo lucido e critico su un
dramma come quello siriano, che la tocca troppo nel profondo ed è ben lontano
da una conclusione.
Alla mia piccola Sama dipinge Assad e i
suoi alleati (in particolare i russi) come il male assoluto, mentre i ribelli
sono, senza distinzioni, il simbolo della rivoluzione e della lotta contro il
regime. Buoni da una parte e cattivi dall’altra, senza chiaroscuri o un’analisi
più distaccata degli avvenimenti, magari in correlazione al fenomeno più ampio
della Primavera araba. In documentari di altro genere, la scelta di Waad e la
sua partigianeria (peraltro del tutto motivata e comprensibile) sarebbero state
limitanti per il risultato finale. In Alla mia piccola Sama invece,
questo trionfo della soggettività e la totale sovrapposizione fra sguardo e
racconto diventano il valore aggiunto di un direct cinema davanti al quale non
si può che restare attoniti.
Chi cerca da Alla mia piccola
Sama una vera e propria inchiesta giornalistica che delinei un
quadro preciso e accurato della situazione siriana, potrebbe rimanere deluso da
una narrazione fortemente intima e personale, che non si pone neanche il
problema di analizzare i fatti da un punto di vista diverso da quello ribelle.
Per quanto ci riguarda invece, ci saranno tempi e modi diversi per
contestualizzare e approfondire il dramma umano e sociale che sta vivendo la
Siria. Accogliamo quindi con sgomento e partecipazione questo rarissimo esempio
di coraggio e tenacia, che, col pensiero sempre rivolto verso il futuro e verso
chi verrà dopo di noi, ci porta dentro al campo di battaglia, senza mai
indietreggiare o voltarsi dall’altra parte, mostrandoci sangue, morte e
devastazione e lasciandoci con la flebile speranza che un giorno non lontano
questo orrore possa terminare.
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