martedì 18 febbraio 2020

Alla mia piccola Sama – Waad Al-Kateab, Edward Watts

miracolosamente questo documentario arriva in sala.
una ragazza riprende con la sua videocamera quello che vede ad Aleppo. 
e quello che vede è la guerra, contro Aleppo, l'assedio, le bombe, i feriti e i morti.
il marito, il padre di Sama, è un medico che lavora come e quanto si può, in ospedali di fortuna, con bombe che piovono in testa.
Waad registra e quello che vediamo è un pezzo di una guerra schifosa, dove muoiono moltissimi civili, bambini compresi.
chi ti lancia le bombe spara sul mucchio, tutto è danno collaterale.
nel film non si vedono soldati, solo sangue.
Sama, che, forse, non capisce, sorride, e diventa l'àncora a cui si aggrappano i genitori.
il film non è un libro di storia, chi cerca di uccidere te e i tuoi amici è il Diavolo, senza aggettivi.
la guerra, la distruzione, l'esodo non hanno mai fine, purtroppo.
come sempre Bertolt Brecht ha le parole giuste:


La guerra che verrà
non è la prima. Prima
ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
faceva la fame. Fra i vincitori
faceva la fame la povera gente
egualmente.

non perdetevelo, se riuscite a trovarlo - Ismaele





il film non si configura solo come un potenziale testamento privato e collettivo in fieri, ma anche come il racconto urgente e umanissimo di una crescita personale, accelerata dagli eventi, che trasforma una ragazza in una donna e madre, e una giovane filmaker in una giornalista coraggiosa e rispettata, una voce dalla primissima linea, tutto senza pregiudicare l'intimità del suo obiettivo, inteso nel duplice significato di mezzo e fine.
Al centro di ciò, e dell'immagine e del sentire dello spettatore, c'è la piccolissima Sama, cuore pulsante della rivoluzione, termometro di sopravvivenza, miracolo incastonato nell'orrore della tragedia nella tragedia: il genocidio dei bambini siriani. Della loro sofferenza, ma anche della loro resistenza, Sama è il simbolo toccante e universale.
La camera di Waad inquadra i morti, lo strazio, il lutto, il terrore, senza censurarsi ma senza indugiare: c'è una bontà dello sguardo, che il lavoro di editing pensato con Edward Watts incornicia ed illumina, che fa sì che, laddove la denuncia è necessaria ma la visione intollerabile, sia la commozione a prevalere infine sull'orrore, il desiderio di vita su quello di morte, il sogno del futuro sul rimpianto del passato e sull'oscurità del presente.
Un film destinato a entrare nella storia del documentario e delle colpe collettive di un secolo.

Come giornalista, Waad era una fonte molto rispettata durante l’assedio. Lavorava per il canale britannico Channel 4 per cui ha prodotto video potentissimi. Quando parla inglese nei suoi video è ancora più straziante, si percepisce che attraverso l’inglese prova ad attirare l’attenzione del mondo sull’orrore che stanno vivendo i siriani. Come lei, molti aleppini credevano che il mondo li avrebbe aiutati se avesse saputo la verità. Invece, il mondo è rimasto in assoluto silenzio.
Per noi, spettatori di For Sama, c’è però una consolazione. I membri di questa piccola e bellissima famiglia coraggiosa sono vivi. Il loro coraggio e la loro speranza fanno ricredere nell’umanità. Come molti siriani scampati ai bombardamenti ci ricordano quello che in Europa si ricordano ormai solo pochi anziani, spiega Waad: il solo fatto di essere vivi ha valore.

Lo sguardo di Al-Kateab esce solo raramente da dietro la videocamera, azzerando così il gioco di specchi della più classica finzione cinematografica. I corpora Christi delle vittime dei bombardamenti sono scioccantemente reali. La regista lo sa, e ne evita la trasformazione in feticcio, presentandoli non come risultato di voyeurismo per accumulazione, ma come simbolo di riconoscenza per il valore della vita. E affermare, come fa Al-Kateab, che un’esistenza spesa intrappolati come topi in fatiscenti edifici di calcina abbia un significato ha la forza rivoluzionaria della verità più appassionata e impenitente.
Grazie a un voice-over puntuale, mai petulante, e all’intelligente lavoro di montaggio e rimaneggiamento dei filmati di Al-Kateab ad opera di Chloe Lambourne e Simon McMahon,  Alla mia piccola Sama fluisce libero al confine tra vlog e diaristica intima, consegnando alla posterità un complesso, ipnotizzante resoconto dei mesi di quarantena bellica trascorsi nell’ancor libera Aleppo nella speranza di un futuro luminoso. E in quel barlume di vita inossidabile danza la fragile, minuscola figura di un infante. E forse, un giorno, Sama verrà a conoscenza di essere stata la più assurda tra tutte le ragioni di sopravvivenza, ma anche la più desiderata; la più azzardata; la più umana.
Se dunque il filosofo tedesco Theodor Adorno si era solennemente pronunciato contro la possibilità di tornare a scrivere poesia sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale e dei suoi orrori, Waad Al-Kateab sembra giunta per aggiornarne la lezione, e dimostrare che non solo l’arte, nella disperazione, è ancora possibile, per non dire essenziale; ma anche che l’unica via d’uscita è, come Sisifo, essere un po’ assurdi, e appassionati. Perché tutto questo, Sama, per dirla alla Jane Austen, è stato fatto per voi. Che il masso continui a cadere. Ora l’assurdo non fa più paura. Bisogna immaginare Al-Kateab felice.

Lo sguardo spaventato ma amorevole di Waad ci racconta il disperato tentativo di protendersi verso un’esistenza normale in un contesto agghiacciante e disumanizzato. Difficile non provare un moto di tormento e commozione nell’assistere a scene di ordinaria vita casalinga interrotte dai suoni dei raid aerei e delle bombe o nel vedere la semplicità con cui i genitori, attraverso il classico meccanismo del racconto, istruiscono i propri figli sulla pericolosità di ciò che li circonda e sulla necessità di mettersi al riparo il prima possibile in caso di attacco. Come difficile è del resto pretendere dalla regista e dal collega Edward Watts, che l’ha aiutata nell’assemblaggio dei suoi filmati, uno sguardo lucido e critico su un dramma come quello siriano, che la tocca troppo nel profondo ed è ben lontano da una conclusione.
Alla mia piccola Sama dipinge Assad e i suoi alleati (in particolare i russi) come il male assoluto, mentre i ribelli sono, senza distinzioni, il simbolo della rivoluzione e della lotta contro il regime. Buoni da una parte e cattivi dall’altra, senza chiaroscuri o un’analisi più distaccata degli avvenimenti, magari in correlazione al fenomeno più ampio della Primavera araba. In documentari di altro genere, la scelta di Waad e la sua partigianeria (peraltro del tutto motivata e comprensibile) sarebbero state limitanti per il risultato finale. In Alla mia piccola Sama invece, questo trionfo della soggettività e la totale sovrapposizione fra sguardo e racconto diventano il valore aggiunto di un direct cinema davanti al quale non si può che restare attoniti.
Chi cerca da Alla mia piccola Sama una vera e propria inchiesta giornalistica che delinei un quadro preciso e accurato della situazione siriana, potrebbe rimanere deluso da una narrazione fortemente intima e personale, che non si pone neanche il problema di analizzare i fatti da un punto di vista diverso da quello ribelle. Per quanto ci riguarda invece, ci saranno tempi e modi diversi per contestualizzare e approfondire il dramma umano e sociale che sta vivendo la Siria. Accogliamo quindi con sgomento e partecipazione questo rarissimo esempio di coraggio e tenacia, che, col pensiero sempre rivolto verso il futuro e verso chi verrà dopo di noi, ci porta dentro al campo di battaglia, senza mai indietreggiare o voltarsi dall’altra parte, mostrandoci sangue, morte e devastazione e lasciandoci con la flebile speranza che un giorno non lontano questo orrore possa terminare.

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